Il sangue dell'onore
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Il sangue dell'onore

Storia del duello

  1. 336 pagine
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Il sangue dell'onore

Storia del duello

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Il duello barbarico, giudizio di Dio in cui si coglieva nello scontro d'armi la sentenza della divinità; il duello in torneo, sospeso fra gioco, addestramento alle armi e regolamento di conti; il duello d'onore, giudiziario o clandestino, espressione e privilegio del ceto nobiliare. I nostri antenati hanno risolto le loro dispute pubbliche e private per più di mille anni sul filo di una lama, fino a quando la società borghese non ha condannato questa pratica come brutale e arcaica. Dalla morte in torneo di Enrico II ai duelli clandestini di Giacomo Casanova, dai duelli del Baiardo – il cavaliere senza macchia e senza paura – alla sciabola del Duce, dalla Russia alla Spagna, dall'Inghilterra all'Italia, in un racconto di episodi rievocati anche nei dialoghi originali, la storia piena di fascino di una istituzione che, se appare bizzarra o mostruosa al lettore contemporaneo, resta tuttavia una chiave di volta per la comprensione del nostro recente passato.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112830

III. L’asta d’Achille (Duelli clandestini d’onore)

I. Duelli occultati, duelli camuffati

1. Dal duello alla pace: la fine della duellistica italiana

Intorno al 1576, alla corte ferrarese di Alfonso d’Este, Torquato Tasso – poco più che trentenne – era diventato intimo amico del nobile cortigiano Ercole Fucci, cui amava confidare i suoi più intimi segreti. Costui però tradì la sua fiducia e – pare – divulgò chiacchiere mordaci su certi suoi segreti amori. Il Tasso lo affrontò, ma il Fucci reagì schernendolo, ed allora «commosso Torquato da giusto sdegno, gliene diede perciò nella stessa sala del duca con una mano una gran percossa sul viso». Lo ricordava il biografo Giovan Battista Manso nella sua ricostruzione, parzialmente fantasiosa ed agiografica, dell’episodio – di fatto, pare, ben più prosaico.
L’ingiuriato non reagì immediatamente, ma, di lì a poco, sfidò il poeta a battersi fuori della Porta di San Leonardo. Durante lo scontro, il Tasso vide avvicinarsi – armati – tre fratelli del rivale. Intensificò quindi gli sforzi e lo ferì, il che spinse gli altri ad intervenire attivamente, ma Torquato si difese bravamente da tutti e quattro ed anzi riuscì a colpire uno degli avversari, finché l’accorrere di gente interruppe il duello. A Ferrara il fatto fece gran rumore e si diffuse il detto «Con la penna e con la spada / Nessun val quanto Torquato». I quattro fratelli fuggirono dalla città, furono banditi e condannati alla confisca dei beni. Torquato, invece, rimase, ritenendo di non aver fatto altro che il suo dovere di gentiluomo, e fu rinchiuso in una stanza del castello di Ferrara, dove iniziò a dar segni della sua celebre, malinconica, furiosa pazzia. I malevoli dissero che il duca era geloso dei successi amorosi del Tasso. I benevoli dissero che il duca l’aveva rinchiuso a fin di bene, per proteggerlo dalle probabili vendette dei suoi nobili nemici.
Era stato il concilio di Trento a determinare la repentina ed inopinata scomparsa del duello giudiziario d’onore, travolgendo anche la scienza cavalleresca italiana che l’aveva rielaborato. Il dibattito era divenuto incandescente negli anni ’50, allorché, come abbiamo visto, furono pubblicati i più accesi trattati in favore del duello, ma al contempo i primi saggi specificamente, sin dal titolo, ad esso contrari: Della ingiustitia del duello, et di coloro, che lo permettono di Giambattista Susio e Contra l’uso del duello di Antonio Massa, editi entrambi nel 1555.
