Capitolo XVI.
Un papato a termine
Due papi in Vaticano. E all’orizzonte si profila un pontefice a termine. L’anno 2013 ha messo in moto un rivolgimento imprevedibile nella cattolicità. Cambia il profilo del papato e Francesco sta mutando il modello di Chiesa. Il successore tornerà probabilmente a vivere nell’appartamento papale, ma non potrà più presentarsi con i paludamenti del passato. Soprattutto non riuscirà più ad esercitare un potere autoritario senza limiti. L’assolutismo imperiale dei pontefici è stato incrinato irreversibilmente. Papa Francesco si è presentato al mondo come discepolo di Gesù, dopo di lui è difficile che un papa possa salire sul trono pretendendo di essere il plenipotenziario di Cristo.
Papa Francesco non ha molto tempo per la sua rivoluzione. In Argentina, dove molti gli davano del tu e hanno meno timore reverenziale, parecchi esponenti religiosi mettono in conto che gli anni a disposizione non siano molti. La Chiesa è un corpo che si muove lentamente e ancora più lentamente si trasforma. Bergoglio ha un arco temporale limitato per realizzare il suo programma.
Padre Ignacio Pérez del Viso, suo antico docente, afferma che il pontefice «si rende conto di non avere dinanzi a sé un papato ventennale. Sente la pressione delle riforme, che deve attuare entro tre o quattro anni». Non può lasciarsi frenare. «Deve agire finché sente l’appoggio della gente». È un’opinione abbastanza diffusa negli ambienti cattolici di Buenos Aires. L’ex portavoce di Bergoglio, padre Marcó, lo ha detto apertamente alla radio: «Dopo il gesto di Benedetto non sembrerebbe strano che Francesco rinunciasse, dopo aver fatto quello che pensava di dover fare e qualora sentisse che la sua forza si sta indebolendo».
L’abdicazione di Ratzinger ha cambiato completamente la fisionomia del papato. Non si è più pontefici per sempre. Un papa regna fino a quando è convinto di padroneggiare la macchina del governo. L’estate prima delle dimissioni, il biografo Seewald domandò a Benedetto XVI cosa i fedeli potessero attendersi ancora dal suo pontificato, e la risposta fu: «Non molto. Sono un uomo anziano, le mie forze diminuiscono».
All’indomani della sua rinuncia l’ex ministro degli Esteri vaticano cardinale Giovanni Lajolo notava: «La decisione di Benedetto XVI varrà come precedente anche per i successori». Il cardinale nigeriano John Olorunfemi Onaiyekan ritiene problematico che un papa resti sul trono dopo i novant’anni e non esclude che un futuro pontefice possa per decreto «stabilire il limite di età» dei papi. Benedetto XVI si è dimesso alla vigilia degli ottantasei anni e il popolo cattolico ha assorbito in modo straordinariamente veloce la fine del papato a vita.
Già nel primo anno di pontificato correva la voce in Vaticano che papa Francesco avesse confidato ad un vescovo di essere disponibile a dimettersi. Difficile pensare che voglia restare in carica senza avere il pieno comando. Vegetare sul trono in età avanzata non fa parte del temperamento intellettuale di un pontefice gesuita, attento a «discernere» le situazioni. La dichiarata volontà di mantenere e, anzi, rinnovare passaporto e carta d’identità della sua patria argentina lascia intravvedere un’esistenza futura non necessariamente conclusa all’interno delle mura vaticane. È probabile che la scelta del pensionamento valga anche per lui. Lo rivela l’insistenza con cui, intervistato dal direttore del «Corriere della Sera», ha sottolineato che bisogna abituarsi alla presenza di un papa emerito, che deve diventare una «istituzione» permanente come lo è diventato il vescovo in pensione dopo la riforma conciliare. «Il papa emerito non è una statua da museo», non deve ritirarsi in un’abbazia lontano dal Vaticano, è bene che stia tra la gente e partecipi alla vita della Chiesa. Con franchezza Francesco ha preso di petto il problema delle proprie dimissioni – sulla scia di Benedetto XVI – durante un incontro con la stampa al ritorno da un viaggio in Corea del Sud. Anticipando la domanda di un giornalista, ha esclamato: «Lei potrà dirmi: “E se lei [Santità] non se la sentirà, un giorno, di andare avanti?”... Farei lo stesso!».
Bergoglio sta facendo di tutto per abituare i cattolici alla realtà di un papa pensionato e per suggerire all’opinione pubblica che la convivenza fra due pontefici – quello emerito e quello regnante – dovrà essere accettata come norma. Anche visivamente.
Sabato 22 febbraio 2014 i fedeli convenuti in San Pietro per la creazione di nuovi cardinali hanno assistito ad uno spettacolo impensabile. Ai piedi dell’altare della Confessione, circondato dalla massa color porpora del collegio cardinalizio, papa Francesco e Joseph Ratzinger si sono incontrati e abbracciati. Il pontefice argentino ha voluto espressamente che al rito solenne nella basilica, icona della cattolicità, prendesse parte il predecessore e il mondo vedesse il papa regnante – vestito dei paramenti, con la mitria in testa e il pastorale nella sinistra – di fronte ad un altro uomo vestito di bianco, a capo scoperto. Quando, subito dopo l’elezione, Francesco aveva fatto visita a Ratzinger a Castel Gandolfo, se lo era stretto accanto perché stessero inginocchiati insieme nella cappella della residenza papale. Immagine plastica di una prossimità fraterna, senza conflitti.
