Gente di Trieste
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Gente di Trieste

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Gente di Trieste

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«È inutile cercare di mantenere una stabile serenità quando il vento di bora manda tutto all'aria.»

Viaggiatori per protesta, esploratori intraprendenti, scienziati visionari, inventori sfortunati, poeti e artisti dimenticati, imprenditori eccentrici, eroi senza pace. È la gente di Trieste, città di confine dalle mille anime divise e ricomposte dalla Storia, crocevia di guerre, traffici e commerci, città nata per essere moderna e che alla modernità ha pagato un alto prezzo. Pietro Spirito ricostruisce un'ampia galleria di personaggi. Come Carl Weyprecht, l'esploratore polare che scoprì la Terra di Francesco Giuseppe. Oppure Josef Ressel, che inventò l'elica delle navi ma nessuno lo riconobbe. O Vittorio Benussi, che ideò la macchina della verità e morì nella menzogna. Ma anche lo scrittore Italo Svevo o il grande poeta Umberto Saba, che in punto di morte confessò di essere responsabile del suicidio di due sue giovani commesse. Figure dalle esistenze in bilico, come Rodolfo Maucci, l'insegnante che, costretto dai nazisti a dirigere il giornale della sua città occupata, lo boicottò in segreto dall'interno rischiando il campo di concentramento. E la pittrice Alice Zeriali, schiva e riservata ma che ha intrattenuto rapporti fecondi con grandissimi artisti del Novecento. O Nazario Sauro, l'eroe italiano tradito dal suo mare. Una affascinante biografia della città dove il forte vento di bora intreccia e scompiglia i destini, e dove tutto può cambiare all'improvviso.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858144657

