L'illusione liberista
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L'illusione liberista

Critica dell'ideologia di mercato

  1. 208 pagine
  2. Italian
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L'illusione liberista

Critica dell'ideologia di mercato

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Secondo l'ideologia liberista il mercato lasciato a se stesso crea le migliori opportunità e il maggior benessere per tutti. È un'illusione di cui questo libro critica le premesse economiche ed esplora le conseguenze etiche, sociali e politiche.

Il progetto liberista ha cercato e tuttora cerca di realizzare non solo un'economia di mercato, ma una società che, in definitiva, si risolve nel mercato. Dove i rapporti sociali sono irrilevanti se non mediati dal mercato e anche le istituzioni politiche vengono guardate e valutate solo in base agli interessi economici di individui egoisti, mentre il denaro può comprare tutto e le disuguaglianze di reddito, di ricchezza e di opportunità possono crescere a dismisura in nome del merito, degli incentivi, dell'efficienza. Di questi fili è intessuta l'ideologia di mercato.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858146897
Argomento
Economics

1.
Perché il libero mercato non fa miracoli

Si arraffa un qualche niente e si ripete che il tangibile è quanto basta. Basterebbe un tangente se non fosse ch’è lì, a due passi, guasto.
Eugenio Montale
Gentile Professore,
quando ero più giovane sentivo sempre parlare delle molte virtù del mercato; oggi mi sembra che tanti – lei compreso – mettano l’accento soprattutto sui suoi difetti, sottolineando la necessità dell’intervento pubblico per correggerli. In un suo articolo recente, lei ha scritto che «il mercato ha bisogno del governo». Con il tempo, invece, io mi sono convinta che questo bisogno proprio non c’è.
Non si accorge che appena piove spuntano venditori di ombrelli a ogni fermata della metro e che troviamo bibite fresche ovunque ci servano, comprese le spiagge libere più sperdute? Nessun governo programma tutto questo; ci pensano i guadagni che noi imprenditrici e operatrici di mercato ci aspettiamo di ottenere andando a soddisfare i consumatori. Non è proprio il mercato che permette alla produttività di tutti di aumentare e, quindi, fa crescere l’economia e il benessere della gente? Non è proprio tutto questo che ha permesso la spettacolare crescita economica degli ultimi due secoli e mezzo?
E i mercati non funzionano molto meglio se la politica e lo Stato non ci mettono il becco o ce lo mettono il meno possibile? A me sembra che tanti guai dell’Italia e dell’Europa siano dovuti proprio a un peso eccessivo dello Stato, che schiaccia le potenzialità del mercato e ne riduce l’efficienza. Anzitutto nel mercato del lavoro. Se le imprese fossero più libere di assumere e licenziare e i salari fossero lasciati al libero gioco della domanda e dell’offerta, più gente troverebbe lavoro, la disoccupazione sarebbe più bassa e sarebbe riassorbita più in fretta. Invece, ci si mettono sempre i sindacati di mezzo e il mercato del lavoro rimane bloccato. Siccome i sindacati condizionano la politica, questa li protegge e li aiuta a scapito dell’impresa e del mercato. L’idea che lo Stato debba spendere soldi per sussidiare i disoccupati, quando questi potrebbero essere tranquillamente riassorbiti dal sistema produttivo, mi ha sempre irritato. Quel Keynes è stato una rovina!
E i mercati finanziari? Non funzionano molto meglio se gli operatori sono liberi di inventarsi e offrire nuovi prodotti che aiutano tutti noi ad affrontare vecchi e nuovi rischi e a distribuirli in modo che ciascuno ne debba sopportare un po’ meno? Certo, non è sempre facile capire cosa veramente siano questi nuovi prodotti finanziari. Ma non mi dica che non c’è abbastanza informazione! Basta leggere i giornali, che sono pieni di notizie, dati, numeri. E se uno non ne ha voglia basta affidarsi ai bravi consulenti, che sono capaci di spiegare ogni cosa anche a mio nonno, il che è tutto dire. Lo so, lo so... ogni tanto i mercati finanziari esagerano e qualche crisi ci scappa e qualcuno ci rimette un sacco di soldi. Ma magari prima, proprio grazie allo sviluppo dei mercati finanziari, ne aveva guadagnati anche di più. Insomma, caro Professore: evviva il libero mercato!
Molto cordialmente,
sua Arianna N.

