Antropologia contemporanea
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Antropologia contemporanea

La diversità culturale in un mondo globale

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Antropologia contemporanea

La diversità culturale in un mondo globale

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Che cos'è l'antropologia? Come è cambiata dalle sue origini? Quali sono le questioni aperte e le principali linee di ricerca oggi? Raccontare l'antropologia per tematiche e a partire dalle urgenze dell'attualità, senza trascurare le incursioni retrospettive dentro il «passato che si può usare»: questa la scommessa che percorre ogni capitolo del libro.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858129012
Categoria
Anthropology

1.
Scenari:
la cornice attuale

1.1. Verso l’antropologia

Quando, all’inizio degli anni Ottanta, ho iniziato a studiare antropologia, nella Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma (allora ne esisteva una sola), le certezze della disciplina erano ancora piuttosto forti. Si studiava Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Antropologia strutturale, Il pensiero selvaggio, Il totemismo oggi, La vita sociale degli Indiani Nambikwara e, naturalmente, Tristi tropici e Mitologica. Si seguivano corsi monografici sulla parentela e sulla mitologia, sulle civiltà indigene delle Americhe e sulla religione dei popoli primitivi, sulle apocalissi culturali e sui sincretismi (Lanternari, 1983), sul pensiero razionale e sulle mentalità prelogiche, oltre che sulla crisi della presenza (De Martino, 1973) e sul folklore come forma di contestazione (Lombardi Satriani, 1980), sui dislivelli interni ed esterni di cultura (Cirese, 1980), sulla musica popolare (Diego Carpitella), con la convinzione che i nostri oggetti fossero ben saldi nel loro statuto ontologico. Si insegnava la differenza fra l’etnografia come fase di raccolta dei dati empirici, e l’antropologia come fase successiva di elaborazione teorica. Clifford Geertz era ancora un semisconosciuto antropologo americano, benché avesse già scritto Toward an Interpretive Theory of Culture (1973). In Italia, come del resto in Francia, lo strutturalismo era molto forte, e in Gran Bretagna Evans-Pritchard con i Nuer (1940, 1956) e la stregoneria fra gli Azande (1976) era il punto di riferimento per eccellenza dell’etnografia.
Naturalmente parlo dei miei ricordi di studente, senza dubitare che qualche studioso più maturo avesse già allora, in Italia come altrove, una cognizione più articolata e sofisticata dell’antropologia e fosse già pronto alla rivoluzione che stava per avvenire. L’immagine di un sapere che viene offerta ai neofiti non è mai, malgrado le buone intenzioni dei docenti, quella giusta, se per giusta intendiamo quella più approfondita versione dei fatti che si scopre solo dopo, magari nel corso della tesi di laurea, quando si inizia davvero a scovare articoli su riviste fino a quel momento misteriose, riferimenti a nomi sconosciuti e a titoli di libri e articoli tanto attraenti quanto del tutto impensati, e si inizia a seguire delle tracce in direzioni più dense. Oggi la tesi di laurea, quel massiccio lavoro che occupava anche diversi anni fra biblioteche, archivi, conversazioni con relatori non sempre facilmente avvicinabili ma per quello forse più autorevoli, non esiste più, sostituita come è stata da una relazione finale esile come le letture che richiede per essere svolta nei pochi mesi concessi da una università che conta sui laureati rapidi per non finire nel libro nero del ministero. Né la tesi di laurea magistrale, benché spesso di tutto rispetto, consente e richiede lo stesso tipo di lavoro, e rappresenta la stessa occasione di formazione. La tesi di laurea magistrale è micro, è specialistica, come del resto deve essere, premessa di quella iperspecializzazione che seguirà e alla quale sarà destinato chi poi intenda proseguire nel lavoro di ricerca. Non sono un nostalgico e quanto appena affermato non rappresenta uno sfogo fine a se stesso, ma il presupposto da cui porre un problema di una certa importanza per presentare una ricognizione dell’antropologia contemporanea, il cui principale tratto è proprio la frammentazione estrema, dettata anche dal fanatismo etnografico imperante degli ultimi anni, che ha condannato la disciplina a un appiattimento in angoli di mondo e in tematiche microscopiche da cui i più non riescono a uscire. Per come la vedo io, valgono immensamente di più le pagine della lezione inaugurale che Claude Lévi-Strauss svolse al Collège de France il 5 gennaio 1960, quell’Elogio dell’antropologia che illumina il pensiero ed emoziona, rispetto a decine e decine di articoli esasperatamente etnografici pubblicati dopo estenuanti procedure di peer review nelle famose riviste indicizzate che oramai sono indispensabili per il superamento delle mediane nei concorsi e nelle valutazioni della qualità della ricerca.
Si dirà che quello era Lévi-Strauss, e questo è vero, ma il problema che vorrei evidenziare, per certi aspetti paradossale, è che per un eccesso di specialismo c’è troppa etnografia senza una cornice antropologica adeguata. Questa non è nostalgia, questo è un problema epistemologico, che ha delle ricadute sulla rilevanza della disciplina.