Il mirandolano Giambattista Susio aveva compiuto studi universitari di medicina a Ferrara e Bologna, ma poi visse la vita di corte, soprattutto di quella mantovana. Prevenendo il dubbio del plagio, il Susio – nella prefazione del suo Della ingiustitia del duello, et di coloro, che lo permettono – ricordava d’aver letto il libro del Massa, donatogli dal Conte Fulvio Rangoni, solo dopo aver scritto il proprio. Rievocava le dispute che tenne in materia di duello a Venezia, in Toscana, a Mirandola ed a Roma. Rammentava, finalmente, che già molti anni prima aveva divulgato oralmente stralci della sua opera in fieri, indicando fra i testimoni quell’Antonio Bernardi che del duello fu uno dei più convinti ‘ideologi’. Il timore era evidentemente quello di un’accusa di plagio, se tutta la prefazione era intonata qual premessa della preghiera al Rangoni «che come può con buona ragione; così dia testimonio costì in Roma dell’antichità de miei libri, et del mio parere». Non solo come trattatista, ma anche nelle vesti di consiliatore il Susio si atteggiava a specialista in argomentazioni atte ad evitare il duello, collidendo talora con i più celebrati duellisti. Furibonda fu la polemica con il Muzio, che si scagliò acremente contro il mirandolano, la sua lingua viperina, i suoi «canini latrati», i suoi fischi serpenteschi.
Il Della ingiustitia del duello si dipanava secondo intonazioni filosofeggianti e moralistiche, sviluppando la critica al duello in un’ottica non tanto religiosa, quanto squisitamente umanistica. A tal scopo il Susio intese demolire, ancor prima, il concetto sociale dell’onore di ceto, cui contrappose quello etico dell’onestà virtuosa, stigmatizzando senza remore i principi che tolleravano il duello e i duellisti che lo divulgavano. Due gli parevano le ‘maniere’ della scienza cavalleresca: quella, meno esecrabile, di chi condannava il duello e ne discettava solo perché usanza radicatissima e difficilmente estirpabile; quella di chi toto corde lo sosteneva ed auspicava. Quest’ultima maniera si distingueva a sua volta fra quella di chi difendeva il duello con argomenti giuridici e quella di chi con argomenti filosofici: il Puteo ed il Possevino gliene sembravano rispettivamente i campioni. E quindi alla sistematica confutazione dell’opera di costoro fu destinato rispettivamente il secondo ed il terzo libro del suo saggio. Nella repressione dell’ingiuria, a parer suo, la via maestra era l’appello ai magistrati. In difetto, consigliava una cristiana rassegnazione ed una semplice negazione della calunnia. Una sola eccezione incrinava il rigorismo: l’autorità pubblica avrebbe potuto ammettere il duello in via straordinaria, al solo fine d’evitare un danno all’intero Stato.
La maggior fortuna di antiduellista, però, avrebbe arriso non tanto al Susio, la cui fama fu oscurata da dubbi d’eresia, ma ad un giurista marsicano e cittadino romano, Antonio Massa, il cui saggio antiduellista in posteriore traduzione latina fu accolto nei Tractatus Universi Iuris. Suddito pontificio, di fronte alla dialettica vivacissima fra signori locali duellisti e politica centrale sempre più dichiaratamente antiduellista, optò decisamente per la seconda – «qui niente altro son per fare, se non per distruggere, et confutare quelle cose, che da altri di questa fierezza, et bestialità del duello sono state trattate» –, suscitando le vivaci reazioni degli ambienti nobiliar-militari. Il titolo recita Contra l’uso del duello: il duello è frutto di un’irrazionale consuetudine, talmente perversa che non può esser corretta in alcun modo, ma solo estirpata. L’onore deve essere tutelato col mero ricorso alla giustizia ordinaria, di per sé sufficiente e sovrana, salvo soltanto un diritto di resistenza e legittima difesa contro l’aggressione. Vacua e garrula gli sembrava la disputa fra militari, legisti e filosofi per il disciplinamento del duello, pur riconoscendo la necessità di una minima cognizione del diritto per aver chiari i termini dei problemi. Il suo maggior bersaglio polemico erano, però, quanti difendevano il duello «per autorità di Aristotele», il Possevino fra tutti.
