La banca e il ghetto
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La banca e il ghetto

Una storia italiana (secoli XIV-XVI)

  1. 272 pagine
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La banca e il ghetto

Una storia italiana (secoli XIV-XVI)

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La banca e il ghetto sono due invenzioni italiane. Nel 1516 veniva fondato il ghetto di Venezia. Negli stessi anni, sempre in Italia, si assisteva alla nascita di un nuovo modello finanziario, destinato a grandi fortune: la banca pubblica.Questa coincidenza non è casuale. La banca e il ghetto sono le due costruzioni complementari di una modernità che riconosce nella finanza l'aspetto più efficace del governo politico. La banca diventa in Italia, tra Medioevo e Rinascimento, un'invenzione strategica grazie alla quale le oligarchie cristiane al potere (dagli Sforza ai Gonzaga ai Medici, dal papa alle élites di Venezia o Genova) controllano direttamente lo spazio sociale che dominano.Si crea così la possibilità di indicare come economia 'dubbia' quella in cui operano gli 'infedeli'. Il prestito a interesse e le attività economiche affidate dai governi agli ebrei sono derubricate ad attività minori e non rappresentative dell'economia 'vera' degli stati. Questo percorso conduce alla delegittimazione progressiva della presenza ebraica in Italia e culmina con l'istituzione dei ghetti.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124697

