Lepanto
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La battaglia dei tre imperi

  1. 784 pagine
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La battaglia dei tre imperi

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«Non appena in Occidente si sparse la voce della prossima uscita della flotta turca, papa Pio V decise che quella era l'occasione buona per realizzare un progetto che sognava da tempo: l'unione delle potenze cristiane per affrontare gli infedeli in mare con forze schiaccianti, e mettere fine una volta per tutte alla minaccia che gravava sulla Cristianità. Quando divenne sempre più evidente che la tempesta era destinata a scaricarsi su Cipro, il vecchio inquisitore divenuto pontefice, persecutore accanito di ebrei ed eretici, volle affrettare i tempi.»È la primavera del 1570. Un anno e mezzo dopo, il 7 ottobre 1571, l'Europa cristiana infligge ai turchi una sconfitta catastrofica. Ma la vera vittoria cattolica non si celebra sul campo di battaglia né si misura in terre conquistate. L'importanza di Lepanto è nel suo enorme impatto emotivo quando, in un profluvio di instant books, relazioni, memorie, orazioni, poesie e incisioni, la sua fama travolge ogni angolo d'Europa.Questo libro non è l'ennesima storia di quella giornata. È uno straordinario arazzo dell'anno e mezzo che la precedette. La sua trama è fatta degli umori, gli intrecci diplomatici, le canzoni cantate dagli eserciti, i pregiudizi che alimentavano entrambi i fronti, la tecnologia della guerra, di cosa pensavano i turchi dei cristiani e viceversa. Per tessere i suoi fili ci sono volute la prosa appassionante e la maestria rara di Alessandro Barbero.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858106365
Argomento
Historia

1. Dove il sultano allestisce una flotta, Marcantonio Barbaro cerca di scoprire il perché, l’Arsenale di Venezia rischia di andare a fuoco, e alla fine arrivano cattive notizie

Quando giunse a Costantinopoli nell’ottobre 1568 per assumere l’incarico di bailo della Serenissima, Marcantonio Barbaro sapeva di non avere di fronte un compito facile. Molto tempo prima il bailo era soltanto un console, incaricato di difendere gli interessi dei mercanti veneziani che operavano sulle piazze del Levante: e già quello era un compito gravoso, perché il volume dei traffici era considerevole, ed enormi i capitali investiti. Ma da tempo il bailo era diventato anche un ambasciatore, incaricato di rappresentare il governo veneziano presso i ministri del sultano, di guadagnarne la benevolenza e garantire il mantenimento della pace: giacché una guerra contro l’impero turco era giudicata a Venezia un’eventualità catastrofica. Perciò Marcantonio doveva preoccuparsi di raccogliere informazioni sui preparativi bellici del sultano, e tenerne informata la Signoria. La tempestività delle informazioni era vitale, tenuto conto della lentezza delle comunicazioni: il Barbaro aveva viaggiato oltre un mese e mezzo per raggiungere Costantinopoli, e sapeva che le sue lettere avrebbero impiegato almeno tre o quattro settimane per fare il percorso inverso – e anche di più nella cattiva stagione, per quanto fossero urgenti le notizie che contenevano1.
Ma il bailo era un uomo incline all’ottimismo; e la situazione che trovò nella capitale ottomana non gli sembrò affatto minacciosa. Il sultano Selim, salito al trono due anni prima, aveva rinnovato il trattato di pace stipulato con Venezia da suo padre Solimano il Magnifico2, e il gran visir, Mehmet pascià, si dichiarava buon amico della Serenissima. Tutti gli informatori garantivano al Barbaro che l’impero non era preparato per una guerra navale, l’unica che avrebbe potuto impensierire Venezia. Le flotte da guerra nel Mediterraneo erano costituite da galere a remi, che si potevano fabbricare abbastanza in fretta disponendo di infrastrutture adeguate, ma che erano poi molto costose da tenere in mare, giacché richiedevano ciurme sovrabbondanti, e andavano facilmente a male se tenute troppo a lungo in acqua. Perciò, tanto il governo turco quanto quello veneziano in tempo di pace armavano soltanto il minimo indispensabile di galere, quanto bastava per la guardia delle rotte commerciali contro i pirati; e conservavano gli altri scafi in secca, privi d’equipaggio e di tutta l’attrezzatura. Qualunque impresa bellica di ampio respiro comportava il riarmo d’un gran numero di galere e il reclutamento dei relativi equipaggi: tutti preparativi che richiedevano parecchi mesi e non potevano passare inosservati.
