Medioevo simbolico
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Medioevo simbolico

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Medioevo simbolico

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Un percorso affascinante, colto ma sempre vivace. Un'autentica lezione di metodologia storica."Le Monde"

La mitologia di alberi e boschi, i bestiari delle fiabe, il gioco degli scacchi, la storia e l'archeologia dei colori, l'origine degli stemmi e delle bandiere, la leggenda di re Artù e quella di Ivanhoe.Un grande storico dei simboli alle prese con l'affascinante complessità di segni e sogni del nostro Medioevo. Un viaggio intrigante lungo il labile confine dove reale e immaginario si fondono e creano la storia delle idee, una passeggiata incantata lungo i sentieri della cultura e dei simboli.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858136713

Nascita di un mondo in bianco e nero.
La Chiesa e il colore
dalle origini alla Riforma

Un abito rosso è ancora rosso quando nessuno lo guarda? A questa complessa questione, la prima e la più importante di quelle che riguardano il colore, nessun teologo o uomo di scienza sembra aver riflettuto prima del XVIII secolo. Nel Medioevo, la domanda sarebbe del resto anacronistica: il colore non si definisce come un fenomeno percettivo, ma come una sostanza, vale a dire sia come un vero involucro materiale che riveste i corpi, sia come una frazione della luce. È solo a partire dagli anni intorno al 1780 che alcuni filosofi hanno iniziato a definire il colore come una sensazione, la sensazione di un elemento colorato da una luce che lo illumina, ricevuta dall’occhio e trasmessa al cervello; ed è solo in epoca contemporanea che questa definizione ha finito per avere il sopravvento su tutte le altre.
Per gli autori del Medioevo, quasi tutti uomini di Chiesa, il colore non rappresenta dunque un problema della sensibilità, ma un problema teologico. Numerosi, nei primi secoli del cristianesimo, i Padri che ne parlano e, dietro di loro, la maggior parte dei teologi medievali1. Ben prima di pittori, tintori ed araldi d’armi, sono loro i primi «specialisti» del colore. Sotto la loro penna, il colore ritorna di frequente, sia in forma di metafora, sia in forma di attributo, sia soprattutto perché esso pone un problema di fondo, legato alla fisica e alla metafisica della luce, e dunque alla relazione che l’uomo di quaggiù intrattiene con il divino.
Per la teologia medievale, infatti, la luce è la sola parte del mondo sensibile che sia insieme visibile ed immateriale. Essa è visibilità dell’ineffabile e, come tale, emanazione di Dio. Da qui la domanda: il colore è anch’esso immateriale, è anch’esso luce, o almeno frazione di luce, come affermano ben prima di Newton (ma, chiaramente, in tutt’altro modo) diversi autori dell’Antichità e dell’alto Medioevo?2 Oppure è materia? Semplice involucro che ricopre gli oggetti? Tutti i problemi speculativi, teologici, etici, sociali e persino economici che si pongono gli uomini del Medioevo riguardo al colore si articolano attorno a questa domanda.
Per la Chiesa, si tratta di un punto importante. Se il colore è una frazione della luce, esso partecipa ontologicamente del divino, perché Dio è luce. Cercare di estendere quaggiù il posto del colore, vuol dire diminuire quello delle tenebre, estendere quello della luce e quindi di Dio. Ricerca del colore e ricerca della luce sono indissociabili. Se invece il colore è una sostanza materiale, un semplice involucro, non è affatto una emanazione della divinità. Al contrario, rappresenta un artificio inutilmente aggiunto dall’uomo alla Creazione: occorre combatterlo, escluderlo dal culto, cacciarlo dal tempio. È insieme inutile, immorale e anche nocivo, perché ostacola il transitus dell’uomo peccatore sul cammino della sua riconciliazione con Dio.
Tali questioni non sono dunque soltanto speculative, e neppure soltanto teologiche. Esse hanno anche una portata concreta, un’influenza sulla cultura materiale e sulla vita quotidiana. Le risposte che ricevono determinano il posto del colore nell’ambiente e il comportamento del cristiano nei luoghi che frequenta, nelle immagini che contempla, negli abiti che porta, negli oggetti che manipola. Esse condizionano, anche e soprattutto, il posto e il ruolo del colore nella chiesa e nelle pratiche di culto.

Luce o materia?

