Il tempo delle mani pulite
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Il tempo delle mani pulite

1992-1994

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
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Il tempo delle mani pulite

1992-1994

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Mani pulite non è stata soltanto un'inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia. È stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l'illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l'illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia. A costruire questa mitologia furono la carta stampata e le televisioni. E questa è la loro storia.

Trent'anni fa un giovane giornalista del "Corriere della Sera" viene assegnato alla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano. Siamo nel 1992 e la grande Storia ha deciso di mettersi improvvisamente in movimento e di farlo proprio a partire da qui. Nasce Mani pulite e a raccontarla è una banda di giornalisti ragazzini, i 'mozzi' delle diverse redazioni lasciati a seguire quelle che in un primo momento erano apparse come indagini senza futuro. Come un romanzo di formazione, li vediamo confrontarsi con i protagonisti di quei giorni, alle prese con la ruvida genialità di Di Pietro e le enigmatiche strategie di Borrelli, gli iperbolici paradossi di Davigo e l'amara saggezza di Colombo. Attorno, imprenditori e politici, avvocati e spioni, faccendieri e boiardi compongono una polifonia che non fa sconti su errori e orrori, dagli eccessi negli arresti alla catena di suicidi. Un'Italia dove si staglia la figura drammatica di Craxi e già emerge quella affabulatrice di Berlusconi; l'Italia scossa dagli attentati a Falcone e Borsellino e dalle stragi del '93; quella della gogna per la Prima Repubblica in diretta tv al processo Cusani. È un racconto che abbraccia la vita di redazione di un grande giornale e le avventure sulle tracce dei latitanti di Santo Domingo. Trent'anni dopo, sarà solo la delusione di un gioco a somma zero.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858147153
Argomento
Economics