Perciò il Barbaro si teneva informato su quello che accadeva nell’Arsenale, il poderoso impianto sul Corno d’oro in cui il sultano conservava le sue galere. Più volte ingrandito nel corso degli anni, l’Arsenale consisteva a quell’epoca di centotrentatré capannoni di legno e pietra, allineati per un miglio lungo il mare; ognuno aveva spazio sufficiente per ospitare lo scafo di una galera tirata in secca, ed era chiuso verso terra da un magazzino col tetto di tegole, per conservare vele, remi e gomene. La manodopera fissa non era numerosa: una cinquantina di capimastri, fra cui non pochi emigrati o banditi dai domini veneziani, e un centinaio di aiutanti forniti dal corpo dei giannizzeri, cui si aggiungevano per i lavori di fatica gli schiavi del sultano, del kapudan pascià, comandante della flotta imperiale, e di altri ricchi privati, alloggiati nelle torri adiacenti all’Arsenale. Ma in caso di bisogno, reclutando falegnami e calafati greci da Costantinopoli e dall’Egeo e obbligando le comunità turche dell’Anatolia a fornire gratuitamente squadre di manovali, si poteva arrivare in fretta a più di duemila operai. Insieme all’Arsenale di Venezia, era il maggiore impianto industriale d’Europa, benché i veneziani ne parlassero con sufficienza: un predecessore del Barbaro assicurava che era chiuso verso terra «con assai debile et vergognose mure tutte di terra et tutte ruinose», che i capannoni erano mal concepiti e peggio costruiti, e che non c’era abbastanza spazio per tenere a secco tutte le galere, sicché i turchi, nella loro trascuratezza, le lasciavano marcire in acqua. Eppure l’attenzione spasmodica con cui gli ambasciatori veneziani tenevano d’occhio l’Arsenale testimonia un sano rispetto per il potenziale bellico dell’impianto, e della flotta da guerra che vi era custodita3.
Per fortuna la struttura dell’Arsenale, «il qual beve nel mare» anziché essere murato da tutti i lati come quello veneziano, permetteva al bailo di non perdersi nulla di ciò che vi accadeva. Come scrisse qualche anno dopo un successore del Barbaro, «lui medemo ogni giorno può andare in persona, o mandar il suo segretario, a veder galera per galera tutto quello che s’opera in esso Arsenale, essendo libero et aperto ad ogni persona dalla parte di mare»: proprio come se a Venezia si fossero tenute le galere tirate in terra lungo le fondamenta della Giudecca, «che senza alcun rispetto ognuno andando in barca per suo piacere le potria vedere e considerare». Si può scommettere che il Barbaro, o il suo segretario Alvise Buonrizzo, quella gita in barca la facevano spesso; e nei primi tempi del loro soggiorno quello che vedevano li rassicurò pienamente. Come riferì più tardi il Buonrizzo, l’Arsenale «era talmente disfornito di tutte le cose che se il Signor Turco havesse havuto bisogno di armar all’improviso solo cinquanta galee, non lo havrebbe potuto fare»: non c’erano remi, né vele, né sartie, né pece, «né altra cosa necessaria per armarle»4.
