I nemici degli Italiani
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I nemici degli Italiani

  1. 128 pagine
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I nemici degli Italiani

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Terra di inesauste scorribande, l'Italia. Amedeo Feniello evoca, con un'intensità che ricorda lo Stefan Zweig di Momenti fatali, il calvario di una Penisola troppo ricca, troppo bella, troppo accogliente per non accendere le brame altrui. A ogni assalto, a ogni invasione l'Italiano vedeva prospettarsi la fine del mondo, o almeno del suo mondo. Poi la vita prevaleva, si sopravviveva e si condivideva, ci si mischiava. Esiste allora l'Italiano? Certamente, è la sintesi di tutti coloro che, di volta in volta, ha temuto come invasore.Pier Luigi Vercesi, "Corriere della Sera"

Nella storia della nostra Penisola al centro di tutto c'è sempre stato lui: il nemico. E la sua storia racconta chi siamo stati e come siamo diventati.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858147702
Argomento
Economia

L’Austriaco

Se mai è stata al mondo una barbarie perfetta, questa è la barbarie tedesca. La mancanza di spirito, di generosità, d’apertura mentale, di leggerezza, d’intelligenza, d’eleganza intellettuale e spirituale, l’ottusità cieca, la brutalità, la violenza, la grossièreté, l’angolosità primordiale non si sono mai manifestate come caratteristiche di un popolo più esasperatamente di quel che abbiano fatto tra il Reno e il Baltico. Non è una cultura ma un’istruzione. Giacché la barbarie tedesca è una barbarie istruita. È anche una barbarie armata (Ardengo Soffici, Intorno alla gran bestia, in «Lacerba», n. 16, 15 agosto 1914, pp. 245-246).
Una barbarie. Lo è il nemico, lo è pure la guerra. La prima guerra mondiale forse più delle altre. Le quantità smisurate di soldati mandati al macello, la tecnologia impiegata, la vastità di ciò che stava avvenendo, nulla di tutto questo aveva veri paragoni col passato. Immaginate, scrissero dal fronte occidentale, un’ampia fascia, larga più o meno una quindicina di chilometri, che dalla Manica si estende sino alla frontiera tedesca vicino a Basilea, letteralmente cosparsa di cadaveri e solcata da rozze sepolture, in cui fattorie, villaggi e cascinali sono mucchi informi di macerie annerite, in cui i campi, le strade e persino gli alberi sono scavati, straziati e distorti dalle granate e deturpati dalle carcasse di cavalli, buoi, pecore e capre, orribilmente smembrati e sfigurati e sparsi dappertutto. E in questa zona, giorno o notte, l’incessante schianto, sibilo e fragore di ogni sorta di proiettili, sinistre colonne di fumo e fiamme e grida dei feriti. Lungo quel terreno di morte due linee, più o meno parallele, di trincee, distanti fra loro al massimo qualche centinaia di metri. In quelle trincee stanno accucciate file di uomini, vestiti di marrone o di grigio o di azzurro, incrostati di fango, la barba lunga, gli occhi incavati dalla continua tensione, uomini impotenti di fronte all’incessante pioggia di granate che li tempesta, uomini che salutano con vera gioia un attacco di fanteria, chiunque sia a lanciarlo, perché significa potersi scontrare e misurare con aggressori umani. E in quell’inferno anche l’Italia, che ora combatteva da nazione, unita e appena nata. E il suo nemico, ancora lì, come se non se ne fosse mai davvero andato: Tedeschi, Austriaci. Che, a forza di propaganda, bastò il solo evocare un elmetto con la punta per incutere terrore. Ma forse quel terrore ormai si agitava sotto pelle. Perché gli Austriaci, i nemici... bisogna attingere alla memoria per sentirli veramente. E occorre cominciare anzi da un doveroso ripasso di storia patria.
Ecco l’Italia dunque ad inizio Settecento. E qui la dovremo intendere solo come idea geografica e non come nazione: ché la parola a quel tempo ancora non esiste nel senso che oggi conosciamo. L’Italia, dicevamo, era uno spazio allora colmo di forze politiche diverse, dal Ducato di Milano al Regno di Napoli e Sicilia. Fra questi Stati minori era emerso un nuovo soggetto interessante: la Savoia, un ducato che aveva già dato mostra di sé nella liberazione dal dominio spagnolo e che ora aspirava a diventare regno. Un quadro dall’equilibrio complesso, insomma, dove da tempo la differenza la faceva il rapporto con le potenze straniere. E qui la storia si fa ancora più complicata. Per orientarci potremmo cominciare dai primi giorni di novembre 1700, cioè con la morte di