Il comunitarismo
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Il comunitarismo

  1. 140 pagine
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Il comunitarismo

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L'aspirazione a creare o a conservare forme di vita comunitaria attraversa la storia del pensiero politico, accomunando rivoluzionari e conservatori, marxisti e cattolici, nazionalisti e anarchici.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858118825

Il comunitarismo contemporaneo

A conclusione del percorso finora svolto, non si può non constatare la varietà e l’eterogeneità dei temi e delle istanze per qualche ragione riconducibili al comunitarismo. Per lo meno un aspetto, tuttavia, emerge con una certa evidenza: la vocazione polemica di gran parte delle filosofie della comunità fiorite a partire dall’età moderna. Nelle loro prime apparizioni, le varie versioni di comunitarismo rappresentano una reazione nei confronti della rivoluzione francese e dei sommovimenti di lungo corso da essa innescati sul piano politico, economico, culturale. Fin dalle origini, si tratta di una battaglia combattuta su due fronti, per lo più percepiti in modo indistinto: la modernità politica e la modernizzazione economica; le nuove libertà proclamate dalle Dichiarazioni dei diritti e le inedite forme di sfruttamento inaugurate con la rivoluzione industriale, responsabili di rendere le prime in gran parte virtuali, per lo meno per la maggioranza della persone1. Lungo tutto l’Ottocento e il Novecento il comunitarismo si ripresenta nei momenti di crisi, come risposta al terremoto sociale provocato dalla modernizzazione, denunciando la crescente solitudine degli individui, lo sfaldarsi delle reti tradizionali di solidarietà, il venir meno di orizzonti di senso condivisi. Sul piano filosofico, esso rappresenta una risposta, molteplice e sfaccettata, alle teorie e alle ideologie che accompagnano tali processi: il liberalismo, in primo luogo, nelle sua versione giuridica e/o economica, ma più in generale le filosofie razionalistiche e costruttivistiche di derivazione illuministica.
Comunitarismo, dunque, come tentativo di trovare rimedio ai guasti umani e sociali prodotti dalla modernizzazione; nelle versioni estreme, come «fuga dalla civiltà», negazione radicale della società moderna, anche nelle sue istanze emancipatrici ed equilibratrici dal punto di vista sociale. Verso quali approdi? Di fronte a tale interrogativo le risposte si sfrangiano e si moltiplicano, oscillando tra i due tipi ideali della comunità immediata, affettiva, «al di qua del diritto», e della comunità etica, dotata di spessore storico, unificata da un patrimonio di simboli, codici interpretativi, valori. Riconducibili al primo modello sono i gruppi amicali della Jugendbewegung e di analoghi movimenti giovanili; la comunità concreta di Buber e di Mounier, generata dall’incontro diretto tra «io» e «tu»; per certi versi le società «senza Stato» e «senza diritto» vagheggiate da molte utopie rivoluzionarie. Il modello della comunità etica è invece riconoscibile tutte le volte che alla «leggerezza» e all’instabilità dell’identità dei moderni si cerca rimedio attraverso il saldo ancoraggio a una tradizione condivisa (i romantici, gli slavofili), a un ethos sostanzialistico, spesso a sfondo religioso (Maritain), a un territorio dai confini «naturali», ricco di storia e di cultura (i nazionalisti, ma per certi versi anche teorici della comunità locale come Mumford e Olivetti). Inutile dire che molte sono le posizioni di confine, gli incroci, gli ibridi; molte anche le teorie eclettiche, che oscillano tra l’uno e l’altro modello. Tutte oscillazioni e contraddizioni destinate a ripresentarsi nelle opere dei comunitaristi contemporanei.