Per tutto il primo inverno, dunque, i lunghi rapporti che il bailo mandava al suo governo due o tre volte al mese ebbero un tono rassicurante: si poteva escludere che per l’estate il sultano fosse in grado di far uscire una flotta. Neppure quando, nell’aprile 1569, ebbe per la prima volta notizia di ordini per l’acquisto di gomene e sartiami, parve al Barbaro che fosse il caso d’inquietarsi, poiché non appariva nessun segno di attività fuori del comune: «né in Arsenal si vede diligentia alcuna di lavorar, ma colle sole genti ordinarie vanno così rivedendo et racconciando qualche galea, di quelle che sono mal condittionate». Gli acquisti, spiegò, indicavano soltanto che le autorità si erano accorte che i magazzini dell’Arsenale erano vuoti, e avevano deciso di reintegrare le scorte. Nelle settimane seguenti si moltiplicarono gli indizi di un inconsueto attivismo: il kapudan pascià aveva ordinato di fabbricare nel Mar di Marmara dieci navi per il trasporto di cavalli, e aveva mandato apposta maestranze dalla capitale; a fine maggio si seppe di nuove ordinazioni importanti, di palle d’artiglieria e polvere da sparo, di pece del Mar Nero, e di ben «40mila pezze di fustagni per velle da galea», ma il Barbaro continuava a non preoccuparsi: si trattava ancor sempre di rifornire i magazzini svuotati dalle ultime guerre, mentre nell’Arsenale non si notava nessun movimento5.
Bisogna aspettare l’11 giugno 1569 perché il bailo, di fronte ai rapporti che si accumulano sul suo tavolo, cominci ad assumere un tono meno rilassato. Ho già avvisato le Vostre Signorie, scrive, che i turchi stanno ordinando grandi quantità di polvere, palle, fustagni, sartiami e pece; «hora le dico di più, che dapoi hanno espeditti huomeni pratici à posta in diverse parti, per solecitar le cose presenti, et per provederne anco delle altre, come sarebbe remi, ferramenta, secci, et altre cose simili». Ma la notizia più grave era un’altra: «questa settimana passata hanno fatto far una assai diligente revisione di tutte le galee che sono in esso Arsenal, per riconoscer quelle che sono navicabili: nella qual revisione hanno incluse anco quelle che sono buone per far un solo viaggio; il numero di tutte è di 164, delle quali 56 sono vecchie». Delle vecchie, una buona metà erano inutilizzabili; ma dieci erano già in riparazione, «et finito che haveranno di racconciarle, si dice che cominceranno a racconciar le altre in X per volta»6. Più di cento galere in buono stato, oltre a qualche decina di vecchie in via di riparazione, costituivano una flotta di tutto rispetto. Nemmeno l’imperturbabile Barbaro poteva ignorare il significato di questa revisione: se ormai la stagione era già troppo avanzata perché il kapudan pascià uscisse in mare, per il 1570 si preparava certamente qualcosa di grosso.
Il rapporto del bailo provocò una certa sensazione a Venezia. L’impero marittimo della Serenissima, disperso fra l’Adriatico e l’Egeo, era uno degli obiettivi possibili di un’offensiva ottomana, e l’esperienza insegnava che non era facile difenderlo. Ogni volta che Venezia aveva fatto la guerra ai turchi ne aveva perduto qualche pezzo, dalle basi in Peloponneso alle isole come l’Eubea, chiamata allora Negroponte; dai porti della terraferma greca come Lepanto a quelli della costa albanese come Prevesa e Durazzo. Quel che restava del Dominio da Mar era ancora sufficiente a garantire una rete di basi alle galere veneziane in tutto il Mediterraneo orientale, e ricchi latifondi a molte famiglie patrizie: erano le isole della Grecia settentrionale, Corfù, Cefalonia, Zante, che sorvegliavano l’accesso all’Adriatico; qualche prezioso avamposto nell’Egeo come Cerigo, l’antica Citera, e Tinos nelle Cicladi; e le due grandi isole meridionali di Creta e di Cipro, ognuna delle quali aveva lo statuto d’un regno, anche se di fatto erano sfruttate come colonie. Ma tutte queste isole erano vulnerabili a un attacco per mare; e nessuna più di Cipro.