1.
Un orizzonte da immaginare

Un breve preludio

Potrei iniziare da qualcuno che non c’è. Il racconto di una vita immaginaria in cui racchiudere tutte le vite possibili delle quali si possa avere traccia o memoria in questa città. Un triestino assoluto, per così dire, un’identità fittizia in grado però di restituire con il suo vissuto, il suo carattere e personalità, la sua storia, le mille sfaccettate identità di Trieste. Penso a una biografia multiforme, cangiante nei colori e nelle combinazioni, come la figura di un caleidoscopio in continuo mutamento, schegge luminose che inseguono un disegno all’apparenza ordinato, ma sempre imprevedibile e sfuggente.
Secondo E.B. dovrei smetterla con queste fissazioni. Lei è convinta che in fondo ogni luogo non sia poi così diverso da un altro. Credi davvero che Trieste sia tanto speciale?, mi ha chiesto due giorni fa accarezzando uno dei mappamondi di cui ama circondarsi. Con una piccola spinta della mano ha lasciato girare la sfera geografica, fino a bloccarla con l’indice in un punto a caso. Se fossimo qui, ha detto, saremmo altro da ciò che siamo?
Le ho risposto di sì, che diamine, siamo il frutto della terra in cui viviamo, abitiamo il mondo condizionati dal clima, dal paesaggio, dagli odori, dalla gente. Lei invece pensa di no. Siamo una specie migrante, ha detto E.B., strappiamo le nostre radici e le piantiamo altrove, per quanta fatica e sofferenza possa costare, seminiamo campi lontani, ogni luogo su questo globo ha il significato che noi gli diamo. Perciò – ha detto E.B. facendo girare ancora il mappamondo – a ben guardare Trieste, questo puntino insignificante all’estremità nordorientale del Mediterraneo, questo frammento di terra che è un po’ Europa e un po’ no, imbrigliato tra mutevoli frontiere, incuneato nell’ansa di un piccolo golfo che non lo protegge né lo ha mai protetto dalle intemperie della Storia, ebbene, questo minuscolo agglomerato di gente non ha proprio niente di speciale rispetto che so, a qui o a qui, ha detto E.B. indicando due punti a casaccio sul globo di plastica.
E.B. ha le sue ragioni, essendo nata e vissuta a Trieste. Ma questa non è la mia città, la mia storia non parte da qui, per cui ho tutto il diritto di giudicare a piacere le specialità dei suoi paesaggi e delle sue anime, nel momento in cui sono chiamato a stilare un repertorio ragionato della gente di Trieste. Un repertorio in ordine alfabetico, come si conviene a ogni dizionario biografico. Oppure no. Forse meglio un formulario cronologico, dal presente al passato. O dal passato al presente?
Potrei cominciare dal tempo degli antichi Romani. Per esempio dal primo insediamento stabile dei legionari sull’altura del Monte Grociana, a due passi da Trieste, il castrum di cui parla Tito Livio nelle sue cronache Ab Urbe Condita.
Ma c’erano altre genti insediate lì ancora prima, negli oscuri inizi di questa città, forse un castelliere preistorico sul colle di San Giusto, dove oggi svettano il vecchio castello e la cattedrale, località nominata per la prima volta dal geografo greco Artemidoro di Efeso nel primo secolo a.C.
Genti miste, già allora. Cento anni più tardi un altro geografo, Strabone, parlò di kome karnike, un villaggio carnico abitato appunto dai Carni, popolo celtico calato nelle pianure friulane tra il quinto e il quarto secolo a.C. per dividere i Paleoveneti dagli Istri, o gli Illiri secondo le fonti classiche. Non ci volle molto perché le popolazioni celto-carniche si incrociassero con gli istro-illiri già presenti nelle terre affacciate sul mare in attesa che arrivassero i Romani. Le legioni in marcia alla conquista del mondo si erano acquartierate prima ad Aquileia, fermandosi alla foce del fiume Timavo, e poi, con un balzo, erano penetrate nella penisola d’Istria, distruggendo Nesazio, la capitale degli Istri, dove il re Epulo si uccise per non vedere la sua terra militarmente e stabilmente occupata.
Era il 177 a.C., e tutti questi miscugli di genti, e queste guerre e occupazioni di terre, suonano come qualcosa di non così remoto. Essendo la Storia nient’altro se non una ripetizione variamente combinata di azioni dell’uomo nel tempo e, come nel disegno animato di una figura osservata nel caleidoscopio, le sue vicende evolvono secondo una struttura a frattale, che ripete le sue forme all’infinito, mai uguali e sempre uguali nel tempo.
Penso ai drammi del Novecento, così vicini che li puoi ancora toccare, le cicatrici dolenti di due guerre mondiali, Trieste occupata tre volte nel giro di pochi anni – nazisti, jugoslavi, angloamericani –, tutti gli intrecci delle diverse anime – italiana, tedesca, slava – in una città che fino a ieri era parte e porto dell’Impero asburgico, poi del Regno d’Italia.
Terra sempre in balìa di un confine mobile, così mobile che oggi non c’è più ma c’è ancora, assorbito dalla nuova Europa unita eppure ancora lì con le sue tracce fatte di valichi abbandonati, ruderi di casermette e torrette di guardia, simboli di quella che è, e rimane, una marca di frontiera.
Se mi sentisse E.B. direbbe che ripeto sempre le stesse cose, incapace come sono di vivere il presente per quello che è, e quindi interpreto il passato secondo vecchi schemi. Forse ha ragione, rimugino mentre mi appresto a lasciare il mio scrittoio, la mia stanza degli spiriti, per uscire a schiarirmi le idee.
