Il sistema della corruzione
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Il sistema della corruzione

  1. 120 pagine
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Il sistema della corruzione

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Il cialtrone è parte della nostra vita. Sia che vogliamo difendercene smascherandolo, sia che vogliamo andare a ingrossare le fila del suo esercito, non possiamo prescindere dalla sua conoscenza.Che frequentiate semplici dilettanti o sofisticati professionisti della cialtroneria, troverete in questo libro preziose indicazioni per relazionarvi con queste temibili, ma affascinanti, creature senza farvi troppo male.Se, invece, pensate di non aver bisogno di consigli, allora cominciate a preoccuparvi: perché nessuno è immune dai cialtroni. Essi vivono fra noi e, talvolta a nostra insaputa, sono noi.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858136782

VI.
Perché la lotta alla corruzione
è stata inadeguata

Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo rispetto a quello di venticinque anni fa, non appare dunque frutto di una riduzione della corruzione, ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i magistrati (attaccati da ogni parte) e lo sfascio della giustizia, non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi anni, spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini sia l’esito negativo dei processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata; semmai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere.
A questo proposito, va fatto un cenno all’attuale inadeguatezza, in Italia, delle attività di contrasto: la deterrenza delle pene è molto bassa, ove si pensi che la quasi totalità delle condanne si attesta su pene che non comportano l’effettiva espiazione in carcere (per sospensione condizionale o per affidamento in prova al servizio sociale) e che comunque solo una piccolissima parte di questi reati viene scoperta e una parte ancora minore si conclude con una sentenza di condanna.
Il sistema giudiziario italiano versa in una condizione di inefficienza gravissima: per questo siamo sorvegliati speciali del Consiglio d’Europa, e probabilmente passeremo dei guai seri perché ci hanno ammoniti in tutte le maniere. Nonostante questo, il problema non viene risolto perché, secondo me, sono state imboccate strade sbagliate. Ebbene, il nostro sistema giudiziario è durissimo e spietato nei confronti di chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza di reato; è invece del tutto inadeguato nei confronti di chi commette reati di una certa complessità. Infatti, per questo tipo di reati è difficile che si arrivi a sentenza prima che maturi la prescrizione; se invece uno si fa arrestare in flagranza – ad esempio per uno scippo – sconta la pena prima che inizi l’appello, per cui non avrà benefici penitenziari, non avrà prescrizione, non avrà nulla.
Allora, che cosa succede? Ricordiamo ancora il caso Parmalat con le sue 45.000 parti civili. Il problema è che sugli apparati giudiziari si scaricano questioni che dovrebbero trovare soluzioni diverse: ad esempio, il risarcimento dei danni potrebbe essere risolto prima, in via extragiudiziale. Ma questo accade raramente, perché il debitore pagherà solo se gli conviene, e potrebbe invece trovare più vantaggioso resistere in giudizio, nella speranza di non pagare più. Nel frattempo, avrà provveduto a far sparire i beni per evitare pignoramenti, sequestri, ecc.
Qual è lo stato dell’arte relativamente alla repressione? Come ho già detto, la situazione è disastrosa. In primo luogo, le fattispecie di reato sono del tutto inadeguate in quanto non corrispondenti ai reali fenomeni. Anche dopo la legge cosiddetta Severino (dal nome del ministro proponente) esistono diverse fattispecie. La maggior parte dei processi non serve ad accertare se il privato A ha pagato il funzionario B, ma soltanto a decidere in quale casella collocare quella condotta.
Altrettanto inadeguate sono le pene. Il Codice penale svolge in Italia una funzione di spaventapasseri: visto da lontano fa paura, ma da vicino lo si scopre essere sostanzialmente innocuo. Questo perché l’Italia è l’unico paese d’Europa, assieme alla Norvegia, ad avere un Codice penale antecedente alla seconda guerra mondiale. Le pene spaventose previste dal Codice penale non vengono realmente applicate, perché una serie di meccanismi (dai bilanciamenti di attenuanti alle attenuanti generiche, ai benefici penitenziari, alle amnistie, all’indulto, ecc.) fa sì che, concretamente, le pene inflitte siano del tutto indipendenti da quelle previste dal Codice. Così nel 98% delle condanne per corruzione le pene inflitte sono inferiori ai due anni di reclusione, con conseguente sospensione della pena.