Mercato e divisione sociale del lavoro

Voglio innanzitutto rassicurare la Signora Arianna N. e i miei venticinque lettori che ho sempre riconosciuto i molti meriti del mercato, quando in tanti volevano semplicemente abolirlo. Ma credo di essere sempre stato realista: i mercati hanno anche molti difetti. Impossibile ignorare che, già nei primi decenni del secolo scorso, gran parte di quei difetti erano stati individuati dagli economisti. Che avevano anche cercato i rimedi nella politica economica, cioè nell’intervento dello Stato. Non per soppiantare i mercati, quanto per aiutarli, correggerli, aggiustarne il funzionamento, e magari renderli più efficienti e più giusti.
Non c’è dubbio che il mito fondante dell’economia è che il mercato, il libero mercato, sia al centro della società, lo scambio volontario sia l’essenza stessa del mercato e il mercato abbia straordinari poteri di coordinamento spontaneo delle azioni degli individui. È diventata un’abitudine collegare il mito fondante dell’economia al nome di Adam Smith. Gran parte degli economisti si è fissata su una frase della Ricchezza delle nazioni (1776) in cui Smith scrive: «quando [l’imprenditore] preferisce il sostegno all’attività produttiva del suo paese invece di quella straniera egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni»1. Questa è una delle sole tre volte in cui Smith menziona la mano invisibile in tutte le sue opere2.
Generazioni di economisti sono rimasti folgorati dalla mano invisibile. È stato trascurato che quella di Smith fosse una parabola per descrivere due possibilità: che il libero commercio internazionale dia risultati migliori delle barriere tariffarie e dei divieti di importazione e che gli scambi permettano l’ampliamento spontaneo della divisione del lavoro e quindi la crescita delle capacità produttive, dell’invenzione di nuove macchine che facilitano la produzione e la moltiplicazione dei prodotti. Solo la possibilità dello scambio «incoraggia ogni uomo a dedicarsi a un’occupazione particolare».
Una faccenda, quella della divisione del lavoro, vecchia almeno come Platone. La specializzazione del lavoro è necessaria e utile perché gli uomini (all’epoca le donne erano fuori gioco) nascono con diverse abilità e diversi talenti e la città (oggi diremmo la società) ci guadagna se ciascuno fa quello che sa fare meglio. Chiaro che chi produce incessantemente chiodi tutto il giorno non può nutrirsi né potrà vestirsi di ciò che produce. Platone, nella Repubblica, intuisce che grazie allo scambio e al mercato i produttori di chiodi possano comprarsi cibo e vestiti. Platone si spinge a dire che il mercato dovrà essere alimentato da una moneta comunemente accettata e dovrà essere presidiato da soggetti a loro volta specializzati nel comprare e vendere, al fine di consentire ai contadini e agli artigiani di tornare ai loro lavori e non stare tutto il giorno ad aspettare i clienti. Gli operatori di mercato, secondo Platone, dovranno essere «gli individui più deboli di fisico e inabili a tutti gli altri lavori». Non una grande considerazione dei mercanti, a dirla tutta.
Inoltre, per Platone e dopo di lui Aristotele, i mercati devono essere sottoposti a leggi e regole definite dalla politica che regge la città. I filosofi greci hanno “inventato” la politica economica. Il pensiero che possano esservi sfere separate tra politica e mercato, per non parlare di un mercato libero che si autoregola3, è del tutto al di fuori dell’orizzonte concettuale di Platone e di tutta la filosofia antica. Ma anche di tutta la storia fino alla fine del Settecento. Nonostante il grande sviluppo del commercio, nell’antichità greco-romana, nel Medioevo e nei primi secoli dell’Età moderna, la distribuzione del grano e di altri beni di prima necessità da parte dell’amministrazione pubblica era pratica comune. Come lo era nell’Egitto di “Giuseppe il nutritore” raccontato da Thomas Mann. Ha notato Karl Polanyi nella sua opera più nota, La grande trasformazione (1944), che i mercati continuarono per molti secoli ad avere un ruolo accessorio, rigidamente separati in mercati per il commercio locale e mercati per il commercio “esterno” (oggi diremmo internazionale).
Eravamo nell’età verginale. Fino agli albori della società moderna, la divisione del lavoro rimane immersa nei rapporti sociali. È la società a plasmare la divisione del lavoro e non quest’ultima a plasmare la società. Così era e in parte è ancora presso numerose tribù primitive dell’America latina, dell’Africa e delle isole del Pacifico. La divisione del lavoro è organizzata dai saggi della tribù in base alle capacità naturali degli individui. Rilievo diverso assume lo scambio tra tribù (quello che noi chiameremmo commercio internazionale). Ma si tratta per lo più di uno scambio reciproco di doni tra abitanti di diverse isole o tribù, sottoposto a un rigido rituale, in cui il capo e i suoi consiglieri hanno un importante ruolo di regia, come nel caso famoso delle isole Trobriand (oggi Kiriwina, parte di Papua New Guinea)
In Europa, fino al XVIII secolo, né i mercati locali né quelli esterni erano liberi o avevano le caratteristiche che gli economisti definirebbero concorrenziali. Solo col progressivo abbattimento delle barriere tra mercati locali e mercati esterni e con la formazione dei mercati nazionali la concorrenza si è fatta strada. Ma non si è trattato di un processo spontaneo. A far saltare le barriere e a spianare la strada alla concorrenza è stata la politica degli Stati-nazione. Ciò è avvenuto, peraltro, con molta, moltissima cautela. Nella fase di formazione dei mercati nazionali, per tutta l’epoca del mercantilismo, la regolamentazione statale prevaleva ancora sull’autoregolazione. «Soltanto nel 1830 – ha scritto Polanyi – il liberalismo economico scoppiò con passione di crociata e il laissez-faire divenne un credo militante» (anche se in modo e misura diversa tra Paesi anglosassoni e europei “continentali”).

