Dante
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Dante

Una vita in esilio

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Dante

Una vita in esilio

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Un'appassionata narrazione.Paolo Di Paolo, "la Repubblica"

«L'esilio di Dante ci è stato presentato come conseguenza di normali dinamiche di alternanza politica: ora vincevano i guelfi e andavano in esilio i ghibellini, ora vincevano i ghibellini e andavano in esilio i guelfi. Una volta capitava ai guelfi neri, una volta capitava ai guelfi bianchi... Ma tutto questo valeva prima del 5 novembre del 1301. Quel giorno a Firenze ci fu un colpo di Stato e, a seguire, l'epurazione dell'intera classe politica allora al governo.»

A partire dal racconto tragico dell'esperienza dell'esilio, riprendono vita le vicende biografiche e poetiche di uno dei più grandi autori della letteratura mondiale.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858141793

I.
Il naufragio

«Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca»
[Il tuo esilio si vuole e si cerca e presto ti verrà imposto
da chi lo sta preparando nella città in cui Cristo
per tutto il giorno si vende]
(Paradiso, XVII, 49-51)

1. L’antefatto: Calendimaggio 1300

Il 4 novembre dell’anno 1301 Dante è a Roma, incaricato dal Comune fiorentino di un’ambasceria presso il papa. È una trappola, ma lui ancora non lo sa. Qualcosa sembra, però, preavvertirlo dell’immane catastrofe. È l’aria immobile della città, spezzata solo da qualche refolo di scirocco. A un uomo come lui, abituato all’aria fina dell’Appennino, il clima di Roma deve apparire insopportabile; quell’aria appiccicosa che ti si condensa addosso, compatta, ostile come una barriera, come un ostacolo insormontabile. È un’aria infernale, da Malebolge, che rarefà la speranza. Dante però non vuole arrendersi a quell’atmosfera paludosa e stagnante che regna sovrana nella città imperiale, una città che ride dell’impegno civile, che giudica ingenuo e provinciale chi come lui se ne faccia sacerdote.
È a Roma già da un mese, c’è arrivato insieme ad altri due delegati fiorentini, Ruggierino Minerbetti e Corazza da Signa, che però il papa ha congedato, trattenendo lui soltanto in città. Come se con lui avesse ancora da fare, come se con lui avesse ancora intenzione di ragionare, di vagliare, di cercare strade e soluzioni per risolvere la crisi fiorentina: quella che oppone due famiglie, due partiti, ormai due clan, i Cerchi e i Donati. Ci vuole – a detta del papa – un arbitro esterno, un uomo super partes che possa fare da paciere e che butti acqua sul fuoco sull’ultimo grande incendio divampato in città a seguito dei fatti di Calendimaggio di un anno prima.
Che cosa abbia esattamente acceso la rissa in quella notte di Calendimaggio del 1300 è difficile dirlo. O meglio è difficile ricostruirlo sulla base dei pochi dati certi a nostra disposizione. Però i contorni ci sono fin troppo chiari: un’aggressione compiuta ai danni di un giovanissimo rampollo della casa dei Cerchi da parte del clan rivale, in un clima sempre più arroventato dall’invidia e dal risentimento.
La notte bianca di Calendimaggio è da alcuni decenni, nei rinati Comuni dell’Italia bassomedievale, una notte di euforia e di eccitazione. Una notte in cui i giovani imitano i padri, li imitano nei gesti di amicizia come in quelli d’inimicizia, fanno le prove generali per quando saranno loro a comandare. È una notte, soprattutto, in cui i figliocci giocano a fare i padrini: fanno loro il verso, ne assumono la posa, ma la loro iniziativa manca di strategia, di prospettiva, e per questo risulta ancora più efferata, frutto solo d’istintiva bestialità. Dei loro cattivi maestri, infatti, essi hanno acquisito solo l’arroganza, senza averne assimilato il cinismo e la freddezza. Le donne pure a Calendimaggio – fatto eccezionale – sono in giro per le strade della città: i maschi allora entrano in scena, ancora più eccitati. I giovani neri iniziano la caccia, si mettono in cerca dei bianchi perché non c’è notte brava senza una rissa che si ricordi.
