La giustizia dei vincitori
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La giustizia dei vincitori

Da Norimberga a Baghdad

  1. 208 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La giustizia dei vincitori

Da Norimberga a Baghdad

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C'è una 'giustizia su misura' per le grandi potenze occidentali, che godono di un'assoluta impunità per le guerre di aggressione di questi anni, giustificate come guerre umanitarie o come guerre preventive contro il terrorismo. E c'è una 'giustizia dei vincitori' che si applica agli sconfitti e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l'omertà di larga parte dei giuristi accademici e la complicità dei mass media. In realtà solo la guerra persa è un crimine internazionale.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112984
Argomento
Economics

1. La criminalizzazione della guerra

1. La negazione giuridica della guerra

In alcune, celebri pagine di Der Nomos der Erde Carl Schmitt sostiene che la conclusione della prima guerra mondiale coincide con la fine della centralità dell’Europa e il tramonto dello jus publicum europaeum. Si esaurisce così un ordinamento internazionale «spazializzato» – quello vestfaliano – che aveva tentato di mettere la guerre en forme, secondo la celebre formula di Emmerich de Vattel1. Al suo posto, nel secondo decennio del Novecento, nasce a Ginevra la Società delle Nazioni. È una istituzione universalistica e «despazializzata», voluta dagli Stati Uniti e dominata dal cosmopolitismo wilsoniano, che si propone di garantire una pace stabile al mondo intero, non solo all’Europa. Compito del diritto internazionale ginevrino – sostiene Schmitt – non era più quello di «ritualizzare» la guerra fra gli Stati europei, limitandola, moderandola, impedendole di essere guerra di «annientamento», come erano state le guerre di religione. Il compito che la Società delle Nazioni si era assegnato era di «essere nello stesso tempo un ordinamento europeo ed un ordinamento universale e globale». A Ginevra, in nome del dogma universalistico, «si discuteva molto di bandire e abolire la guerra e mai invece di una limitazione spaziale di essa»2.
L’insuccesso della Società delle Nazioni, sostiene Schmitt, era inevitabile perché la nuova istituzione era un tentativo di abolire la guerra mettendola semplicemente al bando sul piano giuridico. In realtà, egli scrive,
una negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento3.
Assieme al pacifismo universalistico non poteva che fallire il grandioso tentativo di fare della «guerra di aggressione» un crime international, un crimine da imputare non solo alla responsabilità degli Stati ma anche alla responsabilità penale di singoli individui. A parere di Schmitt la criminalizzazione della guerra di aggressione è un ritorno alla nozione di bellum justum e all’intera tematica medievale delle justa causa belli che Francisco de Vitoria aveva rielaborato per giustificare la conquista del nuovo mondo da parte delle potenze cattoliche4. Non a caso, egli sostiene, nei primi decenni del Novecento autori come il belga Ernest Nys e in particolare l’internazionalista statunitense James Brown Scott, avevano impresso un grande slancio alla renaissance del pensiero di Vitoria5.
A questa filosofia neo-scolastica si ispira la dottrina internazionalista occidentale che nei primi decenni del Novecento intende disfarsi della nozione giuridica di justus hostis, propria dello jus publicum europaeum. Ciò che viene respinto è il principio vestfaliano della legalità della guerra interstatale, condotta da autorità sovrane che si riconoscono titolari di eguali diritti, incluso il diritto di usare la forza per far valere gli interessi dello Stato. Al suo posto, viene riproposta una valutazione etico-politica delle «cause della guerra», che qualifica negativamente la nozione di «aggressione» (le crime de l’attaque), sebbene tale nozione non avesse nella tradizione ebraico-cristiana, in particolare nella teologia cattolica medievale, un’accezione negativa. La dottrina medievale del bellum justum prevedeva esplicitamente la possibilità di una «aggressione giusta». Non diversamente dalla teoria ebraica della milchemet mitzvà (guerra santa obbligatoria), la teoria della guerra giusta aveva considerato la guerra di aggressione come moralmente raccomandabile – bellum justum offensivum – se condotta da prìncipi cristiani contro i prìncipi e i popoli che si sottraevano ostinatamente all’autorità della Chiesa. I turchi, gli arabi e gli ebrei erano eo ipso considerati hostes perpetui.
Per la nuova dottrina, sostiene Schmitt, l’aggressore non è più un justus hostis, ma è un «criminale», nel pieno significato penalistico del termine: è un outlaw, un fuorilegge non diverso dal pirata, al quale nessun diritto deve essere riconosciuto, così come la dottrina del bellum justum non lo aveva mai riconosciuto agli infedeli. Cadono dunque le garanzie procedurali che il diritto internazionale europeo aveva escogitato per lo «stato di guerra» nel tentativo di ridurre le conseguenze più devastanti e sanguinose dei conflitti armati. Al suo posto riemerge, accanto al modello medievale della «guerra discriminatoria», quello cinquecentesco e seicentesco della «guerra civile confessionale» tra fazioni religiose6. Viene così distrutto, lamenta Schmitt, un autentico «capolavoro della ragione umana», per ottenere il quale era stato necessario un «faticoso lavoro giuridico» e grazie al quale per oltre due secoli non si era avuta nel territorio europeo alcuna guerra di sterminio7.
