Perché laico
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Perché laico

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Perché laico

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Il laico non nega l'esperienza, e anche la rilevanza civile, della religione, ma difende il proprio spazio di autodeterminazione in questioni che attengono all'ordinamento dello Stato e ai diritti di tutti i cittadini. È la posizione – intransigente e rigorosa nei principi, duttile ed equilibrata nelle procedure suggerite – di Stefano Rodotà. Roberto Esposito, "la Repubblica"Un libro importante, da leggere in questi tempi bui. Maurizio Ferraris, "Il Secolo XIX"Già dal titolo, questo libro è una dichiarazione di intenti, non una professione di fede. Sarebbe un ottimo libro di testo per le scuole medie superiori, perché ripone le questioni di attualità in un contesto comprensibile e le misura con i nodi irrisolti della storia politica italiana, della vita pubblica che si confronta con quella privata. Gabriele Polo, "il manifesto"«Questo libro non è una professione di fede. È una riflessione sulla laicità non come polo oppositivo, che più d'uno vorrebbe rimuovere, ma come componente essenziale del discorso pubblico in democrazia. È dunque guidato da un profondo convincimento democratico, non dall'idea di spaccare il mondo in due, tra credenti e non credenti. Vuole tenere ferma la bussola dei principi, misurandosi però in ogni momento con i fatti.»

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113714

Governare la vita

Dare la vita

1. Riguardando l’origine stessa della vita, la procreazione assistita ha sempre suscitato entusiasmi e ripulse. È precocemente divenuta un campo di battaglia, dove si sono combattute e si combattono fedi religiose e voglia di libertà, interessi economici e bisogno di regole, pregiudizi antichi e fiducia nella scienza. Oggi le tecniche della procreazione assistita sono divenute, nella generalità dei casi, quasi un’ordinaria routine medica e il mondo è ormai popolato da tre milioni di «figli della provetta», come si volle con disprezzo definirli per imprimere a essi una sorta di marchio sociale negativo, riflettendo una propensione che non è ancora scomparsa, tanto che, proprio nel paese da dove prese l’avvio il ricorso a queste tecniche, il governo Blair aveva addirittura ipotizzato l’istituzione di un registro dei nati grazie alla procreazione medicalmente assistita. Ancora oggi preoccupazioni e resistenze rimangono. Perché?
Vi è una diffusa e persistente difficoltà sociale nel metabolizzare le innovazioni scientifiche e tecnologiche quando queste incidono soprattutto sul modo in cui si nasce e si muore, sulla costruzione del corpo nell’era della sua riproducibilità biologica, sulla possibilità stessa di progettare la persona. Lo sconcerto è comprensibile, perché appaiono sconvolti i sistemi di parentela e l’ordine delle generazioni, l’unicità stessa delle persone. È l’antropologia profonda del genere umano che di colpo, nel giro di pochi anni, viene messa in discussione. Si manifestano angosce, si materializzano fantasmi: e il diritto appare l’unica cura sociale, con un’intensa richiesta di norme, limiti, divieti. Perdute le regole della natura, la società si rispecchia nel diritto e a esso chiede rassicurazione, prima ancora che protezione.
Sembra quasi che l’umanità, vissuta fino a ieri al riparo delle leggi di natura, scopra luoghi dove l’irrompere improvviso della libertà si rivela insopportabile. Si rivelano così aree dell’esistenza che dovrebbero comunque essere «normate», perché la libertà di scegliere, dove prima era solo caso o destino, spaventa, appare come un pericolo o un insostenibile peso. Se cadono le leggi della natura, l’orrore del vuoto che esse lasciano deve essere colmato dalle leggi degli uomini.
Sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e dalla comune assunzione di un necessario riconoscimento del pluralismo. Così, proprio nel momento in cui le controversie si fanno più aspre, si divaricano pure i punti di vista, che spesso si presentano come terribilmente distanti, se non proprio inconciliabili. Si può farli convivere, evitando che la controversia si trasformi in conflitto durissimo? Si può perseguire quest’opera di conciliazione e di costruzione di un nuovo tessuto comune, che richiede tempi non brevi, mentre l’innovazione scientifica e tecnologica conosce impressionanti accelerazioni? Ecco, allora, che si fa forte la richiesta di certezze a ogni costo, e quindi di scorciatoie, che portino all’imposizione di una verità indiscutibile, attraverso una norma giuridica.