Possedimento veneziano da appena un’ottantina d’anni, Cipro era stata in precedenza un regno crociato, e prima ancora, anche se per breve tempo, un possedimento musulmano. Il dominio cristiano era dunque privo di legittimazione agli occhi dell’Islam, secondo cui una terra che ha conosciuto la vera fede non deve a nessun costo ricadere in mano agli infedeli. Venezia pagava al sultano un tributo annuo di 8000 ducati in cambio della conferma del suo possesso: ma era una cautela a doppio taglio, perché nella concezione ottomana il tributo sanciva la sovranità del sultano sull’isola, ch’egli acconsentiva a lasciare agli infedeli solo finché gli fosse convenuto. Dal punto di vista geografico, Cipro era la propaggine più remota del Dominio: distava da piazza San Marco più di duemila chilometri, e appena una settantina dalla costa turca. In caso di guerra, Venezia avrebbe dovuto sforzare le sue risorse all’estremo per tentare di difenderla, mentre una forza da sbarco salpata dall’Anatolia avrebbe goduto di tutti i possibili vantaggi logistici. Cipro rappresentava insomma l’obiettivo più naturale di una futura mossa ottomana; fin da quando il sultano Selim era ancora principe ereditario si mormorava che nutrisse l’ambizione di conquistarla, e le voci in proposito si erano sgradevolmente infittite dopo la sua salita al trono. I cavalieri di Malta erano così convinti che i giorni della dominazione veneziana a Cipro fossero contati, che nel 1567 avevano deciso segretamente di vendere tutti i loro possedimenti nell’isola7.
Nel luglio 1569, a Venezia si cominciò dunque a stare in allarme; e via via che i rapporti del Barbaro informavano di nuovi preparativi si provvide a metterne al corrente le autorità coloniali a Cipro. Il 19 luglio fu trasmessa la notizia che i turchi avevano spedito 50 casse d’armi, per la maggior parte archibugi, a Tripoli di Siria, porto che si affaccia direttamente sul mare di Cipro; perciò bisognava stare in guardia e immagazzinare rifornimenti nella fortezza di Famagosta, che era il porto principale dell’isola. Il quarantaseienne Marcantonio Bragadin, nominato capitano di Famagosta, s’imbarcò portando con sé 6000 ducati da spendere per consolidare le fortificazioni. Sebbene a Costantinopoli tutti ripetessero che i preparativi servivano soltanto per l’anno venturo, i diffidenti veneziani ragionarono che data la vicinanza di Cipro ai porti turchi un’aggressione sarebbe stata ancora possibile nell’autunno: anzi, «dovendosi far quell’impresa, il Turco, per gli eccessivi caldi che vi sono l’estate, non può fare la guerra in tempo più commodo che l’autunno, nella quale stagione, per essere tanto innanzi, questi signori non hanno commodità di mandare armata fuori», riferiva il nunzio pontificio a Venezia, Facchinetti. In Senato si discusse se trattenere due galere grosse che stavano per partire per Alessandria, cariche di mercanzie, poi le ragioni del guadagno prevalsero su quelle della prudenza, e i mercantili furono fatti partire; ma si stabilì di mandare a Creta 20 galere, e conservarle lì smontate «in un arsenale al quale hanno dato principio, perché siano più vicine ed opportune al soccorso che potesse bisognare a Cipro»8.
Per il momento non si fece altro, anche perché i rapporti del Barbaro erano contraddittori: per un verso segnalavano con viva preoccupazione l’intensificarsi delle voci su Cipro, ma per altro verso insistevano che forse i preparativi erano destinati semplicemente a rimediare le deficienze dell’Arsenale. Dalle stanze della sua residenza nel quartiere di Pera, il bailo sentiva continuamente sparare archibugi; indagando scoprì che se ne fabbricavano a poca distanza, e si sparava per testare quelli finiti. Passò di lì come per caso, valutò il numero degli operai che vi lavoravano, prese nota degli spari che sentiva e concluse «che un giorno per l’altro ne faciano almeno 50». La fabbricazione andava avanti a quel ritmo da molti mesi; ma bisogna pensare, aggiunse subito il Barbaro, che prima l’Arsenale era completamente sfornito di archibugi. In ogni caso, nel governo dell’impero c’erano molti che non avevano nessuna intenzione di fare la guerra, meno che mai contro Venezia: un giorno che si trovava «a visita domestica del magnifico agà de gianizzeri ad un...