Questi primi saggi espressamente concepiti contro il duello non erano che un’avvisaglia di quanto sarebbe accaduto di lì a pochi anni. I giorni della duellistica, infatti, erano ormai contati. Dopo il 1563, folgorati dall’intransigenza tridentina, diversi saggi sul duello restarono inediti e molti duellisti si sentirono tenuti alla ritrattazione e alla palinodia, non solo per modesto opportunismo e per timore dell’Indice, ma anche e soprattutto perché dopo il divieto del concilio di Trento l’intera trattatistica inaugurata da Paride dal Pozzo era repentinamente invecchiata e superata, così come era superato il duello giudiziario d’onore, cioè il modello pubblico che essa aveva teorizzato.
Nel 1596 l’Indice dei libri proibiti di Clemente VIII vietava sì i trattati sul duello, ma li ammetteva, una volta purgati, nel caso in cui potessero giovare a sedar controversie e comporre paci («ad controversias sedandas pacesque componendas»). La trattatistica post-tridentina si era già compattamente incamminata in questa direzione, producendo opere che trattavano di duelli, talora anche con cavalleresca compartecipazione, ma sotto l’usbergo formale di un titolo di ‘pace’ e di una breve introduzione densa di proclami contro la nefandezza del duello. Venne meno, pressoché completamente, il contributo dei giuristi e ne fu stravolta pure la duellistica dei professori d’onore. Giambattista Pigna dimenticò i suoi furori marziali e scrisse negli anni ’60 un cristianissimo trattato sulle paci private. Qualcosa di simile fece l’Attendoli col suo Discorso intorno all’honore, et al modo di indurre le querele per ogni sorte d’ingiuria alla pace. Il Muzio rinunciò all’intrapresa revisione del suo trattato sul duello e scrisse il Gentilhuomo con spirito risolutamente controriformista. Altri autori, sorpresi dal divieto mentre stavano rifinendo i loro saggi, abbandonarono alle tarme le loro fatiche: fu il caso di Giovanni Iacopo Leonardi e di Giulio Claro, ma gli esempi potrebbero essere ancor più numerosi. Un’intera letteratura nella pienezza del suo sviluppo venne repentinamente stroncata e rimpiazzata da una trattatistica in sintonia, almeno sul piano formale, con l’ortodossia controriformista.
La scomparsa del duello pubblico comportò, dunque, un’imponente riconversione della duellistica in una scienza – piuttosto ipocrita, in verità – della pace d’onore. Si apriva il secolo del Baldi, del Birago e dell’Olevano, sino alle iperboli barocche di Berlingiero Gessi e Giuseppe Maria Grimaldi.
Proliferarono i trattati intorno alle ‘paci’, dal tardo ’500 al primo ’700, da Francesco Albergati a Ludovico Antonio Muratori. Si trattava di saggi destinati ai gentiluomini ed ai tanti cavalieri arbitri-pacieri di questioni d’onore. Vi si condensavano le più usitate modalità di soluzione delle vertenze cavalleresche senza che si addivenisse allo scontro d’arme. Di fatto vi si discorreva ancora ampiamente del duello, al riparo dagli strali controriformisti sotto lo scudo di un titolo ‘pacifista’. Ricca fu naturalmente anche la letteratura specificamente antiduellista, di cui ricordiamo, fra gli altri, Gasparo Cecchinelli (Lettera alli curati del Piemonte del duello), Carlo Antonio Manzini (Il duello schernito, o vero l’ofesa, e la soddisfattione. Trattato morale) e Filippo Maria Ponticelli (Pensieri filosofici ed una dissertazione sulla pulizia urbana).
Certo la duellistica quattro-cinquecentesca mantenne grande autorevolezza, e continuò ad essere ampiamente conosciuta e citata: ne è cospicua testimonianza manoscritta lo Zibaldone o Repertorio cavalleresco di Antonio Michele Bombacci. Ma l’autentica cifra stilistica di questa nuova scienza cavalleresca – tutta svolta sul piano pragmatico e morale – fu nell’allontanamento sempre più marcato dalla cultura e dalle argomentazioni strettamente giuridiche: ne sono chiari esempi le opere di Scipione Ammirato (Il Maremonte overo dell’ingiurie dialogo) o di Giulio Cesare Valmarana (Modo del far pace in via cavaleresca e christiana). Anche allorché gli autori erano forniti di una preparazione giuridica – come fu il caso del bergamasco Leonardo Agosti (Il consiglier di pace) –, le loro opere furono essenzialmente aliene dalla dimensione del diritto.

