1. Il lusso dei signori (o la costruzione dello Stato unitario 1861-1880)
«Il Principe aveva sempre tenuto a che il primo pranzo a Donnafugata avesse un carattere solenne: i figlioli sotto i quindici anni erano esclusi dalla tavola, venivano serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima dell’arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di un solo particolare transigeva: non si metteva in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano. Quella sera, nel salone detto ‘di Leopoldo’ la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. Da sotto i paralumi di merletto i lumi a petrolio spandevano una gialla luce circoscritta; gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo. Don Onofrio era già arrivato con la moglie e così pure l’Arciprete che, con la mantellina pieghettata giù dalle spalle in segno di gala, parlava con la Principessa delle beghe del Collegio di Maria. Era giunto anche don Ciccio l’organista (Teresina era di già stata legata al piede di un tavolo del riposto) che rievocava insieme al Principe favolosi tiri riusciti nelle forre della Dragonara. Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: ‘Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!’.
Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com’egli era ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera.
Il suo sconforto fu grande e durava ancora mentre meccanicamente si avanzava verso la porta per ricevere l’ospite. Quando lo vide, però, le sue pene furono alquanto alleviate. Perfettamente adeguato quale manifestazione politica, si poteva però affermare che, come riuscita sartoriale, il frack di don Calogero era una catastrofe. Il panno era finissimo, il modello recente, ma il taglio era semplicemente mostruoso. Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il cielo in muta supplica, il vasto colletto era informe e, per quanto doloroso è necessario dirlo, i piedi del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati. [...]
La porta centrale del salotto si aprì e “Prann’ pronn’’’ declamò il maestro di casa, suoni misteriosi mediante i quali si annunziava che il pranzo era pronto; e il gruppo eterogeneo si avviò verso la stanza da pranzo.
Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.
Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.
L’inizio del pasto fu, come sempre avviene in provincia, raccolto. L’Arciprete si fece il segno della croce e si lanciò a capofitto senza dir parola; l’organista assorbiva la succulenza del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese [...].
Alla fine del pranzo la conversazione era generale»1.
Cosa può descrivere meglio di questo sontuoso pranzo siciliano, tratto dal Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’Italia appena unificata – la sua cultura, la sua società, i grandi progetti e gli ancor più grandi ostacoli? È la sintesi di una società piramidale, dove ricchezza e potere sono nelle mani di pochi; una società legata al passato, ma sospinta dai venti della Storia verso il futuro.
L’autore del libro conosceva bene l’ambiente aristocratico che descriveva (il protagonista è ispirato alla figura di un suo avo). Lo vediamo dalla vivida descrizione della sala, attenta a ogni dettaglio: dai ritratti dei nobili antenati appesi alle pareti (costante monito sulle differenziazioni sociali) all’elaborata etichetta dei vestiti, che tanto sconforto crea al Principe – fino al rito della «chiamata» a tavola con la spettacolare entrata dei camerieri che portano vassoi d’argento ricolmi di favoloso timballo (maestosa affermazione di abbondanza, al limite dello spreco, in un’epoca in cui la maggior parte della popolazione viveva di stenti). Nulla sfugge a questo scrittore attentissimo, che aveva trascorso tutta la vita fra viaggi e sterminate letture (soprattutto letteratura europea in lingua originale, salvo che in russo, tanto che già a vent’anni i suoi cuginetti lo chiamavano «il mostro») – diceva che la letteratura è come una foresta: bisogna conoscere tutto, non solo i grandi alberi, ma anche i fiori e il sottobosco2. Ebbene, nella sua descrizione, la parte preminente non è dedicata al pasto vero e proprio, che è un po’ il vertice drammatico del passo, ma alle fasi della preparazione, al momento sociale, alle «regole» che sanciscono il corretto comportamento del cerimoniale. Mangiare, sembra dirci, è un rito complesso che rispecchia, e forse anche definisce, le caratteristiche di un certo ambiente storico (in questo caso, dell’aristocrazia siciliana del secondo Ottocento).