Guardo l’orologio e il calendario: è il 7 di maggio, sono le 8.30 di un fresco mattino primaverile, l’aria qui sull’altopiano è frizzante, piena di promesse, come quando si è in partenza per un viaggio verso luoghi e genti da conoscere.
Prendo l’auto e dalla mia casa sul Carso scendo verso il centro urbano lungo la via Commerciale, la strada che collega direttamente la città con l’altopiano, là dove un tempo le merci salivano faticosamente dalle trafficate banchine del porto fino a raggiungere la strada per Vienna, per marciare direttamente dal mare al centro dell’Europa.
Sto ancora pensando alla biografia immaginaria di un immaginario personaggio in grado di aiutarmi a capire meglio la gente di Trieste. In tasca ho un taccuino Moleskine ancora intonso che mi ha regalato E.B. per prendere appunti. Che sia di buon auspicio per il tuo nuovo lavoro, mi ha detto. Non l’ho ancora neppure aperto.
Arrivo in città e mentre percorro in auto le Rive, le quattro corsie lato mare che seguono la costa urbana, in cerca di un difficile parcheggio, noto ormeggiata al Molo Bersaglieri, accanto all’edificio della Stazione Marittima, una nave rompighiaccio. Si erge imponente con il suo scafo verniciato di rosso, e sfoggia una certa aria di sfida, come a dire: sono per un momento tornata a casa, ma ho altro a cui pensare, il mio posto non è qui ma fra gli immensi ghiacci dei poli artici e antartici che il riscaldamento globale sta sciogliendo.
La nave si chiama Laura Bassi: è la nuova unità di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geografia e di Geofisica Sperimentale, per tutti il Geofisico, una delle eccellenze del Sistema Trieste, l’insieme di enti tecnologici e di ricerca che fa della città uno degli agglomerati scientifici più blasonati del mondo.
Prima di lei c’era la motonave Explora. Anzi c’è ancora, più piccola e ormai troppo vecchia e quindi degradata da nave da esplorazioni antartiche a unità da ricognizioni mediterranee. L’Explora ha un posto tutto suo nell’immaginario dei triestini. Solca i mari per conto del Geofisico, dal 1989, ha compiuto una decina di campagne nell’ambito del Programma nazionale di ricerca in Antartide, e ogni volta che tornava alla base a Trieste, stanca e con i segni di ruggine sullo scafo, si portava dietro una ventata di atmosfera polare. Vederla ormeggiata alle Rive, magari d’inverno in una giornata di bora chiara, con il mare azzurro ghiaccio e la catena delle Alpi Giulie innevate sullo sfondo, i gabbiani infreddoliti impegnati a contrastare le raffiche di vento, dava l’impressione di non essere là dov’era, nell’angolo più settentrionale del tiepido Mediterraneo, ma all’estremo Sud del pianeta, fra immensi iceberg e saltellanti pinguini.
Adesso a portare i profumi antartici ci penserà la Laura Bassi, ex Ernest Shackleton, il grande esploratore. Lei, Laura, è stata la prima scienziata al mondo a ottenere, nel 1732, una cattedra universitaria. Ora il suo nome brilla sullo scafo della rompighiaccio sotto quello cancellato di Shackleton, in verità decisamente più titolato della Bassi a bazzicare l’Antartide. Ma non importa, la scienza è scienza, e la nostra Laura è giusto porti in giro per gli oceani il suo primato.
Finalmente trovo un parcheggio a pagamento proprio davanti alla Stazione Marittima. A quest’ora la frenesia del mattino si quieta, a Trieste è il momento della prima pausa caffè, anche chi non partecipa al rito collettivo sente di dover darsi una calmata per continuare bene la giornata. Scendo dalla macchina, pago una fortuna per il ticket giornaliero, e resto lì impalato a contemplare la prua della Laura Bassi. Al momento è l’unica nave da ricerca oceanografica italiana capace di operare nei mari polari facendosi strada baldanzosa nel ghiaccio fino a mezzo metro di spessore.
Mi guardo intorno chiedendomi se il suo scafo tozzo, così straniero, non stoni con lo skyline della città. Qui alla Stazione Marittima attraccano solo navi bianche, gli orribili transa­tlantici a quindici ponti che infestano i mari, oppure grigie e longilinee unità militari. O anche lussuosissimi yacht d’altura color canna di fucile. Ma navi glaciali rosse non se ne vedono.
Eppure Laura Bassi qui ci sta benissimo. Perché Trieste è città di esploratori e viaggiatori, gente che ama spingersi oltre l’orizzonte del golfo, e con i due poli estremi del globo è legata da un’antica consuetudine. Mi viene in mente il Museo Nazionale dell’Antartide, situato nel comprensorio dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni, che molti triestini non sanno nemmeno che esista, e invece c’è e racconta storie di pionieri quali Robert Falcon Scott, Roald Amundsen, Ernest Shackleton più quelle degli esploratori italiani dagli inizi del Novecento ad oggi.
A un tratto capisco che non servirà inventarsi biografie inesistenti per eleggere un degno rappresentante di questa città. Ci sono personaggi che da soli sono capaci di rappresentare una o più delle sue tante anime, anche se a volte la Storia li ha messi da parte.
Ecco, dovendo stilare un dizionario delle genti di Trieste, potrei iniziare dai viaggiatori ed esploratori triestini che hanno speso la vita dietro un orizzonte da immaginare. Allora è dalla lettera W che dovrei cominciare. Il primo sarebbe senz’altro l’esploratore polare Carl Weyprecht.