L’alba della mano invisibile

Smith si fidava della divisione del lavoro e credeva che il mercato l’avrebbe aiutata. Perciò arrivò a sostenere che «la grande moltiplicazione dei prodotti di tutte le varie arti, in conseguenza della divisione del lavoro, è all’origine, in una società ben governata, di una generale prosperità che estende i suoi benefici fino alle classi più basse del popolo» (Smith, 1776, p. 15). Ma l’inciso non va trascurato: «in una società ben governata». Qui Smith mostra la sua tipica prudenza, perduta poi da molti suoi apostoli nei secoli successivi. Smith torna e ritorna varie volte sui limiti e i difetti che la divisione del lavoro può avere, sottolineando quanto un buon governo possa fare per alleviarli (lo notò anche Einaudi, in Croce, Einaudi, 1957, p. 126).
Per esempio, Smith scrive che la semplicità e la ripetitività delle operazioni cui la divisione del lavoro conduce toglie al lavoratore «le occasioni di applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva» e questi «in genere diviene tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana». E via descrivendo il degrado del corpo e della mente dovuti alla divisione del lavoro. Fino a concludere che in questa condizione cade necessariamente la gran massa della popolazione «a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo», sostenendo con la spesa pubblica e le appropriate istituzioni scolastiche e culturali l’istruzione della gente comune e in particolare della gioventù (pp. 769-770). Per Smith la divisione del lavoro ha sia effetti positivi che effetti negativi. E di quelli negativi deve occuparsi il governo, senza buttare via gli effetti positivi, troppo importanti per rinunciarvi.
Nel XIX e XX secolo, invece, la mano invisibile è divenuta sinonimo di mercati efficienti, sempre capaci di coordinare al meglio le miriadi di attività derivanti dalla divisione sociale del lavoro, senza bisogno di decisioni centralizzate, proprio come pensa la Signora Arianna N. Il mito fondante dell’economia moderna nasce così. In pochi decenni una espressione evocativa si trasforma in una “legge” scientifica: la legge del mercato. È il messaggio convergente di alcuni economisti attivi nella seconda parte dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento (Edgeworth, Jevons, Marshall, Pareto, Walras, Wicksell). Sono i prezzi, compresi il prezzo del lavoro (salario), quello del capitale (interesse) e quello delle valute estere (tasso di cambio) a fornire i segnali necessari a modificare le scelte di mercato nella direzione giusta. Il mercato, anzi i mercati, lasciati liberi, sono in grado di autoregolarsi tutti insieme simultaneamente. Non c’è bisogno di alcun intervento correttivo da parte dei governi, se non per abbattere i residui ostacoli alla piena libertà dei mercati e alla concorrenza, come per esempio le regolamentazioni del lavoro.
Questa fiducia nelle naturali capacità del mercato è sempre stato il fondamento del laissez-faire. Dagli anni Ottanta del secolo scorso – come si dirà nei capitoli 2 e 3 – il mito fondante si è esteso fino a far coincidere i confini del mercato con quelli della società, così da disegnare, almeno nella visione di alcuni economisti, una “società di mercato”. Costituita quasi solo da relazioni di scambio volontario, una società del genere condividerebbe col libero mercato l’efficienza, la superiore capacità espansiva; insomma, le magnifiche sorti e progressive. Era il tempo in cui l’ideologia di mercato raggiungeva il suo apogeo.

La mano invisibile: da parabola a teorema

In realtà, ciò che gli economisti hanno dimostrato è che, se si verificano certe condizioni (che vedremo tra breve), un’economia concorrenziale coordina le libere scelte individuali in modo massimamente “efficiente”. Efficiente nel senso (definito da Vilfredo Pareto) che la società raggiunge il massimo benessere tecnicamente possibile oltre il quale ogni ulteriore miglioramento per qualcuno comporterebbe un peggioramento per qualcun altro.
In questo Nirvana tutte le risorse, tra cui il lavoro e il risparmio dei cittadini, saranno utilizzate completamente e al meglio. Tutti quelli che vogliono lavorare possono farlo (non vi sarà cioè disoccupazione involontaria), purché tutti i prezzi e i salari siano flessibili, cioè aumentino se la domanda supera l’offerta e diminuiscano se, al contrario, l’offerta supera la domanda. Purché, quindi, il mercato sia libero di autoregolarsi e tutti siano liberi di accettare o non accettare di vendere e comprare. Questa dimostrazione è stata popolarizzata come “teorema della mano invisibile”.
Gli economisti più avvertiti hanno sempre sottolineato nei loro lavori scientifici che, se le sudd...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. 1. Perché il libero mercato non fa miracoli
  3. 2. Lo Stato minimo non è il massimo
  4. 3. Le regole non bastano
  5. 4. La disuguaglianza è importante
  6. 5. Ridurre le disuguaglianze è giusto e possibile
  7. 6. I rischi di un futuro troppo caldo
  8. 7. L’egoismo non è razionale
  9. 8. Al posto di una conclusione
  10. Bibliografia