Ma così il diritto assume tinte autoritarie, si presenta come un’imposizione, e non come il riflesso di un sentire comune, generando la reazione dei sacrificati, degli esclusi. Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto, tra la richiesta di una regola e il suo rifiuto, tra il bisogno di rassicurazione sociale e l’istintiva rivendicazione dell’identità culturale e dell’autonomia individuale.
Intorno a questi temi è addirittura nata una nuova disciplina, la bioetica, e sono sorte nuove istituzioni, i comitati di bioetica, che dovrebbero favorire il dibattito e la consapevolezza pubblica, affidando così alla maturazione collettiva e alla lenta creazione di un consenso la nascita di un contesto favorevole a decisioni responsabili e al generale rispetto delle decisioni assunte da altri sulla base di punti di vista diversi. Ma pure l’appello all’etica può tingersi con i colori dell’autoritarismo quando vuole imporre una morale di Stato, pretendendo così di sostituirsi integralmente al vissuto individuale proprio là dove la vita fa sentire più forti le sue ragioni.
2. Ma vi è un motivo profondo, e unico, che impone di differenziare la riflessione sulla procreazione assistita da tutte le altre questioni bioetiche. Qui sono in questione la libertà femminile, la disponibilità del proprio corpo da parte della donna, «il potere di procreare» che a essa soltanto naturalmente appartiene.
È una lunga storia di liberazione da vincoli naturali, giuridici, culturali. Ha le sue prime tappe nella libertà di ricorso alla contraccezione, che separa sessualità e riproduzione; e nella depenalizzazione dell’aborto, che non rappresenta soltanto la liberazione dalla schiavitù mortale dell’aborto clandestino, ma un’occasione per muoversi verso la procreazione responsabile, come dimostrano i dati riguardanti la diminuzione del numero complessivo delle interruzioni di gravidanza e il permanere di percentuali relativamente elevate solo presso i gruppi di donne meno informate o culturalmente consapevoli (immigrate, minori). Nella procreazione assistita il processo di liberazione ha quasi un suo compimento, dal momento che il ricorso a queste tecniche separa la riproduzione dalla sessualità e, ponendo l’accento sul figlio «voluto», può porre rimedio alla sterilità di coppia, impedire la trasmissione di malattie genetiche o, più generalmente, stabilire liberamente se, come e quando procreare.
Era prevedibile che questo nuovo orizzonte si affollasse di diritti. Nel momento in cui alla natura, alla necessità o al caso si sostituiva un potere individuale di scelta, era del tutto ovvio che ci si cominciasse a interrogare intorno all’estensione di questo potere, ai soggetti che potevano esercitarlo, in presenza di quali condizioni e con quali limiti. Il ricorso a nuove figure di diritti si presentava così come un approdo inevitabile, come il linguaggio che descriveva con maggiore nettezza la situazione mutata, e a questa offriva strumenti e formalizzazione. Al tempo stesso, però, la grammatica dei diritti si rivelava eccessiva e inadeguata, se a essa si voleva assegnare definitivamente il compito di regolare il nuovo modo d’essere dell’intero ciclo vitale.
Questo processo era già cominciato prima che l’informazione genetica occupasse il centro della scena, via via che le innovazioni scientifiche e tecnologiche aprivano nuovi campi alla possibilità di autodeterminazione: basta pensare alla contraccezione, alle diverse tecniche di interruzione della gravidanza, e soprattutto alle tecnologie della riproduzione, che fanno nascere libertà e scelta dove prima era soggezione a immodificabili leggi della natura. Ma proprio la genetica porta a conseguenze radicali questa tendenza, perché massima si fa la possibilità di conoscenza e scelta, e la creazione di ulteriori figure di diritti mette precocemente in discussione parti dei nuovissimi cataloghi che si era appena finito di compilare.
Si può tentare un inventario di tutti questi diritti che, quantitativamente e qualitativamente, incarnano la più intensa esplosione di richieste di riconoscimento di poteri ai singoli che mai sia stata conosciuta. Essi coprono tutto l’arco della vita – la nascita, l’esistenza, la morte – e, anzi, si spingono al prima e al dopo.