Certo, dalla sua descrizione traspare anche un’inquietudine politica, né poteva essere altrimenti. Il ventennio postunitario è un periodo di sconvolgimenti politici e istituzionali. La nuova élite che sale al potere si trova di fronte a un compito immane: costruire letteralmente un nuovo Paese. Monete, leggi, ordine pubblico, trasporti, povertà, analfabetismo, brigantaggio – ovunque girassero lo sguardo i notabili piemontesi della Destra storica non vedevano che problemi. Li risolsero con una politica decisionista. Estesero a tutto il territorio le leggi del Piemonte, investirono in infrastrutture, ottennero il Veneto (1866) e Roma capitale (1870), applicarono una politica fiscale rigorosissima (comprendente l’impopolare tassa sul macinato) che portò nel 1876 al pareggio del bilancio. Con il risultato di far cadere il governo a favore dell’altra fazione liberale guidata da Agostino Depretis, la Sinistra storica, il «partito della spesa», che attenuò la stretta fiscale, allargò moderatamente l’elettorato e cooptò molti esponenti delle vecchie classi dirigenti con una spregiudicata politica di trasformismo (idealmente fors’anche i parenti del Principe gattopardiano). Ma quello che ci interessa osservare qui è che il potere rimase nelle mani di una classe sociale abbastanza ristretta e arroccata, decisa a difendere il nuovo Stato minacciato da molte parti: dal papa e dai cattolici che non riconoscevano la sua legittimità, dai presunti progetti revanscisti delle monarchie detronizzate, dalle tumultuose masse contadine agitate dagli anarchici a Nord e dai briganti a Sud (e dalla fame ovunque)3. È questa élite a tenere le redini del nuovo Stato. E a dare il tono sociale e culturale imponendo le sue norme, nella vita pubblica come a tavola.
1.1. Un mondo di regole
Di questa élite il Principe del Gattopardo è l’archetipo perfetto, il protagonista assoluto della scena. È lui che decide il tipo di pranzo, chi invitare, il menu; le sue uniche concessioni verso un rigoroso rispetto delle norme (come l’abito da pomeriggio o il timballo di maccheroni al posto del potage) sono fatte per non imbarazzare gli ospiti – ulteriore prova di signorilità. È lui a dettare i tempi e a bloccare ogni manifestazione «indecorosa» con il solo sguardo. È lui il custode delle regole. Attraverso l’etichetta e la conoscenza delle regole «appropriate» anche per una semplice occasione come un pranzo privato, ribadisce la propria superiorità rispetto agli altri commensali.
Ma da dove deriva questo suo «potere» nei confronti degli altri, «potere» che l’immaginario Principe di Salina condivideva con i (reali) aristocratici che popolavano l’Italia dopo l’Unità?
C’è una risposta semplice: deriva dalla posizione di preminenza politica ed economica che la classe nobiliare ricopriva nella scala sociale. Benché l’aristocrazia fosse entrata in una fase di relativo declino per numero di famiglie (sotto le diecimila unità) e per ampiezza dei patrimoni (ormai ovunque surclassati da quelli in mano all’alta borghesia), essa continuava tenacemente a costituire un punto di riferimento sociale4. La sua cultura, le sue conoscenze, il suo stile di vita cosmopolita facevano sempre scuola – e chi non si adeguava correva il rischio di non essere accettato «in società» o di fare la figura del parvenu (come succede all’ambizioso don Calogero del romanzo). Per questo il Principe è il vero arbitro della situazione.
Dunque, la prima caratteristica della società italiana che ci suggerisce questo quadro siciliano è chiara: gerarchia. Una gerarchia che vedeva saldamente al vertice l’aristocrazia, sfidata però da una borghesia (imprenditoriale, finanziaria e commerciale) tanto aggressiva e decisa sul piano politico ed economico, tanto esitante sul piano sociale (ma non per molto ancora). Le altre categorie sociali sono sostanzialmente escluse – nel romanzo gli «outsider» invitati (come il prete e l’organista, probabilmente esponenti della piccola e media borghesia) assaporano in silenzio la fortuna di partecipare a un simile pranzo. Contadini e lavoratori urbani semplicemente non compaiono. Gerarchia e il binomio inclusione/esclusione sembrano spiegare la struttura di questo atto sociale. Naturalmente non è una sorpresa: rappresenta semmai un tratto di continuità. Ancora un paio di secoli prima la gerarchia a tavola era così forte da materializzarsi in sedili diversi per i vari ospiti (troni, sedie alte, sgabelli) e persino in cibi diversi serviti a seconda del rango. Quindi, semmai, possiamo notare come la gerarch...