La religiosità della medicina
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La religiosità della medicina

Dall'antichità a oggi

  1. 224 pagine
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La religiosità della medicina

Dall'antichità a oggi

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«La medicina odierna esige più che mai la compresenza di una religiosità interumana imprescindibile. Senza di essa, la medicina si dimezza: dimezzata, perde la propria identità istituzionale di téchne al servizio dell'uomo».

Cattolico, ebraico, islamico, agnostico, ateo: il 'buon medico' è tale indipendentemente – o, forse, addirittura a dispetto – della confessione o del credo che abbraccia, votato prima di tutto alla propria missione di cura. La professione medica, più di ogni altra sfera dell'agire umano, si richiama a quella coscienza morale, quel radicato senso di religiosità laica che nasce da un'etica della dignità e della tolleranza, fondamento indispensabile del rapporto profondo tra soggetto curante e soggetto curato. Nell'ampia panoramica di queste pagine, Giorgio Cosmacini racconta la progressiva desacralizzazione, nel corso del tempo, degli oggetti della medicina (la malattia, il corpo umano, il dolore) e la ricerca di una religiosità espressa dalla morale medica e dalle regole della deontologia.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112847

II. Dall’età dei Lumi al mondo d’oggi

1. «Abbandoniamo la metafisica»

La seicentesca crisi della medicina è la stessa crisi di coscienza che ha investito l’Europa in altri campi: la filosofia, le scienze naturali, le scienze umane, il diritto, la morale, la religione. Il Seicento s’è appoggiato ancora tutto quanto al sostegno della tradizione, in religione come in politica, nella scienza come nell’etica. La filosofia del nascente secolo XVIII – che sarà detto dei «lumi», delle lumières, dell’enlightenment, dell’Aufklärung – rappresenta invece l’ingresso a vele spiegate di una critica avida di libertà nel sacro recinto delle auctoritates, dei dogmi, delle fedi.
A dare il segno dei tempi mutati è, in medicina, un ex pastore d’anime, l’olandese Hermann Boerhaave (1668-1738). Figlio di pastore protestante, ha studiato nel Collegium theologiae di Leida addottorandosi con una tesi di laurea «sulla distinzione della mente [res cogitans] dal corpo [res extensa]» di evidente ispirazione cartesiana. In questi stessi anni ha maturato l’idea di unire la condizione pastorale alla vocazione per la medicina. Era abbastanza frequente, quasi tipico, di molti pastori protestanti, specialmente di quelli attivi nelle piccole comunità di villaggio, l’unire alla cura delle anime la cura dei corpi; questi pastori davano al loro gregge consigli anche medici e somministravano rimedi anche corporali. Boerhaave ha concepito l’intenzione d’immettere la religiosità del pastore d’anime in relazioni psicosomatiche non meno coinvolgenti: quelle tra il medico e il paziente1.
Intrapresi gli studi di medicina, si è laureato nel 1693 ed è divenuto «lettore» nella facoltà medica dell’Università di Leida. In età adulta lo troviamo policattedratico, professore di una tetrade di discipline: medicina teorica e medicina pratica, cardini della diagnostica, botanica e chimica, cardini della terapeutica. Celebre al punto d’essere definito totius Europae praeceptor, «maestro a tutta Europa», la sua fama è all’acme quando tiene dalla cattedra, l’8 febbraio 1715, la prolusione dal titolo De comparando certo in physicis. Dice a colleghi e studenti: «Dobbiamo considerare come vietate quelle ragioni metafisiche in cui tanti filosofi si sono smarriti [...]. Abbandoniamo la metafisica e andiamo verso la fisica: solo allora cominceremo a conoscere i veri caratteri della natura, che sinora abbiamo ignorati»2.
L’istanza antimetafisica non pregiudica affatto la valenza etica del rapporto tra medico e paziente, tutt’altro. Boerhaave, di cui la lettura dell’Ethica ordine geometrico demonstrata (Amsterdam 1677) di Baroukh de Spinoza aveva fortemente influenzato le propensioni giovanili, ha assimilato con le pulsioni morali anche la mentalità «geometrica» dello spinozismo. Egli procede infatti con passo assiomatico-deduttivo nella sequenza di definizioni e corollari in cui si articola la sua opera Methodus discendi medicinam (Venezia 1727) dove fissa le basi metodologiche dell’apprendimento clinico e le basi umanologiche di una medicina non dimezzata, cioè non amputata della sua metà etico-pratica di rapporto interumano. Scrive:
Si chiama medico colui che possiede questa scienza [la medicina] con l’intelletto ed è in grado di esercitarla. Due cose infatti si richiedono al medico: primo, che sia addottorato nella scienza medica; secondo, che abbia un suo vivo genio per poter esercitare questa scienza a favore dei malati, perché non basta al medico saper tutto, ma deve anche possedere la predetta facoltà, per esercitare una medicina affabile [ut exerceat medicinam jucundam] a vantaggio dei malati3.
Si tratta di una «rigorosa assiomatizzazione della doppia valenza, scientifica ed etica, del mestiere di medico e, più in generale, della persistente tensione tra scienza e valori umani che innerva, per statuto, la dialettica interna della medicina»4.
Uno statuto pregresso? Nel paradigma ippocratico la tèchne del mestiere e l’éthos del rapporto interumano erano coincidenti: l’ispezione coincideva con lo sguardo simpatetico, il tocco della fronte con il contatto fisico, la presa del polso con la stretta di mano, la raccolta dell’anamnesi con l’ascolto del vissuto, la formulazione della prognosi con la risposta all’attesa di vita.
Uno statuto solo pregresso, oppure ancor valido oggi e, in prospettiva, perenne? Due secoli e mezzo dopo Boerhaave, il sociologo bostoniano Mark G. Field, in un saggio sulla Scomparsa del medico generale dal sistema di difesa della salute nella società industriale rileva l’esistenza di due diverse risposte di questa società alla minaccia di malattia e di morte prematura: una risposta «tecnologica», scientifico-tecnica, e una risposta «simpatetico-pastorale», che potremmo definire «affabile» nell’accezione dell’ex pastore Boerhaave, il «medico olandese» cui s’è ispirato Carlo Goldoni nel farne il protagonista di una delle sue commedie.
Il secondo tipo di risposta è storicamente succeduto, secondo Field, alla risposta «propiziatoria» della società pagana e alla risposta «di rassegnazione» della società cristiana: esso è oggi indirizzato a una cospicua parte dei «bisogni medici» emergenti dalla società industriale [e post-industriale] poiché «deriva dal bisogno di conforto, rassicurazione, amore, cura, soccorso, consolazione e tenerezza amorevole che il sofferente, l’ansioso, l’impaurito e spesso il paziente psicologicamente turbato [in pratica l’intero orbe dei malati] e qualche volta i familiari esigono nel corso della malattia e della invalidità»5.
La jucunditas o «affabilità» boerhaaviana è dunque un requisito fondamentale che, se a ritroso risale fino a Ippocrate, in proiezione attuale e futura si concretizza nella umana religiosità del medico d’ogni tempo e d’ogni luogo. Ha scritto recentemente un autorevole filosofo morale e storico delle idee: «L’età contemporanea è contrassegnata dal progresso scientifico-tecnico, sempre più rapido, [...] irresistibile e quindi inarrestabile». Dunque «si può parlare a ragion veduta di rivoluzione permanente. Di rivoluzione permanente, invece, non si può parlare con altrettanta sicurezza nella sfera dei costumi. Sul tema del progresso morale continuiamo a interrogarci come duemila anni fa»6.