La repressione della corruzione in Italia è dunque sostanzialmente inesistente. Per avere un raffronto, la Finlandia, considerata dagli indici di percezione della corruzione uno dei paesi meno afflitti da questo tipo di reato, ha ogni 100.000 abitanti più condanne per corruzione dell’Italia, con pene decisamente maggiori. Anche il recente aumento delle pene ha scarsa efficacia, poiché riguarda i massimi e non i minimi.
C’è poi l’inadeguatezza delle attività investigative. Ho già accennato al fatto che le forze di polizia non sono strutturate per scoprire i reati di corruzione. Inoltre, in Italia non sono attualmente previste operazioni sotto copertura in materia di corruzione. Negli Stati Uniti, ad esempio, vengono realizzati dei test di integrità che consistono nel mandare un poliziotto sotto copertura a offrire denaro ai neoeletti, che se accettano vengono subito arrestati. In questo modo si garantisce un buon livello di onestà della classe dirigente. Infatti, chi riceve l’offerta ha due alternative: o chiama la polizia e quindi si mostra onesto; o accetta, e allora si mostra ladro e finisce in galera.
In Italia abbiamo, in sintesi, due problemi. Il primo è quello di scoprire i reati. Ed è un problema drammatico. Basti pensare a un dato: nel distretto di Corte d’Appello di Reggio Calabria in vent’anni vi sono state due condanne per corruzione, una ogni dieci anni: o il distretto di Corte d’Appello di Reggio Calabria è un’isola felice, oppure il sistema è impenetrabile. La mia sensazione è che la corruzione si scopre di più dove ce n’è di meno. Dove il sistema non è perfetto, infatti, c’è possibilità di penetrare; ma dove il sistema è perfetto, non è possibile far nulla.
Il secondo problema – lo ripeto – è il legame strettissimo tra il crimine organizzato e la corruzione, perché quello della corruzione è un mercato illegale e il crimine organizzato gestisce i mercati illegali molto meglio di singoli individui. Quindi, là dove esistono organizzazioni criminali, si ha un miglior sistema di corruzione, come ha rivelato tra gli altri il pentito Angelo Siino con l’esempio del tavolino a tre gambe (Cosa nostra, imprese, politica) dove si decidevano il pizzo e contemporaneamente le tangenti ai partiti. E in questo tipo di realtà è praticamente impossibile scoprire in via autonoma la corruzione, che viene alla luce solo grazie alle indagini sul crimine organizzato.
La ragione principale dei diversi esiti di indagini e processi è che sono influenzati da una serie di variabili che non dipendono soltanto dai magistrati o, in generale, dagli inquirenti, ma dipendono dal comportamento dei soggetti processuali. Facciamo un esempio: le indagini sul crimine organizzato si fanno da sempre, però in alcuni momenti ci sono persone che decidono di collaborare (i collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti), in altri momenti invece questo non accade. La valutazione che un imputato fa – ossia se collaborare o meno – dipende da una serie di fattori, tra i quali la previsione se verrà condannato oppure no, quale sarà la pena, se davvero gli faranno scontare quella pena e con quali modalità. Se sa che prenderà l’ergastolo e che lo sconterà secondo quanto previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, le probabilità che decida di collaborare crescono in maniera vertiginosa. Se, invece, si incomincia a discutere se abolire l’ergastolo, se abolire il 41 bis, se applicare o meno una serie di benefici alternativi, l’indulto, ecc., questa persona, fatte le debite valutazioni, capisce che nel caso in cui decida di collaborare la pena sarà ridotta di soli due o tre anni e quindi, probabilmente, deciderà di non collaborare, evitando così di esporre se stesso e i propri parenti a possibili ritorsioni.
La stessa cosa avviene con la corruzione. Quando le indagini incalzano la situazione cambia radicalmente, e lo prova il comportamento di molti imprenditori che nel 1992-94 si presentavano in Procura per dirci quante tangenti avevano pagato. Non erano certo imprenditori «folgorati sulla via di Damasco».