Nel 1984, a proposito di epistemologia antropologica, venne pubblicato in edizione italiana un libretto di Dan Sperber, Il sapere degli antropologi, e in un breve capitolo di questo libro si ponevano alcune questioni sulla scrittura degli etnografi, e sulle procedure di costruzione del sapere antropologico. Il libro si inseriva in quel filone, che negli anni Ottanta prese sempre più consistenza, di analisi delle regole che stanno dietro alla costruzione degli oggetti scientifici (Hempel, 1961; Toraldo di Francia, 1986), o presunti tali, di decostruzione, come verrà definito più avanti, un ambito di analisi piuttosto filosofico – un po’ di filosofia della scienza e un po’ di filosofia del linguaggio (Foucault, Ricoeur, Gadamer e Derrida) – che sfocerà nell’era del postmodernismo, anche antropologico. Furono, gli anni Ottanta, anni di intensa rielaborazione dei paradigmi per tutta l’antropologia. Il libro di Sperber mi dette lo spunto per preparare un progetto di tesi sulla scrittura etnografica, in anni non sospetti. Molti interlocutori cui mi rivolsi respinsero il progetto come poco rilevante, senza senso, alcuni anche con un certo fastidio.
Alessandro Duranti, a proposito dell’urgenza con cui la comunità antropologica dopo Writing Cultures (1986) si mosse per trovare soluzioni accettabili alla crisi della rappresentazione, scrive che:
In questo clima intellettuale, l’antropologia linguistica, con la sua lunga tradizione di raccolta e analisi dei testi, fu di colpo vista come un possibile alleato nella riflessione sulla politica della rappresentazione (2003: 10, trad. mia).
Non fu allora forse un caso il fatto che trovai accoglienza – anzi, direi entusiasmo – per il mio progetto di tesi proprio presso un antropologo linguista, Giorgio Raimondo Cardona, che divenne il mio relatore. Era il 1984 (o la fine del 1983) e la mia tesi, La scrittura etnografica, la discussi nel dicembre del 1986, pochi mesi dopo l’uscita negli Stati Uniti del libro che segnò ufficialmente l’avvio della critica del testo etnografico. Credo di essere stato il primo a far arrivare il volume in Italia, allora non c’era ancora Amazon, e a Roma una piccola libreria di via del Corso faceva arrivare in alcune settimane i libri anglosassoni. Ormai la mia tesi era pressoché finita, feci in tempo solo ad aggiungere il testo in bibliografia.
Negli anni mi sono detto diverse volte che se fossi stato un giovane aspirante antropologo statunitense forse sarei diventato famoso con la mia tesi, rafforzando con me stesso il concetto posto da Ferguson e Gupta (1997). Naturalmente in senso ironico.
Gli antropologi che lavorano al centro imparano presto che cosa possono e che cosa non possono ignorare: per esempio che non gli costa professionalmente nulla ignorare ciò che fanno le periferie. Il contrario non è pensabile, a meno di non voler far correre rischi alla propria professionalità e alla propria competenza: «non sa nemmeno chi è XY» (1997: 25, trad. mia).
Non posso comunque negare che il mio lavoro di tesi, poi divenuto un volumetto della collana, fondata da Giorgio Cardona, «Quaderni» del Dipartimento di Studi glottoantropologici dell’Università La Sapienza di Roma, sia stato comunque il primo passo della mia carriera come antropologo. Il libro, infatti, anche se per lo più poco apprezzato, fu notato da Ugo Fabietti, e questo segnò l’inizio di una collaborazione durata più di dieci anni, un periodo di intensa attività intellettuale, di studio, e in generale di attività accademica. Chiudo la parentesi autobiografica.
La critica, a partire dal testo, affrontava i fondamenti epistemologici e politici della disciplina, il diritto degli antropologi di «rubare» conoscenze in certe condizioni politiche e storiche, e metteva in serio dubbio le possibilità della disciplina di sopravvivere restando fissata alle stesse condizioni che avevano avallato i progetti pionieristici di Franz Boas e di Bronislaw Malinowski.
La svolta postmoderna enfatizzava altre voci e altri punti di vista come costitutivi del sapere antropologico (al punto che qualcuno arrivò a chiedersi chi tra l’antropologo e i nativi fosse davvero l’autore delle note di campo e poi della monografia etnografica, cfr. Clifford, 1993) e portava l’identità della disciplina, o la sua crisi, al centro dell’attenzione. Molti antropologi si sforzarono di trovare nuovi modi di rappresentare la loro esperienza etnografica, e la stessa nozione di cultura venne criticata perché strumento per inventare l’alterità radicale, per essenzializzare gli altri, per rivendicare proprie presunte purezze identitarie (Abu-Lughod, 1991; Wikan, 1992; Ingold, 1993; Hannerz, 2001).
In linea con la mia formazione e con le mie prime esperienze di studio vero e proprio, in pieno clima postmodernista, uno dei miei principali filoni di ricerca è stato ed è tuttora quello costituito dalle condizioni di possibilità della produzione di sapere antropologico, strette tra il campo e il testo, da un lato, e una teoria della cultura dall’altro. Sono convinto che uno dei punti critici dell’antropologia contemporanea sia proprio dovuto a uno sbilanciamento tutto a favore della prima dimensione, quella etnografica, che mal si adatta alle esigenze dettate dai cambiamenti di portata planetaria degli ultimi decenni, che richiederebbero una forte capacità di teorizzare i processi culturali da cui deriverebbe, a mio parere, un’altrettanto forte capacità di incidere nella sfera pubblica e nell’ambito accademico (Sahlins, 2000; Ingold, 2007; Hannerz, 2012).