Importanti riserve possono essere avanzate circa questa ricostruzione della storia del diritto internazionale moderno. Si può dubi­tare, in particolare, che lo jus publicum dei popoli europei avesse realmente introdotto rilevanti elementi di attenuazione della violenza bellica nel corso dei due secoli della sua vigenza storica, nonostante il tentativo, a partire dal Trattato di Münster del 1648, di dar vita a un sistema di sicurezza collettiva che escludesse il ricorso dei singoli Stati all’uso della forza8. Basterebbe pensare, se non altro, alle guerre napoleoniche, che in Der Nomos der Erde vengono appena evocate, o all’espansionismo militare dell’Europa coloniale, in primis dell’Inghilterra imperiale. Schmitt tratta le guerre coloniali come un fenomeno adiaforo rispetto allo spazio europeo, poiché ritiene che la ritualizzazione giuridica delle guerre europee richiedesse una deli­mitazione spaziale che eo ipso escludeva la «messa in forma» del conflitto coloniale9. E si potrebbe aggiungere che la prima guerra mondiale, con i suoi diciotto milioni di morti, fra i quali dieci milioni di civili, e oltre venti milioni di feriti, era già stata in se stessa una sconfitta irreparabile del diritto internazionale europeo che non era riuscito a contenere gli effetti devastanti delle nuove armi e delle nuove strategie militari.
A parziale sostegno della tesi schmittiana resta tuttavia il fatto che nei primi decenni del secolo scorso si è affermata prepotentemente l’idea che fossero necessarie nuove istituzioni internazionali, capaci di superare l’anarchia del sistema vestfaliano degli Stati sovrani, anarchia che i trattati e la diplomazia multilaterale del «Concerto d’Europa» non erano riusciti ad attenuare. Ciò comportava il superamento dello jus publicum europaeum e del suo esasperato pluralismo e particolarismo. E richiedeva una drastica revisione della nozione di sovranità degli Stati che lasciasse spazio alla costruzione di istituzioni «sovranazionali» e non semplicemente interstatali. È il massimo giurista europeo del Novecento, Hans Kelsen, a sostenerlo con forza nel saggio Das Problem der Souveränität, e lo ribadisce, ispirandosi a Christian Wolff e a Kant, nel celebre manifesto del «pacifismo giuridico», Peace through Law10. Assieme ai tradizionali apparati normativi e istituzionali degli Stati dovevano essere archiviate anche le strategie vetero-europee dell’equilibrio di potenza, con il loro corteo di vetuste formalità diplomatiche, a cominciare dalla protocollare «dichiarazione di guerra»11. Una pace stabile e universale sarebbe stata assicurata solo da un ordinamento giuridico globale, capace di trascendere il particolarismo delle sovranità statali, di accentrare l’uso legittimo della forza nelle mani di un’autorità «sopranazionale» – uno «Stato universale» – non vincolata al rispetto della domestic jurisdiction degli Stati. E capace di affermare il primato etico e politico dell’ordinamento giuridico internazionale come civitas maxima, includente come propri soggetti tutti i membri della comunità umana12.
Entro la cornice di queste premesse molto generali, può essere utile tentare di verificare in che misura nel contesto del sistema universalistico di proibizione giuridica della guerra che si è affermato nel corso del Novecento per volontà delle potenze vincitrici delle due guerre mondiali – dalla Società delle Nazioni alle Nazioni Unite – la qualificazione della guerra di aggressione come crimine internazionale abbia condotto ai risultati che i suoi fautori pronosticavano. Un interrogativo analogo può essere sollevato nei confronti della giustizia penale internazionale. E può essere utile chiedersi se, al contrario, queste istituzioni non abbiano favorito l’avvento di ciò che Carl Schmitt evoca insistentemente come uno spettro apocalittico in Der Nomos der Erde: l’avvento di una guerra globale discriminatoria – di una «guerra civile globale» (ein globaler Weltbürger­krieg)13 – non più sottoposta alle limitazioni giuridiche della «vecchia guerra interstatale» e quindi sommamente distruttiva e sanguinaria.
Secondo questa profezia l’universalismo etico, prima ancora che giuridico, sostenuto dal pensiero internazionalistico di matrice anglosassone – in primis dagli Stati Uniti d’America – avrebbe dato vita a istituzioni internazionali normativamente incoerenti e politi­camente inefficaci. Il fallimento, o l’impotenza, di queste istituzioni avrebbe alla fine legittimato l’uso globale della forza in nome della civiltà o dell’umanità contro nemici marchiati a fuoco come i nuovi barbari o i nuovi infedeli14. Alla luce di una nozione moralistica e astratta di ordine mondiale, la guerra moderna si sarebbe trasformata, dietro la spinta dell’imperialismo statunitense, in una «guerra globale» legibus soluta. Una volta sconfitti militarmente, i nemici dell’umanità sarebbero stati incriminati come barbari aggressori e sottoposti a punizioni esemplari che ne avrebbero sanzionata l’indegnità morale e l’esclusione dal mondo civile, al di fuori di ogni trattato di pace o provvedimento di amnistia, e senza alcuna misericordia umanitaria. In una parola, «pirati» da sterminare in nome della giustizia dei vincitori15.