VI.
La crescita
e lo sviluppo

«...proprio in questo modo operano le api»
William Shakespeare, Enrico V, I 2223
Il 7 giugno del 1420 nel Consiglio generale del Comune di Siena si ragiona sulla possibilità di aprire in città una banca pubblica che presti denaro ai cittadini più poveri, eliminando così la necessità del prestito su pegno affidato ai banchi ebraici. Prima di tutto si stabilisce che «el presto el quale se tiene per gli giuderi disfacci la città e el contado di Siena però che tutti e beni e laltre buone robbe ne vanno di fuore del nostro distretto e a puoveri huomini sono mangiate lossa co la grande usura et sono male tractati». Poi si decide che «e pacti e contracti facti coi giuderi non vagliono e non tengono di ragione però che sono facti contra e buoni costumi e contra la leggie de dio, conciossia cosa che come a tutti è noto el prestare a usura è prohibito per lo testamento vecchio e nuovo e secondo tutte le leggie canoniche e civili, e così i pacti che si fanno sopra tale materia non vagliono e non si abbono observare»224.
Il rimedio dovrà essere realizzato costituendo un risparmio pubblico, messo insieme per via creditizia e utilizzato poi per prestare denaro o viveri ai più svantaggiati, così da «conservare le povare persone e per loro conservatione mantenere la divitia nella città», di modo che insomma l’utilità della città-Stato («bene e utile di Comune») venga a coincidere con quella dei poveri («utilità de povari huomini»). «E si debbi tenere nella città di Siena uno presto per lo Comune in questo modo: che per li nostri Signori e capitani di popolo e per li gonfalonieri maestri e ordini a la città si abbino eleggere tre buoni valenti et experti cittadini», i quali, dotati di un capitale iniziale di cinquemila fiorini, salariati dal Comune, attiveranno un banco di prestito ad un tasso di interesse stabilito, rendendo periodicamente «buona ragione del conto e traffico loro» ai «legislatori»; tutto il guadagno realizzato da questi «banchieri» al servizio del potere pubblico sarà impiegato poi «in utilità a le povare persone». I gestori di questa attività lucrosa, infatti, «sieno tenuti tutto el dicto guadagno investire in grano per mantenere et conservare la divitia nella città et habundantia a povari nella città e contado di Siena, sì che el Comune non guadagni alcuna cosa de provisione ma tutta se converta a bene e utile de le povare persone». In conclusione, ed è questo l’obiettivo che ci si prefigge, «le buone robbe rimarranno nella città e no andaranno de fuore» e i poveri non saranno «disfacti come sonno al presente per le mani de giuderi». Tutta la discussione avvenuta in sede legislativa, si nota infine, si è avvalsa della consulenza di insigni teologi: «e di questo se avuto sano e buono consiglio da valenti maestri in Teologia»225.
Come si può osservare, al di là del dato meramente cronologico, che in tutta chiarezza permette di attribuire al governo cittadino, a Siena – come del resto a Foligno o a Genova, a Venezia e in varie città della Terraferma veneta226 –, il precoce tentativo di fondare una banca pubblica che finalizzi un risparmio collettivo realizzato per via creditizia al sostentamento delle «povare persone» (si vedrà più oltre di chi si tratta), quello che colpisce nel testo in questione, in tutta la sua forza di testo legislativo, è l’insistenza sulla necessità di «mantenere la divitia nella città» così da impedire che «le buone robbe» finiscano «de fuore» dalla città-Stato, impoverendola. La protezione, per via creditizia, dei «poveri» coincide insomma con il proposito economico e politico di creare un monte di ricchezza che rimanga all’interno della città, intesa sia come territorio effettivo che come soggetto, come Corpo, simbolico. L’affiorare dell’ipotesi creditizia pubblica ha dunque nello stesso momento i caratteri di un’impresa caritativa e di un progetto finanziario fortemente caratterizzato da elementi di autorappresentazione carismatica della res publica, in termini che di recente la storiografia ha giustamente definito «rituali»227.
La polemica antiebraica contenuta in questa delibera, dunque, ha un senso assai specificamente politico, oltre che economico: molto più concretamente connesso alla costruzione di forme istituzionali di governo economico della realtà statale italiana che non totalmente riferito ad un imprecisato clima di «intolleranza» teologico-morale nei confronti del prestito o delle usure ebraici, come vorrebbe molta storiografia dedita allo studio dei rapporti ebraico-cristiani fra medioevo e prima modernità. Tanto il ritualismo interfamiliare perimetrato dai rituali civici e professionali di «arti», «fraglie, scuole, società, compagnie, ordini, università» o «collegi»228, quanto la violenza con la quale, appunto fra Tre e Quattrocento, le istituzioni più o meno implicitamente affidavano a gruppi ritualmente definiti il compito di espellere dal Corpo della città chi lo infettasse229, permettono di comprendere che l’ascesa oligarchica dei gruppi bancari e mercantili cristiani, caratteristica – come ha efficacemente sintetizzato Luciano Palermo230 – della fase economica deflattiva intrinseca al Quattrocento italiano ed europeo, ebbe in Italia centrosettentrionale sia il significato di un’affermazione politica di ceti professionali finanziariamente forti, capaci di sviluppare nuove tecniche commerciali e contabili, sia tutto il senso di una riorganizzazione civica, simbolica e religiosa degli spazi urbani. È appunto in questa fase, databile a partire dalla fine del Trecento, che l’ambiguo rapporto già esistito tradizionalmente fra il prestito a pegno gestito dagli uomini d’affari ebrei – uomini d’affari che delle dinamiche del prestito facevano il punto di partenza di un’imprenditorialità commerciale231 a sfondo obbligazionario locale e nell’intreccio dei debiti fra persone e gruppi leggevano la chiave di una socialità tutta concreta e territorialmente definita – e le dialettiche creditizie cristiane orientate, dall’appartenenza e dai legami fiduciari ad essa propri, si trasformò da latente tensione in conflitto aperto tendenzialmente e rapidamente crescente, nonostante l’andamento altalenante che lo specificava nelle diverse situazioni economiche e politiche delle città-Stato che lo vivevano.