1.2. Siamo tutti contemporanei

Il paradigma della contemporaneità, in sostanza, si basa sull’idea generale che non si possa più dividere il mondo in contesti sociali moderni e contesti sociali tradizionali, perché nessuna società è moderna in tutti i suoi aspetti come nessuna società è totalmente tradizionale (Halbwachs, 1987). Tutte le società sono immerse nella storia, e si trasformano. E in ogni società esistono le strutture anacrone. Ogni società cioè si articola in ambiti più propensi e veloci a cambiare, ad assorbire le innovazioni, per esempio l’ambito della ricerca scientifica, e in ambiti meno disposti o addirittura ostili al nuovo, più lenti a metabolizzare le trasformazioni, per esempio l’ambito della religione. Da qui deriva il riconoscimento che non esistono società fredde, senza storia, immerse in un eterno presente, e che I frutti puri impazziscono, come ha ricordato James Clifford nel libro che ha quel titolo (1993). Quindi, «siamo tutti contemporanei», un sofisticato programmatore della Apple come un membro della CEI; un pescatore di Lampedusa come un guaritore siberiano. Un’adolescente pakistana che vince il premio Nobel per la pace e i jihadisti che ironizzano con un videomessaggio che fa il giro del mondo «abbiamo preso noi le armi degli Stati Uniti destinate ai Curdi». Questo non vuol dire che siamo tutti uguali, anzi. Ma che viviamo immersi nella simultaneità, sì. L’antropologia può ignorare la dimensione della simultaneità?
Secondo alcuni non solo può, ma deve farlo. In un libro recente Francesco Remotti (2014) pone le condizioni di produzione del sapere antropologico proprio in una dimensione anacrona, non sincronizzata, inattuale. Il tema in discussione è rilevante, non solo nel senso comune del termine, anche nel suo senso etnografico, che chiama in causa la specifica identità politica della disciplina (Englund e Leach, 2000). È noto infatti quanto il sapere antropologico si presti a usi strumentali, magari anche non immaginati, non sempre, non fino in fondo, da chi lo produce (si veda, per esempio, Price, 1993).
Ci vuole molta cautela prima di scrivere e pubblicare informazioni e rappresentazioni di popoli e posti, molta responsabilità (Feld, 1990).
Un recente libro di Jared Diamond (Il mondo fino a ieri, Einaudi 2012) costituisce un buon esempio di quanto appena affermato. Survival International ha fortemente criticato il libro, ritenendolo gravemente denigratorio nei confronti dei popoli tribali per alcune affermazioni che alimenterebbero il mito del «cattivo selvaggio», dotato di indole aggressiva e crudele, e che potrebbero facilmente essere strumentalizzate da tutti coloro che in varie zone del mondo hanno interesse a disprezzare i nativi in quanto «selvaggi» per poter avere mano libera nel ripulire l’area di loro interesse e sfruttarla per ricavarne profitti. Non sono pochi i casi in cui tutto ciò avviene con la complicità dei governi a scapito delle popolazioni locali. Del resto, la pratica di esporre in vere e proprie «fiere del selvaggio» rappresentanti di popoli «arretrati» è terminata in Europa pochi decenni fa, e fuori dall’Europa, per esempio in India, riscuote ancora oggi grande successo (Domenici, 2015).