Dalla tarda Antichità sino alla fine del Medioevo, tali risposte sono state varie. Nei loro discorsi e nella loro azione, teologi e prelati sono stati sia favorevoli sia ostili al colore. Lo storico tuttavia manca ancora delle informazioni che gli permetterebbero di redigere un preciso quadro cronologico e geografico del loro atteggiamento. I Padri sono piuttosto ostili ai colori. Notano che la Bibbia ne parla poco3. Vi vedono una quisquilia, un ornamento sterile che sperpera tempo e denaro, e soprattutto una maschera ingannatrice che svia dall’essenziale. In breve, una vanità che nasconde la realtà delle cose4. Alcuni autori ritengono pure che esista un legame tra la parola color ed il verbo celare (nascondere)5: il colore è ciò che nasconde, ciò che dissimula, ciò che inganna. Le speculazioni etimologiche degli antichi incontrano in questo caso l’opinione di alcuni studiosi del XX secolo, i quali pure non esitano ad includere la parola color nella grande famiglia dei termini latini che evocano l’idea di nascondere: celare, clam (di nascosto), clandestinus (clandestino), cilium (palpebra), cella (dispensa, camera), cellula (cella), caligo (nebbia, oscurità), ecc., tutti termini che si articolano attorno ad una stessa radice6.
Nondimeno, non tutti i Padri sono di questo avviso. Parecchi, al contrario, glorificano il colore: esso è luce, non materia; è chiarezza, calore, sole. Alcuni stabiliscono un ponte tra i termini color e calor (calore). Così Isidoro di Siviglia, il quale propone una etimologia ampiamente ripresa e glossata fino al XIII secolo: «I colori (colores) sono così chiamati perché nascono dal calore (calore) del fuoco oppure del sole»7.
In epoca carolingia, è piuttosto questo secondo atteggiamento a prevalere. I dibattiti sul colore sono ormai strettamente legati a quelli sull’immagine (sfortunatamente sono stati molto meno studiati) e, dopo il secondo concilio di Nicea (787), il colore fa un’entrata massiccia nel tempio cristiano8. Malgrado alcune eccezioni, la maggior parte dei prelati costruttori di chiese è cromofila, e questa cromofilia – di cui quella di Sigiero, abate di Saint-Denis, è rimasta la più famosa – impregna profondamente l’epoca carolingia, ottoniana e romanica.
Le prime reazioni ostili risalgono alla fine dell’XI e all’inizio del XII secolo. Esse si ricollegano a quel grande movimento di ritorno ai valori e alle pratiche del cristianesimo primitivo che riguarda in particolare il mondo monastico ma che tocca anche gli ambienti secolari. Ancora una volta, i dibattiti sul lusso, sulle immagini e sui colori sono portati in primo piano sulla scena ecclesiologica, persino sulla pubblica piazza. Va qui richiamato il ruolo di san Bernardo, famoso iconoclasta (la sola immagine che tollera è il crocifisso), ma anche temibile «cromoclasta». Si è detto tutto sull’atteggiamento dell’abate di Chiaravalle (Clairvaux) di fronte alle immagini9. Tutto o quasi, invece, resta da scrivere sulle sue relazioni con il mondo e i problemi del colore. Anche la questione della miniatura e quella della invetriata, le quali non rappresentano se non un aspetto parziale di quanto è in gioco, rimangono poco o male studiate10.
Certo, il caso di san Bernardo non è unico. Negli anni intorno al 1120-1150, altri prelati, altri teologi condividono una parte delle sue idee sulla proscrizione del lusso e sull’ascetismo artistico. Ma il suo caso è probabilmente quello che sottolinea meglio e più profondamente le vere sfide riguardanti il colore, anche se le sue parole si rivolgono soprattutto ai monaci. Si tratta innanzitutto della sua fama, ma anche del lessico che utilizza, dei concetti che articola, della sua straordinaria sensibilità. Per san Bernardo, infatti, il colore è materia prima di essere luce. Il problema non è tanto dunque un problema di colorazione (del resto, Bernardo, quando parla del colore, utilizza raramente termini di colorazione), quanto di densità, di concentrazione, di spessore. Non soltanto il colore è troppo ricco, non soltanto è impuro, non soltanto costituisce un lusso inutile, una vanitas, tutte cose banali nel discorso di un prelato, ma esso ha soprattutto a che vedere con il denso e l’opaco. Particolarmente significativo in questo campo è il vocabolario bernardiano. Il termine color raramente vi è associato alle nozioni di chiarezza o di luminosità; invece è talvolta definito come turbidus, spissus, surdus, tutti termini che rinviano all’idea di disordine, di saturo, di oscuro. «Cecità dei colori!» (Caecitas colorum!) arriva ad affermare11. Straordinaria originalità di Bernardo, che vede nel colore non del brillante ma dell’opaco, non del chiaro ma dello scuro. Il colore non illumina, oscura; estende la parte delle tenebre, è soffocante, diabolico. Il bello, il chiaro, il divino, che rappresentano tutti e tre emergenze dall’opacità, devono dunque distogliersi dal colore, e ancor più, dai colori.
Simili concezioni fanno nascere nello storico un duplice interrogativo, l’uno riguardante l’etica, l’altro la sensibilità. Rispetto al primo, san Bernardo non è molto originale: la maggior parte delle morali medievali del colore sono morali della densità ben prima d’essere morali della colorazione. Riguardo al secondo, al contrario, l’abate di Chiaravalle dimostra una maggiore singolarità. Vedere il chiaro e il bello nel non saturo, nel decolorato, non è atteggiamento frequente. Esaminato al di fuori di ogni considerazione di natura etica o economica, esso sembra esprimere un’articolazione originale dei diversi parametri che servono a delineare il colore. In linea generale, il bello medievale è proprio da cercare dalla parte del chiaro, non certo dalla parte del decolorato. Due le ipotesi che è possibile avanzare per spiegare questo fatto di sensibilità proprio di Bernardo. Innanzitutto la priorità che egli ha sempre dato al senso dell’udito su quello della vista. Ciò che prevale in lui è il verbo, il canto, il ritmo, il numero, le proporzioni, in una parola la musica nel pieno significato medievale del termine. Armonia di suoni e di ritmi prima che armonia di forme, ed armonia di forme prima che di colori. San Bernardo non punta sulla luce. Certo, in quanto teologo, sa bene che Dio è luce; ma in quanto uomo, essa sembra essergli relativamente indifferente; e, in quanto prelato, va in collera a più riprese contro le pesanti corone di luce e gli enormi candelabri che ornano le chiese (in particolare cluniacensi). Su questo punto, viene seguito dal rigore dei nuovi regolamenti cistercensi del 1130, che limitano l’illuminazione all’interno dei luoghi di culto12.
Tale problema personale dei rapporti con la luce è d’altra parte amplificato da una avversione tenace per la diversitas, ossia, in termini di colore, per la policromia. Ideologia e sensibilità in questo caso si incontrano pienamente. Tanto per spirito di penitenza e povertà che per ben radicato gusto personale, l’abate di Chiaravalle dichiara guerra ai colori, ai colori ancor più che al colore. Se tollera talvolta una certa armonia monocroma, possibilmente costruita sul semplice gioco delle gradazioni, respinge tutto ciò che dipende dalla varietas colorum, come le vetrate multicolori, la miniatura policroma, l’oreficeria e le pietre cangianti. In realtà, san Bernardo non ama ciò che luccica e brilla (da qui la sua avversione anche per l’oro). Per lui – ed è in questo che differisce dalla maggior parte degli uomini del Medioevo – il chiaro non è il brillante. Da qui, in rapporto ai suoi contemporanei, un modo personalissimo di comprendere le diverse proprietà del colore. Da qui pure la sua concezione scialba e spenta del colore, e l’assimilazione inconsueta (moderna per certi aspetti) del chiaro al non saturo, addirittura al trasparente13.