1.
Maggio 1991, prove tecniche di rivoluzione

“La giudiziaria è finita”, dicevano i marpioni della giudiziaria.
Intimidito dai marmi razionalisti del palazzo di giustizia di Milano, a lungo non ho avuto motivo di dubitarne, supponendo insomma di avere preso una fregatura: ero arrivato tardi a cambiare il mondo per via giornalistica.
Non a torto, i vecchi guardavano gli ultimi arrivati con compatimento.
I più vecchi s’erano fatti piazza Fontana e le trame nere. Adriano Solazzo, decano di noi del Corriere, e Annibale Carenzo dell’agenzia Ansa, responsabile della nostra sala stampa, si davano del tu con giudici istruttori che avevano indagato sull’omicidio Ambrosoli o avevano smascherato dopo anni gli assassini di Sergio Ramelli. I più smagati, benché non ancora vecchi, avevano guardato negli occhi Vallanzasca, il Bel René della Comasina, o conoscevano ogni imbroglio dell’Ambrosiano di Calvi e della P2 di Gelli, che io avevo studiato sulle carte come uno scolaretto, per prepararmi: ogni volta che vedevo l’inchiestista dell’Espresso, Leo Sisti, aggirarsi con la sua borsa rigonfia di verità esclusive misuravo però la distanza tra teoria e pratica.
Nei primi tempi ho avuto un incubo ricorrente: che i colleghi mi portassero con loro in uno dei cento corridoi dalle mille porte del palazzo a “prendere una notizia” da qualche magistrato e poi mi mollassero lì, così che io, perdendomi nel labirinto, non tornassi in tempo in via Solferino e il Corriere bucasse la notizia per colpa mia.
Ancora si parla coi magistrati, naturalmente. “Ma è diverso”, dicono i vecchi. Il nuovo codice di procedura penale del 1989 ha cambiato ogni cosa, cancellato il giudice istruttore, fatto di polizia e carabinieri orecchie e mani del pubblico ministero: è tutto più diretto e più selvaggio, le fonti sono molte e possono stare anche fuori dal palazzo di giustizia; le carovane di cronisti paludati, uno per testata, che bussano compunti dal giudice per “prendere una notizia” – un tempo la chiusura dell’istruttoria – hanno sempre meno senso, così come le notizie stesse che, dopo la sbornia del terrorismo e il maxiprocesso di Palermo, paiono pallide e interessano sempre meno. La giudiziaria è finita, è chiaro.
Solazzo, certo, fa eccezione a suo modo. Lui non va in carovana e stacca quando noi cominciamo. Arriva alle otto di mattina, schiude discreto la porta di cancellieri e segretari dei quali ha conquistato fiducia e benevolenza bevendo con loro per anni centinaia di cappuccini nel triste bar di via Freguglia che odora di mensa aziendale, rastrella tre o quattro notizie fresche per il giornale (non le “prende”: le spazza via) e se ne va un paio d’ore dopo, quando ci presentiamo noi, cronisti normali, chiamandoci fioeu, figlioletti. “Ciao fioeu”, dice sorridendo, e tutti capiscono.
Le notizie sono per lo più rinvii a giudizio e condanne, qualche manager che ha fatto bancarotta, qualche marito che ha accoppato la moglie, storie comunque definite: a nessuno verrebbe in mente di poter dare in pasto ai lettori un’iscrizione nel registro degli indagati o un avviso di garanzia (la vecchia informazione di garanzia di questi tempi moderni). Consuetudine della sala stampa vuole che Solazzo dia i buchi agli altri giornali (dicesi “buco” la notizia che solo una testata ha, con scorno per le altre) e che i colleghi degli altri giornali si vendichino coalizzandosi contro i rimanenti cronisti del Corriere (Michele Brambilla e me, che sono il suo secondo).
Ma Solazzo sta andando in pensione, un po’ sta mollando.
E mi ripete, da vecchio zio: “Rilassati, fioeu, è finita”.
Per almeno un anno va avanti così.
Perciò, questo 31 maggio 1991, l’inizio del processo è una mezza rivincita. Mezza: perché alla sbarra ci sono solo i mafiosi (presunti: devo imparare a usare questa parola). E tuttavia rivincita, sì: perché l’inchiesta ha fatto ballare i politici della città, li ha spaventati, forse per la prima volta. Sul banco degli imputati della Duomo Connection c’è un ragazzone siculo-milanese, rampollo ripulito dei clan Ciulla e Fidanzati. Si chiama Tonino Carollo, flaccido e un po’ sfigato, sembra un grosso nerd di periferia. Però appare tutt’altro nelle intercettazioni (quelle nuove, le ambientali, ché se no i mafiosi non li freghi, non telefonano più neanche per prenotare il ristorante): in quelle chiacchierate captate dalle microspie dei carabinieri si direbbe un piccolo capo dei capi, dà ordini secchi a killer e spacciatori coi capelli bianchi. La dinastia conta anche tra i malacarne e Tonino, “il geometra Carollo”, è il miglior prodotto della seconda generazione di mafiosi trapiantati a Milano con i soggiorni obbligati degli anni Sessanta.
Sembrerebbe una storia di narcotraffico, la sua.
Ma la Duomo Connection è molto altro, tira dentro i colletti bianchi: per questo noi cronisti l’abbiamo chiamata così, scimmiottando senza gran fantasia la più famosa Pizza Connection della mafia italo-americana. E, di colletto bianco in colletto bianco, si sale parecchio.
In via Moscova, al comando dei carabinieri, lavora un tenentino toscano della mia età, con una faccia da bambino che lo fa sembrare ancora più giovane. Presto diventiamo amici. Si chiama Sergio De Caprio, sembra un po’ esaltato ma in totale buonafede, parla di “poeti guerrieri” e di San Francesco, vive l’Arma come una missione per conto di un popolo che intende soprattutto come poveri, oppressi e ultimi da difendere. Forse per questo i suoi lo chiamano “Ultimo”. Anche i suoi sono ultimi, del resto. Sergio raccoglie attorno a sé i mattocchi e i diseredati delle altre sezioni, marescialli e brigadieri che nessuno vuole dattorno, classici rompicoglioni. Con questi avanzi di divisa mette in piedi la Crimor, specializzata nella caccia a picciotti e boss. I ragazzi della Crimor usano nomi di battaglia come Vichingo o Aspide, Mandingo o Lince, gli sono fedeli come a un capotribù e, senza un fiato di protesta, si mimetizzano per settimane, senza turni né orari, vivendo come i sospetti che devono pedinare. Dapprincipio gli alti ranghi li snobbano. Loro, però, non se ne curano per nulla. Si trattengono dal facile risultato di arrestare subito gli spacciatori agli ordini dei mafiosi (anche l’arresto ritardato è frutto delle nuove procedure) e, pedinamento dopo pedinamento, microspia dopo microspia, risalgono la china dei progetti di Carollo, che dal suo cantiere di Liscate sogna una grande lottizzazione a sud di Milano, nella zona ancora verde di Ronchetto sul Naviglio, poco lontano dai terreni di Salvatore Ligresti, un siciliano ben più famoso di lui, che ha fatto storia e scandalo del mattone negli anni Ottanta.