Il comunitarismo come antitesi del liberalismo

Di comunità si è tornato a discutere nell’ambito della filosofia politica anglosassone dopo la lunga stagione caratterizzata dall’egemonia del liberalismo, databile a partire dal 1971, anno di pubblicazione di A Theory of Justice di Rawls. All’inizio degli anni Ottanta si inizia a parlare di communitarianism per riferirsi alle elaborazioni teoriche di alcuni pensatori tra loro piuttosto eterogenei – Charles Taylor, Alasdair MacIntyre, Michael Sandel, Philip Selznick, Robert Bellah, Amitai Etzioni, e talvolta anche Roberto Mangabeira Unger e Michael Walzer – accomunati dalla forte insoddisfazione nei confronti del paradigma liberale dominante nel mondo anglosassone. Se la data di nascita del comunitarismo, inteso come specifica corrente filosofico-politica, può essere collocata intorno al 1982, anno della pubblicazione di Liberalism and the Limits of Justice di Sandel (ma altri preferiscono anticiparla al 1981, in corrispondenza all’uscita di After Virtue di MacIntyre), agli interpreti più avvertiti non è peraltro sfuggito il fatto che l’antiliberalismo dei communitarians veniva da lontano, e si configurava come il ripresentarsi, sotto mutate spoglie, di istanze e tematiche periodicamente affioranti nella storia del pensiero. Non a caso il communitarianism è stato via via interpretato ricorrendo a concetti preceduti dal prefisso neo-: come una forma di neo-aristotelismo, di neo-tomismo, di neo-hegelismo.
Anche il comunitarismo degli anni Ottanta, dunque, definisce e chiarisce le proprie posizioni attraverso il confronto-scontro con il liberalismo. Il problema è che la nozione di liberalismo con cui si misurano i comunitaristi – quella in voga nel mondo anglosassone – non è affatto chiara e distinta. Più che designare una specifica ideologia politica, favorevole alla limitazione dei poteri e/o delle funzioni dello Stato, in questo ambito «liberalismo» ha finito con l’indicare qualsiasi teoria che giustificasse le istituzioni dello Stato democratico-costituzionale a partire dalla tesi del primato della libertà individuale. In questo senso risultano assimilabili tra loro come «liberali» tanto Robert Nozick quanto John Rawls, nonostante si tratti di pensatori ideologicamente agli antipodi: impegnato, il primo, nella difesa della libertà negativa e dello Stato minimo, entro una prospettiva che in termini crociani potremmo definire «liberista» e che è stata ribattezzata nella cultura anglosassone come libertarian; ispirato, il secondo, a una concezione kantiana di libertà, intesa come autodeterminazione morale, e sensibile al tema delle diseguaglianze sociali tanto da permetterci di qualificarlo, adottando un lessico europeo, come «progressista», e di considerarlo l’esponente di maggior spicco della filosofia politica liberal. Ciò che accomuna autori così diversi, collocati ai poli estremi di uno spettro lungo il quale trovano posto anche pensatori come Ronald Dworkin, Bruce Ackerman, Charles Larmore, Thomas Nagel, è la priorità accordata a un certo insieme di diritti e di regole poste a garanzia della libertà individuale, rispetto al fine della realizzazione di un modello di «buona società». Con il linguaggio di Rawls, che rimane il principale bersaglio polemico dei communitarians, i liberali si contraddistinguono per la condivisione della tesi del primato del «giusto» sul «bene», cui è correlata una tesi ulteriore, di natura antropologica, quella della priorità dell’«io» sui suoi «fini». Proprio dal rovesciamento di queste due tesi prende le mosse il tentativo comunitarista di elaborare una concezione alternativa dell’uomo e della società, al tempo stesso antindividualistica e antiuniversalistica.
La concezione del Sé (l’io e i suoi fini). Uno dei principali interlocutori liberali del comunitarismo è dunque John Rawls, autore – nel 1971 – di un libro destinato a imprimere una significativa svolta in senso normativo alla filosofia politica anglosassone, A Theory of Justice. In quest’opera il problema della giustificazione dell’ordine politico viene affrontato attraverso una strategia di tipo contrattualistico, ipotizzando che la scelta dei principi in base ai quali modellare le istituzioni fondamentali della società spetti a individui liberi ed eguali, collocati in una sorta di stato di natura (la «posizione originaria»). A differenza degli individui di Hobbes, le parti contraenti nella rawlsiana posizione originaria sono però vincolate a una scelta non solo razionale, ma improntata a equità (fairness): poste sotto un «velo di ignoranza», esse devono pronunciarsi sui principi di giustizia rimanendo all’oscuro di tutte le informazioni che potrebbero indurre ciascuna di esse a favorire un ordinamento collettivo che vada a proprio esclusivo vantaggio. Ignare non solo della propria collocazione sociale, ma della propria identità personale – comprendente gusti, capacità, valori, concezioni del bene – le parti sono «costrette» a comportarsi come persone morali e ad adottare l’atteggiamento imparziale richiesto da un’etica di tipo kantiano.
Ora, proprio la caratterizzazione rawlsiana dei soggetti nella posizione originaria viene considerata da Sandel emblematica dei limiti e delle aporie dell’antropologia liberale. Gli individui nella posizione originaria sono – sostiene Sandel – unencumbered selves: soggetti «vuoti», «sgombri» da vincoli e impegni, in grado di prendere le distanze da qualsiasi convinzione e legame, senza che ciò comporti una ridefinizione della loro identità. L’etica deontologica da cui si fa guidare Rawls richiede infatti che l’«io» venga sempre prima dei ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Il nome e l’idea
  2. Alla ricerca di una definizione
  3. Tra conservazione ed eversione
  4. Socialisti, comunisti, anarchici
  5. Il comunitarismo religioso
  6. Il comunitarismo contemporaneo