Indice dei contenuti

  1. 1. Dove il sultano allestisce una flotta, Marcantonio Barbaro cerca di scoprire il perché, l’Arsenale di Venezia rischia di andare a fuoco, e alla fine arrivano cattive notizie
  2. 2. Dove facciamo conoscenza con un sultanoalcolizzato e con i suoi cinque visir, tutti nati cristiani, con gli abitanti dell’harem e con un finanziere ebreo
  3. 3. Dove il sultano e i suoi ministri discutono se invadere Cipro, Costantinopoli è divorata da un incendio, e il kapudan pascià dà prova di zelo
  4. 4. Dove le galere sono riparate e ridipinte, si arruolano schiavi e vagabondi, i cadì ricevono l’ordine di fornire coscritti, e la flotta imperiale, con gran fatica, si prepara a prendere il mare
  5. 5. Dove Mehmet pascià getta la maschera, si sequestrano navi e si arrestano mercanti, il ciaus Kubad va a Venezia ed è accolto molto male, e si piangono i primi morti
  6. 6. Dove i veneziani decidono di armare la flotta, all’Arsenale si lavora giorno e notte, si recluta gente in mezza Italia, e si nomina generale un uomo fortunato
  7. 7. Dove il sultano è incerto sul piano da adottare, Pialì pascià esce in mare con la flotta, i veneziani si preoccupano per Corfù, e la fortuna abbandona Girolamo Zane
  8. 8. Dove papa Pio V sogna un’alleanza, un uomotroppo ottimista va a sondare Filippo II,si discutono pregi e difetti della flottaspagnola, Gian Andrea Doria riceve un ordineambiguo, e a Roma ci si culla nelle illusioni
  9. 9. Dove il ritorno di Kubad distrugge le speranze del Barbaro, i mercanti veneziani ottengono la protezione del sultano, Pialì attacca Tinos e viene maltrattato, poi si prepara allo sbarco
  10. 10. Dove i veneziani continuano a illudersi, lo Zane va a Corfù con le navi cariche di malati, gli albanesi e i greci insorgono contro i turchi, faccendieri e truffatori si danno da fare, qualche forte turco viene preso, e qualcun altro no
  11. 11. Dove Pio V si spazientisce, Filippo II ordina finalmente alle sue galere di far vela verso Levante, il papa scopre com’è difficile armare una flotta, e Uluç Alì strapazza i cavalieri di Malta
  12. 12. Dove i turchi sbarcano a Cipro, i comandanti veneziani commettono i primi errori, si scopre che le orde invincibili del sultano esistono solo nella fantasia degli occidentali, e tutti si preparano per una lunga guerra d’assedio
  13. 13. Dove la flotta veneziana sparge il panico nell’Egeo, a Venezia si scopre che le cose vanno molto peggio di quel che si pensava, e Gian Andrea Doria si unisce agli alleati senza averne voglia
  14. 14. Dove Lala Mustafà assedia Nicosia e la prende prima del previsto, i contadini ciprioti passano dalla parte degli invasori e Cipro diventa una provincia dell’impero ottomano, benché Famagosta non sia ancora presa
  15. 15. Dove la flotta cristiana si spinge fin quasi a Cipro, poi apprende la notizia della caduta di Nicosia e ritorna ignominiosamente indietro, mentre in patria comincia la caccia ai colpevoli
  16. 16. Dove Mustafà rinuncia ad assediare Famagosta, Pialì insegue il nemico in ritirata, il maltempo continua a perseguitare le squadre cristiane, e a Costantinopoli si accarezzano grandi progetti per l’anno che viene
  17. 17. Dove Marco Quirini porta rinforzi a Famagosta e si copre di gloria, i veneziani riarmano con gran convinzione e poi si perdono d’animo, e l’inchiesta sulla gestione della flotta rivela verità scandalose
  18. 18. Dove un frate maneggione fa una brutta fine, i negoziati per la Lega continuano a incagliarsi, Iacopo Ragazzoni va a Costantinopoli a trattare segretamente la pace, ma quando c’è quasi riuscito riceve l’ordine di sospendere tutto, perché alla fine la Lega è firmata