Soprattutto, il geometra figlio di boss mostra di considerare affar suo gli affari di due imprenditori dall’aria rispettabile, in realtà due teste di legno. Quando proclama di avere trovato a Palazzo Marino, sede del Comune, la via giusta per farsi approvare la colata di cemento al Ronchetto, le microspie captano e i carabinieri drizzano le orecchie. “Ho un contatto con Pillitteri, che ci sentiamo tutti i giorni... con Pillitteri, il sindaco di Milano”. “Ho dato duecento milioni a Schemmari... Schemmari ha preso duecento milioni da me personalmente, per un progetto fermo da due anni”. “Ho chiesto protezione politica e l’ho trovata”. Parole in libertà? Vanterie di un giovane costruttore che vuole dare di sé un’immagine vincente? Forse. “Millantavo”, dirà lui in manette. Spinta da quei due nomi, appena sussurrati nelle redazioni, l’inchiesta fa però un salto mediatico enorme. Paolo Pillitteri è il sindaco di Milano ma, soprattutto, è il cognato di Bettino Craxi, ancora potentissimo nell’Italia del Caf (acronimo del suo patto con i dc Andreotti e Forlani). Attilio Schemmari è l’assessore all’Urbanistica della giunta Pillitteri, punta a fare il sindaco, ha una robusta storia di sinistra che lo rende benvoluto anche tra i giornalisti progressisti. Insieme sono la faccia ancora vincente del Partito socialista, che proprio nella cosiddetta capitale morale ha la sua roccaforte. Sulla moralità dei socialisti girano barzellette da anni, Beppe Grillo s’è beccato l’ostracismo Rai per averle raccontate in tv. Così come girano aneddoti infiniti sulle inchieste insabbiate, le protezioni inattaccabili.
Pochi anni prima, nel 1985, hanno incarcerato Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e, soprattutto, papà politico di Craxi a Milano, considerandolo l’imbuto delle tangenti cittadine per i partiti di maggioranza e opposizione. Craxi in persona s’è mosso, da presidente del Consiglio, per fargli coraggio con una calorosa visitina in cella a San Vittore. Poi l’ha fatto eleggere al Senato. Quando la Procura ha chiesto l’autorizzazione a procedere, i senatori l’hanno negata tra applausi convinti da destra, centro e sinistra dell’emiciclo. Francesco Greco, uno dei sostituti procuratori più competenti in materia economica, si vede affondare davanti agli occhi parte del processo per le tangenti Icomec, assieme agli inutili sforzi di riacciuffare Natali, ormai intangibile.
In quella Milano caricaturale e “da bere”, come da spot, che corre stupida e finta tra modelle alla Terry Broome, cocaina e soldi facili, il potere dei socialisti è molto forte nei giornali. Il Giorno, di proprietà dell’Eni, feudo parastatale del Psi, ne è condizionato quasi direttamente. Ma in molte redazioni si narra di forti pressioni e promozioni miracolose richieste dal Garofano a direttori compiacenti e a loro volta debitori di un pezzo di carriera. Pillitteri ama farsi precedere da un addetto stampa che, introducendolo in tribuna vip a San Siro, riesce a dire senza ridere frasi come “fate largo, sta passando il sindaco”.
Devo imparare in fretta che servilismo e opportunismo sono un collante piuttosto saldo nella mia professione.
Tuttavia, il socialismo a Milano è anche molto altro: una grande tradizione civile sporcata da una brutta deriva. È i suoi sindaci perbene, come il socialdemocratico Bucalossi e il socialista Aniasi. La faccia coraggiosa della nostra Resistenza e la spina dorsale di una metropoli operosa e aperta a tutti. Il Piccolo Teatro e Strehler, i grandi editori, il lavoro invisibile d’ogni giorno, il riformismo cristiano di Walter Tobagi. È la mia scuola di giornalismo, l’Ifg, la prima a nascere in Italia, e l’Ordine della Lombardia, presieduto da un socialista galantuomo come Carlo De Martino. Il mio primo ricordo dopo l’esame d’ammissione passato con successo all’Istituto per la formazione al giornalismo è una lunga passeggiata con tre compagni di corso dalla periferia (la scuola è in zona Bande Nere) fino alla Galleria, sbucando dalla quale intravediamo il Duomo un po’ confuso dalla nebbia, come siamo confusi noi, non milanesi, realizzando che qui i giornali vogliono solo capire se hai voglia di lavorare o no, e che si può crescere, ragionevolmente, senza avere un giornalista in famiglia o un amico di famiglia in sezione. Sono gli anni del boom della Borsa, le testate economiche assumono redattori fatti e finiti dalle redazioni generaliste, le quali si rimpinguano assumendo i primi giovani sul mercato: di 45 del nostro corso siamo tutti assunti in pochi mesi. Grazie alla scuola dell’Ordine lombardo, accessibile per titoli ed esame, salta la tautologia secondo la quale “per fare il giornalista bisogna fare il giornalista”, che a Roma, Palermo o Napoli può tradursi in tanti anni di lavoro abusivo e, per il mio amico Giancarlo Siani, ha significato la morte. Quel Duomo nella nebbia è un ricordo di libertà, e di possibilità, che mi accompagna nei primi anni dentro i giornali di Milano.
In quei giornali, cominciano a filtrare pezzi di verbali dall’inchiesta su Carollo. È un altro effetto collaterale della nuova procedura penale: la polizia giudiziaria agli ordini del pubblico ministero ha in mano le preziose “carte”, i primi atti del procedimento appena iniziato, lacerti di intercettazioni, interrogatori preliminari, relazioni di servizio; tutto materiale che sarebbe rimasto nella pancia di un’istruttoria gestita da un giudice e che invece, adesso, sta nei cassetti dei nuclei operativi e delle questure, in copia, pronto a uscire in anticipo, con tutta la sua potenza deflagrante, sui media più veloci e voraci. È regolare? Certo che no, stiamo entrando in un territorio di frontiera, uncharted, non segnato sulle mappe. Ma la novità ribalta le competenze dei cronisti. Di colpo, chi viene dalla nera s’accorge di possedere rapporti utilissimi che mancano ai cronisti giudiziari cresciuti nei palazzi di giustizia e, soprattutto, un metodo diverso. Il cronista ideale deve essere una specie di ircocervo che fonda queste due figure, nerista e giudiziario finiscono per sovrapporsi generando un cercatore di atti, rapporti e fascicoli attraverso canali, ovviamente, non ufficiali.
Così, ci troviamo in pista noi ragazzi, nell’anno che porta al processo Duomo Connection, che i vecchi un po’ snobbano per la sua irritualità e un po’ temono per la sua imprevedibilità. Si rischiano buchi dolorosi, si formano piccole alle...