Carlo II, ultimo re di Spagna della casa d’Asburgo. Questione apparentemente lontana ma in realtà vicinissima all’Italia – e a tutta Europa, a dire il vero: perché la Spagna era semplicemente l’impero più grande del mondo, con le sue immense colonie che dall’America passavano per l’Africa spingendosi sino al Pacifico; e poi l’Europa, naturalmente, che non voleva dire solo Penisola iberica, ma Paesi Bassi del Sud, e ovviamente parti importanti d’Italia, tra cui Milano, Regno di Napoli e Sardegna. Così fu subito guerra, con due schieramenti: da una parte una lega formata da Inghilterra, Impero austriaco, Prussia, Ducato di Hannover, Olanda, Danimarca, Svezia; dall’altra la Francia sostenuta dalla Spagna, dal duca di Baviera e inizialmente dal Portogallo e dal duca di Savoia. Di tutto quello che accadde in quegli anni, ciò che qui conta è soprattutto il finale segnato nel 1713 dalla pace di Utrecht e nel 1714 da quella di Rastadt. Fu per quelle paci e per quegli accordi che in Italia entrarono gli Asburgo d’Austria, con l’imperatore Carlo VI. L’Impero austriaco si sostituiva sostanzialmente alla Spagna nel predominio sull’Italia, controllando da quel momento Ducato di Milano, Ducato di Mantova, Regno di Napoli e Sardegna. Cominciava lì un periodo di dominazione che doveva durare a lungo, a parte la parentesi napoleonica, naturalmente.
Sì, perché a fine Settecento la Rivoluzione francese aveva decisamente sparigliato le carte degli equilibri europei. E ci erano voluti solo pochi anni per convincere le maggiori potenze che le forze e gli ideali messi in movimento in Francia potessero minacciare anche gli altri regni. Così nel 1792 era scoppiata l’ennesima guerra, questa volta con Austria e Prussia da una parte e Francia rivoluzionaria dall’altra. Si andò avanti per anni senza esito, sino al 1796. Quando a capo delle truppe francesi distaccate sulle Alpi venne posto, come le ho già raccontato, il giovane generale Napoleone Bonaparte. Il resto è noto: il futuro imperatore di Francia, geniale e deciso, valicò ai primi di aprile il colle di Tenda e scese nella Pianura Padana. Con una serie di fulminee, abilissime puntate, Bonaparte sconfisse gli Austriaci e i Piemontesi loro alleati; e fra il 14 e 15 maggio 1796 entrò a Milano. Nel maggio del 1797 occupò infine Venezia, e quello che ne seguì avrebbe alimentato non poco le reazioni e l’immaginario risorgimentale. In ottobre a Campoformio, presso Udine, Napoleone firmò un trattato: tutto il territorio della Repubblica Veneta, compresa Venezia, passava all’Austria, mentre la Lombardia veniva annessa alla Francia. Solo dopo alcuni anni, poi, passato il vento napoleonico e caduto nel 1815 l’imperatore, l’Austria si riprese tutto e tornò a dominare anche sui territori lombardi. Ma ormai la storia aveva fatto un passo avanti, senza possibilità di ritorno; gli Italiani sotto Napoleone si erano scoperti ottimi soldati e avevano sentito tutta l’importanza e tutto il valore della libertà e dell’indipendenza.
E così eccoci all’ultima parte di questo nostro breve ripasso di storia patria: libertà, indipendenza... tutto questo aveva senso perché si saldava soprattutto sulle nuove idee di popolo e di nazione. Parole antiche, naturalmente, ma che ora trovavano un significato del tutto nuovo. La nazione, intesa come unità di lingua, luogo geografico, storia, tradizioni, cultura e religione, non era cosa reale. Era il frutto di una profonda e complicata trasformazione politica e culturale che stava attraversando tutta Europa ormai da secoli: l’idea secondo cui a ogni regno, principato o stato, dovesse corrispondere un popolo; e che questo popolo fosse, appunto, caratterizzato da lingua, costumi, cultura, radicati in una storia per lo più antichissima. A partire dal Settecento, tutta Europa fu attraversata da questa progressiva invenzione della nazione e dei suoi caratteri, dalla ricerca dei tratti originari e dall’invenzione della tradizione. La Rivoluzione francese fu un potente acceleratore di queste tendenze e fu anche grazie ad essa che in Italia le idee di libertà e di popolo ebbero sempre più diffusione. Si cominciò quindi a guardare anche allo Stivale come a uno spazio definito da una storia e da una popolazione comune. Operazione decisamente complicata (e artificiosa) ma che fu aiutata non poco proprio dall’oppressione straniera, vista sempre di più come vergognoso affronto di cui liberarsi. Un affronto che permetteva per contrasto di esaltare l’eroismo, il sacrificio, l’ardimento del popolo italiano. Altra questione sarebbe stata poi intendersi su quali davvero dovessero essere i concreti caratteri di quella nazione sognata. Ma quel momento negli anni Venti dell’Ottocento era ancora relativamente lontano.