Il libro di Diamond non mi è piaciuto e l’ho scritto (La tribù contemporanea, «il manifesto», 18 settembre 2013), evidenziando un impianto teorico di stampo evoluzionista, certe facili nostalgie per modi di vita «tradizionali» in via di scomparsa (come le specie biologiche), e un’ideologia che inquadra lo studio degli altri dentro la metafora del laboratorio (andare sul campo = entrare in laboratorio) per sperimentare gli stati «naturali» dell’umanità (un classico di certi periodi dell’antropologia sociale britannica, cfr. Falk Moore, 2004). Guardiamo gli altri (i popoli tribali, i popoli nomadi, ecc.) per conoscere come vivevano i nostri antenati (appunto, com’era il mondo fino a ieri): le società tradizionali, come le chiama Diamond, sono documento di precedenti fasi evolutive dell’umanità. Da esse possiamo (e dobbiamo) trarre alcuni importanti insegnamenti che abbiamo dimenticato.
A questa visione si contrappone il riconoscimento che «siamo tutti contemporanei», ciascuno, ovviamente, secondo i modi propri della comunità, reale o immaginata, cui appartiene o desidererebbe appartenere.
Si tratta di un riconoscimento ormai ampiamente diffuso fra gli antropologi, almeno da quando Johan Fabian (2001) ha dimostrato che gli altri, esotici, sono stati il più delle volte rappresentati dagli antropologi come se vivessero in un tempo e in uno spazio «altri». Secondo la tipologia del cronotopo, che come è noto Bachtin (2001) analizza, con riferimento al romanzo, in base all’opposizione fra il proprio mondo e quello altrui.
È, o è stata, quella dell’etnografia, ciò che potremmo definire una temporalizzazione strategica della diversità. L’esperienza dell’alterità, inquadrata in un passato non ben definito, se non entro cornici retoriche e ideologiche, non è mai rappresentata come l’esperienza di un incontro fra contemporanei, ma il sé che conosce, lo studioso socialmente «alto», scolarizzato ai massimi livelli, urbanizzato e politicamente forte, è sempre distante dal suo oggetto di studio, un sé problematico, il «primitivo» contadino, cacciatore, pastore nomade, pescatore, proletario, forse «culturalmente ricco» (di quella ricchezza culturale che sarebbe andata perduta se non fosse stato per i Malinowski e i Boas che hanno scelto di «salvarla»), ma certo economicamente e politicamente svantaggiato, che vive in un altro tempo e in un altro spazio (almeno fino a un po’ di decenni fa). A lungo gli antropologi hanno accolto l’idea che i popoli isolati in un altro tempo fossero popoli «senza storia» (tanto che qualcuno ha ritenuto indispensabile dedicare un libro all’argomento che nel titolo richiamasse quella definizione, cfr. Wolf 1990). Non è un caso che l’etnografia classica sia uno «studio verso il basso», come sottolinea Ulf Hannerz (2012), e che solo negli anni Settanta del Novecento è emerso l’auspicio (cfr. Nader, 1979) che gli antropologi iniziassero anche a studiare «verso l’alto» (in un libro che, guarda caso, si intitola Antropologia radicale, cfr. ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Studiare la diversità culturale
  2. 1. Scenari: la cornice attuale
  3. 2. Decostruzioni: le tensioni epistemologiche
  4. 3. Comprensioni: in primo piano la cultura
  5. 4. Espansioni: l’analisi culturale in un mondo globale
  6. 5. Liquefazioni: tentativi di ricomporre oggetti decomposti
  7. 6. Soggettività: le cornici sociali e gli immaginari individuali
  8. Bibliografia