Il fatto è che questi imprenditori davano per scontato che sarebbero stati scoperti e sottoposti a procedimento penale. A quel punto il loro interesse era di evitare lo strepitus fori, perché se ci fosse stato un processo i giornali avrebbero parlato in termini negativi delle loro imprese, con conseguente danno di immagine; gli imprenditori preferirono perciò venire in Procura, confessare e patteggiare, e così uscire dal processo. Se, invece, una persona dà per scontato che difficilmente il processo partirà, che – ammesso che parta – sarà difficile sostenere le accuse in giudizio, e che anche in caso di condanna la legislazione farraginosa farà sì che in appello o in Cassazione possa intervenire la prescrizione, allora il rapporto di forza è avvertito in modo diverso e quindi diminuisce il numero di coloro che sono disposti a collaborare.
Questo è il contesto: gli apparati giudiziari non ce la possono fare e non c’è da aspettarsi che l’aiuto venga dalla politica. Aggiungo, inoltre, che quando ci sono in gioco interessi rilevanti, forti, può neutralizzarsi quel fenomeno che io chiamo del «jukebox». Noi abbiamo un regime di azione penale obbligatoria in cui il pubblico ministero che riceve una notizia di reato è obbligato a procedere. Io dico sempre che la professionalità del pubblico ministero è la professionalità del jukebox, cioè deve controllare se la moneta che hanno inserito è vera o falsa. Se la moneta è buona e corrisponde all’ammontare indicato, lui deve suonare la canzone, per quanto ignobili siano le ragioni di chi ha inserito la moneta. Se ci sono in ballo interessi contrapposti, tutti inseriscono monete scegliendo canzoni diverse e, alla fine, il concerto può azzerare gli opposti «fini pravi» e dare un risultato di giustizia. Se invece c’è soltanto qualcuno che possiede la moneta e gli altri la moneta non ce l’hanno, il jukebox suona sempre e soltanto un’unica canzone. Questo può accadere.
Motivi per essere ottimisti è difficile trovarne, a meno che uno non faccia propria la battuta di Zinov’ev, riportata in Cime abissali, sulla differenza tra l’ottimista e il pessimista: pessimista è chi sostiene che peggio di così non può andare; ottimista è chi dice: «Sì che può andare anche peggio!»… Purtroppo – e lo sottolineo – nel nostro paese gran parte della cronaca politica ed economica è anzitutto cronaca giudiziaria. Se scorriamo le pagine economiche, quasi sempre troviamo un articolo su un qualche processo, e questa è una grave anomalia: ciò non dovrebbe accadere, perché dovrebbero esserci meccanismi di regolazione a monte, e non dovrebbe intervenire il giudice penale. Al massimo dovrebbero esserci delle cause civili.
Quanto alle falsità contabili, presupposto in molti casi della corruzione perché indispensabili per procurarsi il denaro gestito extrabilancio necessario a pagare le tangenti, la normativa è ancora una volta inadeguata.
Negli Stati Uniti, con lo scandalo Enron, hanno fatto una cosa molto semplice, e cioè hanno detto: «Benissimo, l’amministratore va in tribunale e giura che il bilancio è vero. Se poi si scopre che non è vero, risponde di perjury», punibile fino a venticinque anni di carcere. I bilanci falsi non devono essere una specialità solo italiana, perché ho visto che molte società europee hanno smesso di quotarsi a Wall Street dopo il varo di questa norma. Evidentemente gli amministratori non se la sentivano di assumere i rischi di un’incriminazione per perjury davanti a una Corte americana.
Detto questo, se ci fossero norme più serie per le false comunicazioni sociali, se fosse perseguita realmente la corruzione privata, se fossero introdotti reati diversi da quelli che già ci sono, rimarrebbe comunque un problema da affrontare, vale a dire l’inadeguatezza degli Stati nazionali davanti a questi fenomeni. Tranne, forse, gli Stati Uniti (per le loro dimensioni) e l’Unione europea, gli altri paesi non sono in grado di opporvisi, perché oggi è possibile fare quello che viene chiamato lo «shopping degli ordinamenti». In altre parole: io scelgo l’ordinamento che preferisco con il quadro normativo a me più favorevole e colloco, per esempio, una società in un paradiso societario che tiene i conti in un paradiso bancario; faccio le operazioni di cambio da una valuta all’altra in un paradiso valutario (dove non ci sono controlli sui cambi); imputo redditi a un soggetto che sta in un paradiso fiscale. Qualche volta le quattro cose stanno insieme negli stessi paesi, e questi sono paradisi anche dal punto di vista turistico. In questi paesi a volte operano le Ibc (International Business Company), imprese tipiche di molti paradisi off shore le quali hanno questa caratteristica stupefacente: non possono operare con i residenti in quegli Stati. Si sa già così bene che sono soggetti di malaffare, che possono operare soltanto con persone di altri paesi.