Si parla di un diritto di procreare o di un diritto al figlio; del diritto di nascere e del diritto di non nascere; del diritto di nascere sano e del diritto di avere una famiglia composta da due genitori di sesso diverso; del diritto all’unicità e del diritto a un patrimonio genetico non manipolato. Andando avanti ci si imbatte nel diritto a conoscere la propria origine biologica e nel diritto all’integrità fisica e psichica; nel diritto di sapere e di non sapere; nel diritto alla salute e alla cura, e nel diritto alla malattia. Infine, diritto di rifiutare le cure, diritto di morire, diritto di morire con dignità, diritto al suicidio assistito. Se, poi, si guarda alla fase precedente alla nascita, si trovano i diritti sui gameti, i diritti dell’embrione, i diritti del feto. E, dopo la morte, rimane aperta la questione dei diritti sul corpo del defunto, soprattutto nella prospettiva dell’espianto di organi.
Questo non è un catalogo fantasioso o arbitrario (e neppure completo). Per ciascuna di queste figure è possibile ritrovare un riferimento giuridicamente significativo in convenzioni o dichiarazioni internazionali, in leggi nazionali, regolamenti, sentenze, pareri di comitati etici. Alcune possono apparire singolari già nella loro formulazione, e meritano un immediato chiarimento. Parlare di diritto di non nascere è formulazione estrema di fronte alle richieste di risarcimento avanzate dai figli nei confronti dei genitori per wrongful life, per una «vita dannosa» determinata dalla trasmissione di una malattia; la richiesta di un diritto all’unicità si fa più intensa di fronte alla clonazione; parlando di diritto alla malattia, o di diritto a non essere perfetto, si vuole sottolineare l’illegittimità di discriminazioni legate alle condizioni di salute, di stigmatizzazioni derivanti da condizioni di disabilità.
In altri casi, la debolezza di proclamazioni perentorie è rivelata proprio dalle novità introdotte dalla genetica. Il timore delle manipolazioni genetiche spiega perché si parli di un «diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione» come diritto fondamentale della persona fin dal 1982, anno in cui il Consiglio d’Europa adotta la Raccomandazione 934 (82). E la stessa preoccupazione è all’origine della formula adottata nell’articolo 1 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo dell’Unesco, votata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1998: il genoma umano, «in senso simbolico, è patrimonio dell’umanità».
L’assolutezza di queste affermazioni è mitigata fin dall’origine già nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa, dove si precisa che «il riconoscimento esplicito» di un diritto a un patrimonio genetico non manipolato «non deve contrapporsi al perfezionamento di applicazioni terapeutiche dell’ingegneria genetica (terapia dei geni), gravida di promesse per il trattamento e l’eliminazione di alcune patologie trasmesse per via genetica». Si delinea, dunque, un diritto di ricorrere a tecniche che evitino la trasmissione ai figli di malattie ereditarie, esplicitamente riconosciuto dall’articolo 3 di quella che certamente è la legge più severa in materia, la Embryonenschutzgesetz tedesca del 1990, dove si riconosce la legittimità della selezione degli spermatozoi quando ciò consenta di evitare appunto l’insorgenza di una malattia collegata al sesso del nascituro, limitatamente ai casi della distrofia muscolare o di altre malattie genetiche riconosciute «come affezioni gravi dalla autorità competente designata dalla legge dei Länder». Una conferma ulteriore viene dalla Francia, dov’è stata esplicitamente riconosciuta la legittimità della diagnosi preimpianto, la cui funzione, tra l’altro, è appunto quella di rendere possibili accertamenti volti a evitare la trasmissione di malattie genetiche. Partendo da questa premessa, è stata consentita la scelta del sesso del nascituro, seguendo una logica che ha anche la funzione di rassicurare i futuri genitori, eliminando le angosce su eventuali malformazioni del feto che spesso inducono a interrompere la gravidanza.
3. Ma, proprio perché l’orizzonte si faceva così largo e l’arricchirsi delle tecniche disponibili spingeva il potere di scelta ben al di là della semplice decisione di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita, un bisogno di regole si radicava indipendentemente dalle paure e dai fantasmi evocati dai «bambini venuti dal freddo». La nuova realtà non sconvolgeva soltanto processi naturali. Mostrava l’inadeguatezza delle norme giuridiche fondate su quei processi, aprendo contraddizioni e conflitti che esigevano una soluzione.