La chiesa medievale, tempio del colore

Opporre san Bernardo a Sigiero, due contemporanei, per la storiografia è diventato un luogo comune. In effetti, i due prelati hanno del tempio cristiano e del culto divino conce...

Indice dei contenuti

  1. Il simbolo medievale. In che modo l’immaginario fa parte della realtà
  2. L’animale
  3. I processi ad animali. Una giustizia esemplare?
  4. L’incoronazione del leone. In che modo il bestiario medievale si è dato un re
  5. Cacciare il cinghiale. Dalla selvaggina regale alla bestia impura: storia di una svalutazione
  6. Il vegetale
  7. Le virtù del legno. Per una storia simbolica dei materiali
  8. Un fiore per il re. Per una storia medievale del giglio di Francia
  9. Il colore
  10. Vedere i colori del Medioevo. È possibile una storia dei colori?
  11. Nascita di un mondo in bianco e nero. La Chiesa e il colore dalle origini alla Riforma
  12. I tintori medievali. Storia sociale di un mestiere riprovato
  13. L’uomo rosso. Iconografia medievale di Giuda
  14. L’emblema
  15. La nascita delle arme. Dall’identità individuale all’identità familiare
  16. Dalle arme alle bandiere. Genesi medievale degli emblemi nazionali
  17. Il gioco
  18. L’arrivo del gioco degli scacchi in Occidente. Storia di una acculturazione difficile
  19. Giocare al re Artù. Antroponimia letteraria e ideologia cavalleresca
  20. Risonanze
  21. Il bestiario di La Fontaine. L’armerista di un poeta nel XVII secolo
  22. Il sole nero della malinconia. Nerval lettore delle immagini medievali
  23. Il Medioevo di «Ivanhoe». Un best-seller d’epoca romantica
  24. Fonti
  25. Immagini