Di fronte a questa situazione tutte le autorità giudiziarie – non soltanto quella italiana – sono disarmate perché non si può fare una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale, per esempio a Panama, per sapere chi sono i soci di una determinata società, giacché il libro delle assemblee può essere conservato in qualunque paese al mondo (dal momento che le azioni a Panama possono essere al portatore). È quindi inutile chiedere all’autorità giudiziaria di Panama di effettuare la perquisizione di una determinata società perché a noi serve sapere quali sono stati i partecipanti dell’ultima assemblea: non lo si saprà mai, perché risponderanno che il libro delle assemblee è altrove.
C’è poi un ulteriore problema: lo strumento dell’assistenza giudiziaria internazionale è obsoleto. Adesso c’è un tentativo di creare, sul modello del mandato di arresto europeo, un «modello di mandato europeo di ricerca della prova», che dovrebbe agevolare le cose. In ogni caso sarà valido soltanto nell’ambito dell’Unione europea e non per gli altri paesi. Ci troviamo in un gioco dell’oca in cui le frontiere non ci sono più per i ladri ma sono rimaste per le guardie, e quindi i ladri passano liberamente, le guardie no. Con un messaggio di posta elettronica, o un fax, spostano milioni di euro o di dollari da un capo all’altro del pianeta in un secondo, mentre noi impieghiamo alcuni anni per ogni singolo passaggio.
Un esempio efficace è quello che mi capitò nel corso di una rogatoria a Hong Kong, quando era ancora possedimento britannico. Accadde questo: risultava trasferita una somma di denaro – verosimilmente per una tangente – su un conto svizzero; una volta tanto la Svizzera rispose rapidamente e ci disse che questa somma era stata trasferita su un conto intestato alla Acceptor Limited, una società di diritto delle Isole Cook (la cui esistenza ho scoperto in quell’occasione, e che si trovano tra l’Australia e il continente americano), presso la Hong Kong Shanghai Bank di Hong Kong. Il primo problema che dovetti affrontare fu: come si fa a chiedere una rogatoria a Hong Kong? La Gran Bretagna, che ha firmato la convenzione europea di assistenza giudiziaria, ha escluso i suoi possedimenti d’oltremare. Riuscii tuttavia a trovare un trattato fra il Regno Unito e il Regno d’Italia del 1870 sulla «consegna dei malfattori» – s’intitolava proprio così – dove c’è un codicillo che recita: «le Corti si presteranno assistenza».
A questo punto mi dissi che proprio grazie a questo passaggio avrei potuto costruire un grattacielo e allora presentai la mia rogatoria citando quel trattato, ma la prima risposta che arrivò dal governo di Hong Kong fu che la Hong Kong Shanghai Bank non esisteva (faccio notare che è uno dei colossi bancari mondiali). Allora chiamai il consolato italiano e chiesi se potevano cercare l’indirizzo di questa banca sull’elenco del telefono. Mi risposero che c’erano ben due pagine dedicate a questa banca. Chiesi cortesemente di farne una fotocopia e di spedirmela via fax. Scrissi di nuovo alle autorità di Hong Kong chiedendo come avessero potuto dichiarare che la Hong Kong Shanghai Bank non esisteva, posto che sull’elenco telefonico occupava ben due pagine. La risposta fu che non avevano capito bene la mia richiesta, ma precisarono che non potevano darci assistenza perché, secondo la loro legge, per sequestrare una cosa bisognava che fosse realmente esistente e non solo immaginata, e se noi volevamo gli estratti conto dovevamo dimostrarne l’esistenza.
Così mi rivolsi all’Abi, chiedend...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Perché le indagini di Tangentopoli ebbero tanto successo
  3. II. Perché fu abbattuto un sistema politico
  4. III. La restaurazione
  5. IV. Seriale e diffusiva: come funziona la corruzione
  6. V. Quando le imprese si spartiscono gli appalti
  7. VI. Perché la lotta alla corruzione è stata inadeguata
  8. VII. La cultura della corruzione
  9. VIII. Che fare?