I neri hanno il complesso dei bianchi. I bianchi parlano, i bianchi pensano, i bianchi pianificano, perché i bianchi sono una classe sociale in ascesa: commercianti, affaristi, grandi imprenditori, persone abituate a mediare, a cercare il compromesso, a non chiedersi mai a quale fede religiosa o politica appartenga il loro cliente. Il danaro è da sempre un apolide, viaggia oltre i confini nazionali, disegna identità ibride, aggancia alleanze trasversali.
I bianchi si muovono benissimo nel nuovo mondo disegnato dal fiorino internazionale, e come tutti quelli a cui le cose vanno bene vogliono solo starsene in pace. I neri, invece, si sentono franare il terreno sotto ai piedi perché il mondo da cui provengono – quello delle armi, delle guerre, dell’omaggio feudale – sta tramontando. Come tutti quelli che annaspano, si aggrappano scompostamente alle loro certezze: rinfacciano rabbiosi ai bianchi di essere loro quelli che gli permettono di dormire sonni tranquilli, quelli che hanno depositi di armi e di cavalli da competere con uno Stato nazionale; loro quelli decisivi sul campo di battaglia, loro quelli che hanno fatto vincere Firenze a Campaldino.
I bianchi pure sono stati a Campaldino; anche Vieri de’ Cerchi, il loro capo, ha combattuto in quella battaglia ma, se potesse, le battaglie le combatterebbe solo attraverso la finanza; come se per punire i nemici bastasse escluderli da una cordata produttiva, e per premiarli, invece, fosse sufficiente inserirli in un circuito d’affari redditizio. Come se la politica si potesse fare col danaro, tirando dentro gli amici e tenendo fuori i nemici.
Una guerra così, come quella che vorrebbero combattere i bianchi, è una guerra senza sangue. Come se il sangue e le armi fossero termini obsoleti, parole vecchie, credenze al limite del superstizioso. Per i bianchi conta solo il vantaggio, il guadagno, la concordia tra le parti, che favorisce lo scambio, che allarga il mercato, che conquista nuove piazze.
Bianchi, neri, papali, antipapali, alla fine per loro va bene tutto. La politica in sé non ha alcuna importanza, ciò che conta è garantire a Firenze di continuare a fare ciò che le riesce bene: la finanza, i traffici, i consumi elevati di una città che cresce, cresce, cresce a dismisura: centomila abitanti contro i trentamila di Roma, Napoli, Parigi e Praga, contro i sessantamila di Milano.
Ma se i bianchi credono di poter fare a meno della contrapposizione tra le parti, i neri, al contrario, gliela portano in casa la guerra, sono disposti a inventarsela, perché la loro forza, il loro valore, il loro essere necessari si misura solo attraverso la guerra. Gli aristocratici sono stati per secoli il nerbo stesso di Firenze, la sua anima, i suoi difensori in armi. Restare ai vertici della società è stato a lungo per loro un diritto inalienabile e trasmissibile, garantito dal sangue, dalla terra, dalle armi, dagli stemmi comitali. In questo nuovo mondo, invece, quello che le consorterie dei bianchi dimostrano di apprezzare, essi sono condannati a divenire famiglie come le altre, gettate nella grande corsa della produzione, in cui tutto è aleatorio e mutevole. Un mondo in cui i neri si sentono spaesati, sentono di non contare, di non essere decisivi. E peggio, si vedono surclassati da gente che ai loro occhi è niente: gente nuova, senza storia, senza tradizioni, senza valori; bifolchi provenienti dalla campagna, come i Cerchi della Val di Sieve.
I Cerchi. Si sono inurbati da poco e in luogo di camminare a testa bassa, come si converrebbe a dei rustici, a dei nuovi venuti, a degli arricchiti, hanno spocchia e manie di grandezza: comprano palazzi sempre più grandi e vistosi al centro della città, palazzi che si ergono fieri vicini a quelli dei Donati di antica nobiltà.
I Cerchi, dunque, ostentano. Non si fanno nessuno scrupolo a rilevare, nel cuore della città, il magnifico palazzo dei conti Guidi, gente la cui presenza non è più gradita in città per motivi politici. A livello simbolico comprare il palazzo di un signore è una mossa vincente: insieme al palazzo compri la sua aura. Al tempo stesso, però, ti presenti agli occhi di chi guarda con invidia all’astro nascente della tua ricchezza come uno che erediti la fortuna altrui, come uno che arrivi quando gli altri cadono in disgrazia, come un avvoltoio che plani a finire un corpo già cadavere.
Al crescere dell’invidia dei neri, inoltre, i bianchi pensano di poter rispondere isolandoli, facendo loro il vuoto intorno, comprandone la manovalanza, togliendo loro servitù; in politica, però, non si deve mai umiliare troppo l’avversario, mai ostentare superiorità, mai lasciare che il tuo nemico se ne stia in un angolo a schiumare rabbia:
La città, retta con poca giustizia, cadde in nuovo pericolo, perché i cittadini si cominciorono a dividere per gara d’ufici, abbominando l’uno l’altro. Intervenne, che una famiglia che si chiamavano i Cerchi (uomini di basso stato, ma buoni mercatanti e gran ricchi, e vestivano bene, e teneano molti famigli e cavalli, e avevano bella apparenza), alcuni di loro comperarono il palagio de’ conti Guidi, che era presso alle case de’ Pazzi e de’ Donati, i quali erono più antichi di sangue, ma non sì ricchi. Onde, veggendo i Cerchi salire in altezza (avendo murato e cresciuto il palagio, e tenendo gran vita), cominciorono avere i Donati grande odio contro loro.
(Dino Compagni, Cronica, I, XX, 1)
Ma non fu solo l’invidia a disfare quella che all’epoca era la più prosperosa città d’Europa. Ci fu anche un errore politico. Da troppi mesi, di dritto o di sguincio, i bianchi, forti della loro prevalenza morale e numerica, forti della simpatia crescente che dimostravano loro le classi borghesi in ascesa, predominavano nel governo inaugurato da Giano della Bella, tenendo i neri fuori dai giochi politici.
I bianchi trattano i neri come gente buona solo a menar le mani, ad impugnare le armi, a moltiplicare le guerre, a soffiare sui conflitti. Peggio, li trattano come un gruppo sociale decaduto e già in via d’estinzione. Se i neri sono divenuti, in questi anni, i favoriti del papa non è per motivi ideologici, ma perché sono un gruppo in difficoltà; la loro incapacità di restare a galla tra i flutti della nuova politica comunale, progressista e democratica, li ha resi bisognosi di appoggi e relazioni esterne, li ha resi docili e servili verso la Curia romana.
I Cerchi si comportano, invece, come se di quell’alleanza – dell’alleanza col vicario di Cristo – non gli importasse nulla, come se non ne avessero alcun bisogno. Quando il papa invita a Roma il loro capo, Vieri de’ Cerchi, lui, spesso, neppure si presenta. E quando si presenta rispedisce al mittente le richieste di aiuto politico e finanziario. Vieri può permettersi il lusso di non partecipare al «nobile» progetto papale di pacificare Firenze, cui la Curia dice di tenere molto. Vieri sa benissimo che il pontefice sta solo cercando ponti, alibi, alleati per un’operazione sporca: allungare le mani sulla città. Vieri, allora, ignora i suoi inviti, fa spallucce alle sue minacce velate, finge di non accorgersi delle sue trame. Ma così facendo, neppure gli si oppone apertamente, neppure tenta una politica che al pontefice sia davvero contraria, neppure lo tratta, come meriterebbe, da nemico.
Se potesse, se avesse speranza di riuscirci, Vieri con lui stringerebbe pure un patto di non aggressione: Roma ai romani e Firenze ai fiorentini. Ma questa politica del laisser faire, del «tutto si aggiusta», si dimostrerà fatale e gli attirerà il disprezzo dei suoi compagni di partito.
Di fronte all’indifferenza dei bianchi, il papa si volge dunque verso i neri, il cui capo, Corso Donati, è fermamente intenzionato a distruggere la famiglia di Vieri de’ Cerchi.
Corso inizia col diffamarli, e la cosa, via via, assume toni sempre più pesanti. A torto siamo convinti che la diffamazione politica, l’attacco personale, la ridicolizzazione dell’avversario – magari fatta in maniera bassa, volgare, insistendo su qualche difetto fisico o tirando fuori dall’armadio di famiglia qualche inevitabile scheletro – sia una cosa che abbia a che vedere con il mondo dei media, di internet, dei blog, dei social, della stampa e della televisione. Non è così.
Nella Firenze del Duecento esiste uno strumento altrettanto micidiale per screditare gli avversari e suonare il tam tam delle notizie false e tendenziose: i gi...

Indice dei contenuti

  1. I. Il naufragio
  2. II. La speranza di tornare: Arezzo 1302-1304
  3. III. Il dialogo: Bologna 1304-1306
  4. IV. Fare parte a sé: Lunigiana 1306-1309
  5. V. Ripulire la fama: il Convivio
  6. VI. Torna amore: Casentino 1309-1316
  7. VII. L’ultima speranza
  8. VIII. Quando tutto è perduto
  9. IX. La corte: Verona 1316-1318
  10. X. Mai più riveder le stelle: Ravenna 1318-1321
  11. Nota bibliografica
  12. Nota dell’autrice