Per prevenire anche l’ombra di una contrapposizione Francesco ha deciso, con un gesto di acume politico, di pubblicare l’enciclica incompiuta di Benedetto XVI: Lumen fidei. Abbracciando simbolicamente il testo, presentandolo come scritto a quattro mani, il papa argentino ha neutralizzato il sorgere di una leggenda che narrasse di un magistero spaccato: le riflessioni dell’ex papa contrapposte al pensiero del pontefice regnante. È stato calcolato che su ottanta pagine soltanto otto siano di pugno di Bergoglio. I pochi inserimenti acquistano però un significato programmatico. Centrale è l’affermazione che il «credente non è arrogante... [ma in] dialogo con tutti».
Benedetto XVI ha facilitato questa situazione inedita per la Chiesa cattolica. Il giorno dell’addio, salutando per l’ultima volta il collegio cardinalizio, aveva promesso «incondizionata reverenza ed obbedienza» al successore che sarebbe stato eletto. Dopo si è chiuso nel suo eremo vaticano, uscendo poche volte – per tornare a Castel Gandolfo o visitare il fratello al policlinico Gemelli – e ricevendo con assoluta discrezione gli amici. Una lettera di cortese critica allo scienziato Odifreddi per i suoi giudizi su Gesù, è stata la prima sortita pubblica. Spesso il “maestro di cultura”, cardinale Ravasi, viene a trovare l’ex papa Ratzinger.
Bergoglio lo considera un «vecchio fantastico». Ad un amico argentino ha confessato: «Non ti immagini l’umiltà e la saggezza di quest’uomo». Ai reporter ha raccontato: «È come avere il nonno saggio a casa». Benedetto XVI ricambia. «Sono grato di poter essere legato da una grande identità di vedute e da una cordiale amicizia a papa Francesco», ha confidato in una lettera al teologo Hans Küng. «Oggi vedo come mio unico e ultimo compito di sostenere il suo pontificato nella preghiera».
I due si parlano, si telefonano, si incontrano, pranzano assieme con assoluta naturalezza. Francesco, che si rivolge al predecessore con il tradizionale titolo papale, ha persino inviato a Ratzinger la prima copia della sua intervista alla «Civiltà Cattolica», chiedendo suggerimenti. (Ne ha ricevuti quattro pagine.) Il pontefice argentino ha ripetutamente incoraggiato il predecessore: «Santità, lei riceva, faccia la sua vita...».
C’è una clessidra nel pontificato di Francesco. Lo sanno bene i cardinali che lo sostengono. «In fondo a Giovanni XXIII sono bastati appena cinque anni per rendere irreversibile la svolta nella Chiesa», spiega uno di loro. L’esempio fa riflettere sulle condizioni necessarie perché una riforma cominci a produrre frutti. Il progetto di papa Giovanni – il concilio Vaticano II – si è salvato, perché dopo di lui sono venuti i quindici anni di pontificato montiniano, durante i quali Paolo VI riuscì a radicare il messaggio conciliare nella Chiesa cattolica. Intorno a Paolo VI agiva, tuttavia, una maggioranza di vescovi che avevano votato convintamente i documenti conciliari, c’era un robusto movimento di teologi riformatori e ferveva una mobilitazione appassionata di ambienti laicali.
Papa Francesco, nel terzo anno dall’elezione, è ancora abbastanza solo all’interno della struttura ecclesiastica. Questo spiega la sua straordinaria determinazione. Gode di un consenso amplissimo tra i fedeli e nell’opinione pubblica agnostica e non credente, però in curia non si manifesta, per il momento, un forte partito pro-Bergoglio. Anzi, c’è chi spera che il papa argentino sia un’eccezione transitoria. Dietro le mura del Vaticano i rapporti di forza sono così descritti: il 20 per cento dei monsignori appoggia il papa, il 10 per cento è formato da autentici avversari, mentre il 70 per cento attende passivamente il successore.
Non esiste nella Chiesa universale un movimento organizzato di sostenitori della sua rivoluzione. Si sentono applausi scroscianti da tutte le parti e al contempo si avverte una grande inerzia nelle strutture ecclesiastiche. L’associazionismo cattolico sinora è rimasto fermo – quasi sotto shock per le novità e occupato a rielaborarle – mentre ai tempi di Giovanni Paolo II erano visibili la presenza e la pressione di movimenti come l’Opus Dei e Comunione e liberazione, attivamente schierati a favore del programma del papa polacco. I gesuiti, per motivi comprensibili, appoggiano il pontefice con discrezione, certo non con lo stile battagliero e incondizionato con cui la Compagnia di Gesù nell’Ottocento combatté per promuovere il dogma dell’infallibilità e l’assolutismo di Pio IX e, in seguito, per contrastare il modernismo.
Il genio satirico intuisce spesso il senso nascosto di una situazione. Ha spopolato su YouTube il comico Maurizio Crozza nell’imitazione di Francesco, che ...