Perduto fra i ghiacci

«Il 20 maggio, dopo la cena, le imbarcazioni si metteranno in viaggio. Per approfittare del caldo si riposerà nelle ore del giorno, e si viaggerà durante quelle della notte. Ogni sera prima di mettersi in viaggio ognuno metterà il vestito da dormire in un fagotto, e lo legherà sotto il rispettivo banco. Non si partirà senza che ognuno abbia fatta la necessaria pulizia del corpo. Si mangerà due volte al giorno, cioè prima della partenza e prima del riposo. Durante la marcia si riposerà una volta, e si spartirà una razione di cioccolata per ciascuno».
È la primavera del 1874, e gli uomini della spedizione polare guidata da Carl Weyprecht si apprestano a lasciare la nave che li ha portati fin nel cuore dell’Artico, la Admiral Tegetthoff, da mesi incastonata su un piedistallo di ghiaccio alto otto metri cresciuto durante l’inverno, senza alcuna possibilità che un giorno torni a navigare.
Molti ancora non lo sanno, o lo hanno dimenticato, ma c’è un triestino all’origine della moderna cooperazione scientifica internazionale. Carl Weyprecht, tedesco di nascita ma cittadino triestino d’adozione per sua esplicita richiesta, ufficiale della Marina militare austroungarica, esploratore polare, geofisico, scienziato, fu il promotore dell’Anno polare internazionale, che ha oltrepassato il secolo e mezzo di vita all’insegna di una ricerca senza confini.
Fu Weyprecht, in occasione del secondo congresso di meteorologia del 1879 a Roma, a presentare il progetto che prevedeva la costituzione di una commissione diplomatica internazionale per la realizzazione della prima rete di stazioni di ricerca al Polo Nord e al Polo Sud, l’avvio di una collaborazione scientifica mondiale che oggi ha proprio nella città di Trieste uno dei suoi principali punti di riferimento.
A Trieste non c’è nemmeno una via intitolata a Carl Weyprecht, che è stato uno dei più grandi esploratori del diciannovesimo secolo, nemico giurato dei nazionalismi e scienziato dalle idee moderne e innovative. Non solo: Weyprecht fu uno dei primi a vedere nella città di Trieste – per la sua storia, la sua posizione, il suo carattere, le sue istituzioni scientifiche legate al mondo del mare – un luogo ideale per la promozione e lo sviluppo di una ricerca di respiro internazionale. E fu a Trieste che Weyprecht ideò la sua impresa più famosa, la drammatica spedizione polare austroungarica del 1872-74 a bordo della nave Admiral Tegetthoff, che avrebbe portato un pugno di uomini – quasi tutti triestini, istriani, fiumani e dalmati – per 812 giorni nell’inferno di ghiaccio del Polo Nord, alle prese con temperature fino a -50 gradi, aggressioni di orsi polari, tempeste di neve, pericoli di ogni genere. Un’autentica odissea che costò la vita al macchinista della nave, Otto Krisch, ma che portò alla scoperta del lembo più settentrionale d’Europa, la Terra di Francesco Giuseppe, e diede un impulso fondamentale alle ricerche polari.
Quando Weyprecht – comandante della spedizione assieme a Julius Payer – tornò con i sopravvissuti in Europa dopo una marcia fra i ghiacci al limite dell’umano, fu accolto da trionfatore, a Vienna...

Indice dei contenuti

  1. 1. Un orizzonte da immaginare
  2. 2. La vita è sempre fiamma
  3. 3. Oltre la città di carta
  4. 4. Il destino può essere anche un buon affare
  5. 5. Ci vuole un pizzico di genio
  6. 6. Eroi senza pace
  7. Ringraziamenti
  8. Fonti e bibliografia di riferimento