  19. 19. Dove la flotta turca si riarma ed esce in mare, Sebastiano Venier si dà molto da fare e raccoglie poco, le cose in Albania vanno di male in peggio, e Uluç Alì arriva in Levante
  20. 20. Dove gli spagnoli inventariano le loro galere, a Napoli e a Genova si bandiscono appalti e si ammassano rifornimenti, un ambasciatore impazzisce per lo stress, si recluta la fanteria che combatterà a Lepanto, e il granduca di Toscana manifesta strani timori
  21. 21. Dove il Venier esita sulla strategia da seguire, la flotta turca attacca Creta e fa un buco nell’acqua, i cretesi provano a ribellarsi e non ci riescono, i turchi risalgono verso lo Ionio e la flotta veneziana sfugge da Corfù appena in tempo
  22. 22. Dove il kapudan pascià riceve l’ordine di attaccare la flotta cristiana,ma poiché questa non si fa vederespadroneggia nell’Adriatico; sicché a Venezia si fortifica il Lido e si attende il peggio
  23. 23. Dove la squadra del Colonna perde tempo a Napoli e provoca incidenti prima di proseguire per Messina; la squadra del Venier arriva in Sicilia a corto di uomini, e incappa in altre disavventure; e tutti si lamentano per il ritardo di don Juan de Austria
  24. 24. Dove i turchi assediano Famagosta e si dimostrano più capaci del previsto, la città capitola dopo aver resistito fino all’ultimo barile di polvere, e l’incontro fra due uomini collerici produce conseguenze disastrose
  25. 25. Dove don Juan arriva a Messina, la squadra di Candia si fa aspettare ma alla fine arriva anch’essa, Gian Andrea Doria viene all’appuntamentopensando ad altro, e si raduna una flotta che secondo l’opinione di tutti è molto più forte di quella turca
  26. 26. Dove la flotta turca, per non rimanere in trappola nell’Adriatico, fa vela verso sud, mentre da Costantinopoliarrivano ordini già superati dagli eventi,e i cristiani sono pronti a uscire da Messina per andare in cerca del nemico, anche se molti pensano che sarebbe meglio non trovarlo
  27. 27. Dove don Juan impara a gestire un consiglio di guerra, la flotta cristiana salpa da Messina e raggiunge Corfù, il clero greco entra in agitazione, il corsaro Karagia Alì compie una ricognizione spericolata, e sulla flotta turca tutti pensano al ritorno a casa
  28. 28. Dove il Venier impicca un capitano spagnolo, don Juan sta per fare impiccare lui, poi ci ripensa; faticosamente si riesce a fare la pace fra i cristiani, e la flotta fa vela per Lepanto, anche se ormai nessuno crede più che il nemico uscirà dal porto
  29. 29. Dove sulle due flotte s’innalzano gli stendardi, si prega, si suona e si balla; i cristiani sferrano i galeotti, e chi può cerca di manovrare per portarsi in posizione favorevole. Poi l’artiglieria apre il fuoco, e si vede subito che i cristiani ne hanno molta di più
  30. 30. Dove l’archibugeria cristiana arresta l’impeto dei nemici, la fanteria va all’arrembaggio, la flotta del sultano è sbaragliata e il kapudan pascià ucciso, mentre Uluç Alì se la cava ancora una volta
  31. 31. Dove si riflette sulle cause di una vittoria così schiacciante, e si conclude che i cristiani godevano di una tale superiorità che non potevano non vincere
  32. 32. Dove i cristiani realizzano l’ampiezza della vittoria, ma anche la gravità delle perdite, e tornano a casalitigando per la spartizione del bottino. Intanto i feriti muoiono come mosche, e ai turchi prigionieri toccano sorti diverse: chi è liberato dietro riscatto, e chi finisce al rogo
  33. Epilogo
  34. Carte
  35. Appendice
  36. Bibliografia
  37. Ringraziamenti