2. L’insuccesso delle istituzioni universalistiche e la normalizzazione della guerra

Avrebbe poco senso proclamare qui sommariamente e retoricamente il fallimento dell’universalismo giuridico-istituzionale del Novecento, esibendo l’evidenza empirica che mostra come la violenza militare abbia trionfato nella seconda guerra mondiale non meno che nella prima, e come, nonostante l’istituzione delle Nazioni Unite, i conflitti armati si siano succeduti anche nei decenni del secondo ­dopoguerra. Basterebbe ricordare, fra gli innumerevoli altri casi, l’aggressione degli Stati Uniti contro il Vietnam e l’aggressione dell’Unione Sovietica contro l’Afghanistan per ritenere confermata una tesi di questo genere. E si potrebbero assumere come prove decisive le «nuove guerre» dell’ultimo decennio del secolo scorso e del ­primo lustro del terzo millennio: dalla guerra del Golfo del 1991 alle due «guerre umanitarie» nei Balcani, all’aggressione statunitense contro l’Afghanistan dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, alla «guerra preventiva» degli Stati Uniti e della Gran ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Ringraziamenti
  3. 1. La criminalizzazione della guerra
  4. 2. La guerra umanitaria
  5. 3. Universalità dei diritti e guerra umanitaria
  6. 4. La guerra globale preventiva
  7. 5. L’impero e la guerra
  8. 6. Le ragioni del terrorismo
  9. 7. Da Norimberga a Baghdad
  10. Bibliografia