Insomma l’odio per gli Austriaci aveva una storia lunga, ma le parole d’ordine e gli slogan che circolarono in quel periodo erano alimentati soprattutto da quel nuovo senso di popolo, nazione e patria che si stava formando.
Giusto per capire che aria tirava, al termine della prima stagione di insurrezioni, nel 1824, il poeta-patriota Giovanni Berchet scrisse una breve romanza, parecchio stucchevole, in cui metteva in scena l’incubo di una ragazza, Matilde, promessa in sposa proprio a un austriaco:
La fronte riarsa,
Stravolti gli sguardi;
La guancia cosparsa
D’angustia e pallor:
Da sogni bugiardi
Matilde atterrita,
Si desta, s’interroga,
S’affaccia alla vita,
Scongiura i fantasmi
Che stringonla ancor:
«Cessate dai carmi;
Non ditelo sposo:
No, padre, non darmi
All’uomo stranier.
Sul volto all’esoso,
Nell’aspro linguaggio
Ravvisa la sordida
Prontezza al servaggio,
L’ignavia, la boria
Dell’austro guerrier.
Rammenta chi è desso,
L’Italia, gli affanni;
Non mescer l’oppresso
Col sangue oppressor.
Fra i servi e i tiranni
Sia l’ira il sol patto. –
A pascersi d’odio
Que’ perfidi han tratto
Fin l’alme più vergini
Create all’amor».
Qui il punto sta tutto nell’invocazione disperata della ragazza, che prega il padre di «non mescer l’oppresso col sangue oppressor». Perché era di questo che era fatta l’idea di nazione: di una comunità che si credeva legata da ragioni biologiche, di sangue appunto. Una comunità dove la riproduzione doveva seguire le linee corrette, senza degradanti mescolanze etniche che mettessero in discussione la purezza della discendenza nazionale. Dall’altra parte, manco a dirlo, i tratti sviliti del nemico: l’aspro linguaggio, l’ignavia, la boria.
Gli anni che seguirono avrebbero solo confermato tutto questo. Quando si giunge al ’48, alla grande stagione di insurrezioni europee, ormai in Italia il nemico da abbattere ha assunto i suoi tratti più bestiali. Milano, in particolare, è segnata da Cinque giornate di insurrezione che passeranno alla storia: quelle che condurranno nel marzo 1848 alla precipitosa fuga di Radetzky dalla città. Così racconta il patriota Carlo Cattaneo, protagonista di quei giorni, la violenza e la ferocia degli Austriaci:
I soldati [austriaci] facevano cose atroci; nelle case dei Fortis trucidarono undici persone inermi, rubando quanto v’era di stoffe e denari, al cadavere di un soldato si trovò in tasca una mano femminile adorna di anelli; brani di corpi femminili si ritrovarono mal sepolti in Castello; più di una famiglia fu arsa viva; infilzati sulle baionette i bambini; nel ruolo di morto si contarono più di cinquanta donne. [...] Si udivano ufficiali ben nati aizzare a crudeltà il soldato, dandogli a credere bugiardamente che i cittadini facessero scempio dei prigionieri. Tanto la condotta dei nostri nemici disonorava la civiltà germanica quanto quella del nostro popolo onora la infelice Italia (Carlo Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848, Tipografia della Svizzera Italiana 1849, p. 49).
È abbastanza chiaro ciò che appare: un nemico barbaro e senza morale, estraneo a ogni idea di civiltà e di valore cristiano. Un foglio volante titolato Atrocità commesse dagli Austriaci durante la rivoluzione di Milano riferiva che entro le mura del castello cittadino da poco riconquistato erano stati rinvenuti «numerosi corpi di cittadini massacrati in mille guise [...]. Tra questi si scorgevano alcuni cadaveri di donne che i barbari trucidavano e denudavano [...]. V’ebbero bambini infranti contro i ripari sotto gli occhi delle madri; donne e infermi uccisi. Un padre e un figlio legati strettamente insieme ed appiccicati agli alberi dei bastioni». E ancora, i soldati austriaci «in alcuni luoghi della città diedero il saccheggio: entravano nelle case trucidando quanti v’erano; in alcune si trovarono famiglie di dieci o dodici individui tutti uccisi, dai vecchi ai bambini. Le madri mostravano loro dalla finestra i bambini...

Indice dei contenuti

  1. Italia, mica facile dire
  2. Il Romano
  3. Il Cartaginese
  4. Il Goto
  5. Il Longobardo
  6. Il Normanno
  7. Il Turco
  8. Il Lanzichenecco
  9. Il Francese
  10. Il Piemontese
  11. L’Austriaco
  12. L’Americano
  13. Il Meridionale
  14. Caro signore, il catalogo è questo