Indice dei contenuti

  1. 1. Maggio 1991, prove tecniche di rivoluzione
  2. 2. 18 febbraio 1992, la mattina del giorno dopo
  3. 3. Aprile sotto le macerie del Muro
  4. 4. Il popolo del maggio milanese
  5. 5. San Vittore a giugno, come squadre di calcio
  6. 6. La doppia estate di Bettino
  7. 7. Settembre, morire di inchiesta
  8. 8. 15 dicembre 1992, nella fine l’inizio
  9. 9. Gennaio 1993, da Sbirulino al señor Manzi
  10. 10. 4 marzo, il senso degli schiavettoni
  11. 11. 30 aprile, da dove piovono le monetine
  12. 12. Una notte di luglio a Milano
  13. 13. L’estate delle parole non dette
  14. 14. Chicchi non paga il sabato
  15. 15. 28 ottobre, la gogna in tv
  16. 16. Gli scheletri del Natale ’93
  17. 17. 26 gennaio 1994, nel Paese che ama Titti
  18. 18. Se tutto crollasse un 1° maggio
  19. 19. Il 7 maggio dei telefoni roventi
  20. 20. 13 luglio, tana libera tutti?
  21. 21. 3 settembre, un kyosei vi seppellirà
  22. 22. L’ora tarda del 3 ottobre
  23. 23. Virgo Fidelis e altre liturgie del 21 novembre
  24. 24. 6 dicembre, la bandiera strappata
  25. 25. Trent’anni dopo
  26. Ringraziamenti