2. Florilegio di aforismi

Nel 1709 Boerhaave ha dato alle stampe circa un migliaio e mezzo di Aphorismi allo scopo di completare nei «particolari» il proprio systema medicinae «generale». Tali aforismi si riallacciano, nel nome e nella forma, ai celeberrimi Aforismi di Ippocrate, compendio di consigli e precetti che per oltre due millenni ha goduto di grande fortuna, superiore a quella di ogni altra opera ippocratica: un vero pane quotidiano per moltissime generazioni di medici.
Gli Aforismi ippocratici «al pari della Bibbia conobbero edizioni innumerevoli fin dall’antichità: 140 manoscritti greci, 232 latini, 70 arabi, 40 ebrei». Paganesimo, cristianesimo, islamismo, ebraismo attinsero tutti alla medesima fonte medica, a prescindere dalle rispettive identità e peculiarità ideologiche. Gli aforismi erano un denominatore comune, dettato da saggezza: «La fortuna degli Aforismi dipende [...] dall’antica fama secondo la quale lo stesso vecchio maestro [Ippocrate] si sarebbe dedicato, giunto al termine della vita, a condensare in essi la propria sapienza»7.
Questo deposito sapienziale, analogo a quello dei vecchi, fatti saggi dall’età e dalle meditazioni sulla vita, ha un terminus a quo significativo proprio nel primo degli Aforismi ippocratici (già citato nel par. 11 del cap. I), dove si dice che lo studio del medico non ha mai fine e che il suo mestiere è arduo e insidioso, speso nelle tante occasioni curative che lo mettono a confronto con la brevità dell’esistenza sia di chi fruisce delle cure, sia di chi le cure fornisce.
Ma la fortuna degli Aforismi di Ippocrate dipende anche «da ragioni più sottili»8. Una motivazione plausibile è che la medicina ippocratica, pur nella sua coerenza interna di tèchne ed éthos, tendeva tuttavia ad appesantirsi del bagaglio teorico costituito dall’epistemologia quaternaria di elementi, qualità elementari, umori, temperamenti, stagioni ed età. Tale bagaglio, se troppo gravoso per le esigenze di praticità della clinica, avrebbe potuto distaccare il sapere medico dalla sua immediata fruibilità da parte degli esercenti il mestiere. A costoro bisognava dare un testo dove la sistematicità del sapere fosse riversata nell’agilità del pensare; bisognava fornire brevi pensieri, espressioni minime in cui condensare idee e istanze mediche massime.
«Massime» è, non a caso, un termine etichettante gli aforismi nel linguaggio comune. Nel lessico legato all’etimologia, «aforisma» viene da aphorismòs (apò e hòros) che significa «limite», «confine», cioè «separazione», «definizione». Isidoro di Siviglia afferma nelle Etymologiae (libro IV, 10) che aphorismus est sermo brevis, un «breve sermone» espressivo non di una sentenza assoluta, ma di un pensiero succinto e concluso, utile e pratico9.
Gli Aforismi di Ippocrate, revisionati da Galeno sei secoli dopo la loro scrittura originaria, servivano a questo scopo. I medici se ne sono serviti per secoli; non mancò chi, sulle orme di Galeno, li rivisitò ulteriormente con aggiunte, modifiche, riflessioni personali. Alcuni esempi: nell’XI secolo il Regimen sanitatis della Scuola di Salerno ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Dal mondo antico all’«ancien régime»
  3. II. Dall’età dei Lumi al mondo d’oggi
  4. Conclusione. Religiosità nel tempo del morire