2. La «ferrea virga» dei pontefici romani

Una vera e propria svolta nella storia del duello moderno fu nel dettato del Concilio tridentino, che colse il risultato pratico notevolissimo di determinare il fallimento del duello giudiziario d’onore all’italiana. La condanna normativa del duello non era cosa nuova, né sul piano della legislazione ecclesiastica né su quello della legislazione secolare. In Spagna nel corso del ’400 e in diversi Stati italiani verso la metà del ’500 il duello d’onore fu esplicitamente avversato, ma la già di per sé incerta politica dei legislatori della prima età moderna si scontrava con un istituto sovranazionale, che prescindeva dai confini politici. La particolarissima struttura del duello giudiziario d’onore, in cui le parti ‘ricercavano’ il giudice, rendeva singolarmente poco produttivi i rifiuti di campo franco ovvero le sanzioni penali di questo o quel principe, giacché i duellanti, anche mantenendosi nei confini della legalità, potevano agevolmente rivolgersi altrove, ad altro signore più propenso a conceder campo. Ciò era facilmente praticabile soprattutto in Italia, politicamente polverizzata in una miriade di giurisdizioni e priva di un potere monarchico centrale che si arrogasse la piena potestà di concedere o vietar duelli. La rete di giurisdizioni minori italiane era lo scenario in cui il duello giudiziario d’onore aveva affondato solide radici: soltanto una normativa ‘universale’ avrebbe potuto abbatterlo. Il concilio di Trento rappresentò l’occasione più propizia.
La definitiva condanna si inserì nella dinamica della sempre più pregnante legislazione pontificia antiduellista, che si accompagnava ad una costante pressione sui poteri temporali al fine di limitare la concessione delle patenti di campo. Fra il 1509 e il 1592 numerose costituzioni papali riguardarono specificamente il duello. Le tre più antiche – di Giulio II (1509) Regis pacifici, di Leone X (1519) Quam Deo, di Clemente VII (1522) Consuevit – circoscrivevano la propria efficacia alle terre soggette alla Chiesa romana. Tecnicamente si proponevano come norme di diritto locale pontificio e non di diritto comune canonico.
Quella di Giulio II ricordava, oltre al dovere di non tentare Dio e insieme all’ordine divino di riporre la spada nel fodero, la proibizione delle ordalie e degli spettacoli cruenti, ma la sua denuncia era rivolta più specificamente contro il diritto dell’onore. Parole insignificanti degeneravano tosto nella sfida («ut alter alterius sanguinis satietur») e nella ricerca del campo franco. Il pontefice vietava quindi il duello a tutti i suoi sudditi, fulminandolo con la pena ordinaria per l’omicidio e per le lesioni, cui aggiungeva una serie di sanzioni specifiche.
Il papato aveva deciso di combattere risolutamente il duello giudiziario d’onore. Nel 1519 Leone X con la Quam Deo aveva preso atto di una situazione sin troppo turbolenta, in cui
moltissimi baroni, signori temporali e altri, soprattutto sudditi della Chiesa romana, sono diventati a tal punto inclini a battersi in duello, che quasi quotidianamente dovunque son viste commettersi siffatte singolari tenzoni, e i predetti signori temporali e i capi militari non paventano di promuoverle, invece che di impedirle, anche perché nei loro territori e giurisdizioni preparano l’area o campo protetto, ed esibiscono tali cruenti spettacoli, e offrono loro il pubblico.
Il testo della Quam Deo fu letteralmente riproposto da Clemente VII nella Consuevit del 1522, ma più di trent’anni dopo, nel 1554, Giulio III con la Cum sicut accepimus lamentava ancora l’inosservanza dei decreti dei suoi predecessori ad opera di uomini «brigosi» e violenti, che godevano della connivenza o della fattuale tolleranza di chi esercitava il potere a livello locale. Contro tali dolose negligenze stabiliva che si procedesse duramente, d’ufficio o su denuncia.
La normativa della prima metà del secolo culminò e trovò un suo assetto nella bolla Ea quae di Pio IV del 1560, il cui contenuto fu sostanzialmente recepito dal concilio. Non molto era cambiato dopo i proclami di Giulio III, se Pio IV ancora si lagnava dell’inosservanza delle autorità e dei signori locali, che non si vergognavano d’ignorare la legge per assecondare l’abominevole usanza del duello, ferendo, ad un tempo, la dignità della religione e quella dello Stato.
La volontà papale era ormai quella di criminalizzare definitivamente il duello giudiziario d’onore a livello di diritto canonico, e quindi di diritto comune, al di là dei confini del Patrimonio di Pietro. Il duello fu bandito da tutta la cristianità nell’ultima sessione del concilio di Trento il 4 dicembre 1563 (XXV, 19: Detestabilis duellorum usus):
Sia completamente eliminata dal mondo cristiano la detestabile usanza dei duelli, introdotta ad opera del diavolo, di modo che egli dalla morte cruenta dei corpi guadagna la rovina delle anime. Imperatori, re, duchi, principi, marchesi, conti e signori temporali comunque si chiamino, i quali abbiano concesso campo franco per un duello fra cristiani nelle loro terre: siano di diritto scomunicati, e si considerino privati della giurisdizione e del dominio sulla città o sul borgo o sul luogo – se ottenuti dalla Chiesa –, nel quale o presso il quale permisero che si realizzasse il duello, e, se si tratti di beni feudali, questi siano immediatamente...

Indice dei contenuti

  1. Preludio
  2. I. Un impeto gagliardo (Cavalieri in armi)
  3. II. Lo scettro pacifico (Duelli giudiziari d’onore)
  4. III. L’asta d’Achille (Duelli clandestini d’onore)
  5. IV. La spada di Honore (Per le vie e i borghi d’Europa)
  6. V. Il duello schernito (Dall’eutanasia alla metastasi, dall’Illuminismo a Napoleone)
  7. VI. La sciabola del duce (Immagini del duello nella società borghese)
  8. Fonti edite e inedite
  9. Bibliografia