In questo contesto, fatto, come si vede, di elementi economici, politici, religiosi e rituali nello stesso tempo, presero forma due fenomeni qualitativamente diversi ed attestati da documenti difficilmente comparabili, eppure da considerarsi congiuntamente per intendere bene la traiettoria che dai primi tentativi di creare banchi pubblici giungerà, nel 1462, alla fondazione del primo Monte di Pietà: da un lato la definitiva codificazione politico-economica del risparmio pubblico, del «tesoro» della città-Stato232, come chiave e punto di partenza della crescita233 e dello sviluppo economico ma anche politico dello Stato; dall’altro, la trasformazione del discorso economico francescano, accumulatosi e definitosi testualmente dalla fine del Duecento in avanti, in un’azione concretamente riformatrice delle politiche economiche e in una strategia di ridefinizione del credito come logica del governo pastorale. Non è facile dire se uno di questi due fenomeni sia all’origine dell’altro, e forse non è troppo importante appurarlo; è però davvero decisivo comprendere in che modo la loro interazione fu all’origine sia del programma di fondazione dei Monti pii, sia della progressiva destabilizzazione dei ruoli economici ebraici234 nella prospettiva di una riconsiderazione della partecipazione degli «ebrei» ai mercati in termini di economia parassitaria e degradata.
La categoria del «bene comune» e la pratica politico-economica riassunta nell’ideologia dello sviluppo cittadino (o della utilitas pubblica) si fondavano in effetti, sin dal pieno Trecento, tanto sull’istituto del debito pubblico235, consolidato in prospettiva protobancaria nella forma del Monte comune, nelle maggiori città dominanti, quanto su strategie creditizie tradizionali ma riformulate dal Tre al Quattrocento, come quella che prevedeva il commercio delle rendite dei diritti di riscossione, i cosiddetti censi consegnativi236. Tutto questo incremento qualitativo e quantitativo, d’altra parte, nel momento in cui determinava l’ingigantimento e l’articolazione delle tecniche di scritturazione contabile e la nascita o il perfezionamento di logiche bancarie dell’investimento, del deposito e del trasferimento di denaro, come il conto corrente, il credito di esercizio, la lettera di cambio, fino all’affermarsi, più volte trionfalmente ricordato dalla storiografia, della registrazione contabile in «partita doppia»237, non avveniva nel cielo astratto di un’economia fuori dal tempo, bensì nel quadro concreto e politico – tutt’altro che neutro ideologicamente – di città-Stato governate da élites estremamente acculturate dal punto di vista economico e nelle quali si venivano determinando appunto, all’insegna del bonum commune, sistematiche politiche del risparmio pubblico, ossia di accumulazione e investimento fruttifero della ricchezza pubblica, in grado di per se stesse di riordinare gerarchicamente i diversi ambiti di cui l’economia cittadina – cioè statale – era composta.
Nell’ambiente giuridico che ormai stabiliva con nettezza la differenza fra cittadini onorati e abitanti della città e del territorio privi di onore, oppure sospetti o addirittura del tutto estranei all’ordine sociale e morale della civitas238, si vennero dunque producendo allo stesso tempo politiche fiscali e del risparmio-investimento, come quelle riassunte dai Monti delle doti e dai Monti comuni239, e definizioni della giustizia e dell’equità che, ad esempio, nelle pagine di giureconsulti della prima metà del Quattrocento, come Angelo Gambiglioni da Arezzo, fondavano il diritto del figlio di uccidere impune il proprio padre bandito per gravi colpe dalla città in quanto ormai estraniato dal mondo della riconoscibilità istituzionale e divenuto «nemico della patria» (effectus hostis patrie)240. Nell’uno come nell’altro caso, la felicità e la difesa della patria autorizzavano e normalizzavano misure politiche o giudiziarie finanche estreme purché intese come utili, sia pure eccezionalmente241, alla costruzione o al risanamento del soggetto civico e pubblico raffigurato come Corpus il cui equilibrio era spesso precario o minacciato242. In questo ampio contesto, fatto di politiche finanziarie, dottrine giuridiche, tecniche contabili, e sempre più saldamente controllato da oligarchie talvolta mutevoli, in virtù di una certa mobilità sociale determinata dall’arricchimento243, ma tuttavia, da un regime all’altro, coerentemente caratterizzate da politiche della disuguaglianza e dell’esclusione244, ovverossia da una identificazione dell’utilità generale (dello Stato) con la crescita della ricchezza di minoranze cetuali privilegi...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima. Nello specchio della minoranza
  3. I. Economia cristiana e reti economiche ebraiche
  4. II. Il credito dei cristiani e il debito degli ebrei
  5. III. Gli ebrei nell’Italia senza Principe
  6. Parte seconda. La banca secondo natura
  7. IV. I corpi e il Corpo
  8. V. Risparmi e crescita del «bene comune»
  9. VI. La crescita e lo sviluppo
  10. Parte terza. Governare col credito
  11. VII. La banca nell’Italia delle cento città
  12. VIII. Amministrare la fiducia
  13. IX. La contabilità e le politiche