Il diritto del marito di disconoscere un figlio dimostrando di non esserne biologicamente il genitore può essere esercitato anche quando egli abbia dato il suo consenso all’inseminazione della moglie con il seme di un donatore? Leggi e sentenze hanno modificato le vecchie regole, attribuendo alla volontà, e non più alla sola biologia, la funzione di fondare stabilmente la relazione di paternità, escludendo in questi casi la possibilità di esercitare l’azione di disconoscimento.
«Mater semper certa est», ripete da secoli una formula giuridica che rispecchiava l’esclusività del rapporto biologico del «nato da donna». Ma quale diventa la portata di questa regola quando la donna non abbia contribuito con il suo materiale genetico alla persona che ha partorito? La domanda è stata riproposta da alcuni recenti e angosciosi casi di errore determinati da uno scambio di embrioni al momento dell’impianto, che hanno mostrato come sia improponibile l’applicazione di una norma che identifichi integralmente la maternità, la relazione tra madre e figlio, con il fatto del parto.
Questi esempi, tra i tanti, mostrano quanto possa essere ragionevole la richiesta di regole. Ma la via dell’adeguamento della legislazione non sempre è stata percorsa con umiltà e rispetto per il carattere esistenziale delle scelte che riguardano la procreazione. L’occasione offerta dall’indubbia necessità di alcune norme è stata in più di un caso volta in pretesto per riportare sotto controllo la libertà femminile e il potere di procreare, per tornare così a considerare il corpo della donna come «luogo pubblico» su cui legiferare, sul quale esercitare di nuovo un forte potere di «disciplinamento».
La recente legislazione italiana sulla procreazione medicalmente assistita costituisce l’esempio più eloquente di questa propensione, che non a caso le ha meritato la definizione di «legge burqa». Si condiziona sempre più pesantemente l’accesso alle tecniche riproduttive, subordinandolo ai requisiti dell’età e alla sterilità; all’esistenza di una stabilità della coppia e negandolo quindi alla donna sola; all’utilizzazione di alcune soltanto tra le tecniche disponibili (divieto della fecondazione con seme di donatore; limiti al numero degli embrioni da produrre e impiantare); all’esclusione di ogni possibilità di accertamento della condizione dell’embrione per evitare la trasmissione di malattie genetiche. Dietro questo proibizionismo esasperato si scorge la volontà di imporre un modello di gestione del corpo della donna, sottratto alla libera disponibilità della persona interessata. Questo corpo è riportato sotto stretto controllo medico (accertamento della sterilità) e sociale (accertamento di una particolare relazione di coppia), reagendo così alla precedente «liberazione». Il potere femminile di procreare viene di nuovo rinchiuso nella dimensione familiare. Questa deriva dovrebbe essere stata interrotta dalla Corte costituzionale, che nel 2009 ha dichiarato illegittime alcune tra le più pericolose norme della legge.
La regressione culturale e istituzionale è evidente, anche rispetto a scelte fatte negli anni Settanta dal legislatore italiano che, riformando il diritto di famiglia, aveva voluto avviare proprio una liberazione dai modelli costrittivi che, fino ad allora, avevano car...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Una spiegazione (in forma di premessa)
  3. Parte prima. Laicità, confronto, democrazia
  4. Tra passato e presente (e il futuro?)
  5. Religione e politica
  6. Laicità e principi
  7. Governare la vita
  8. Parte seconda. Cronache di una laicità difficile
  9. La «missione» del laico
  10. Sapienza e dintorni
  11. Costituzioni parallele
  12. Poteri in conflitto
  13. Relativismo e principi
  14. Pensare la dignità
  15. Il buon legislatore
  16. Tra giudici e legge
  17. Un dialogo difficile
  18. Scuola, religione, democrazia
  19. Il dolore e la politica
  20. Violenza pubblica e vita delle persone
  21. Omosessualità e diritti
  22. Le vie della solidarietà
  23. Tra Blair e Zapatero
  24. Europa e ricerca scientifica
  25. La forza dei diritti
  26. Guardare all’Europa
  27. Autodeterminazione e laicità