Letteratura e viaggio
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Letteratura e viaggio

  1. 86 pagine
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Letteratura e viaggio

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In questo libro né si parla del tema del viaggio in letteratura, né del genere «letteratura di viaggio»; ma si esamina il comune carattere di «spaesamento» che alle due esperienze, quella che nasce dalla lettura e quella che nasce dal viaggio, è comune.L'affascinante vocazione del testo letterario a farsi esso stesso viaggio, trasporto che accomuna autore e lettore in «piccioletta barca», è esplorata dall'Autore in un suggestivo percorso da Omero a Dante a Boccaccio, Ariosto, Sterne, Goethe, Manzoni, sino alla curva moderna di Beaudelaire e Conrad, e alle rivisitazioni novecentesche di D'Annunzio, Gozzano, Calvino.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122808

1.
Due spaesamenti

Distanze

Vorrei spiegare innanzi tutto perché ho proposto all’editore di iscrivere questo volumetto della collana «Alfabeto letterario» nella serie «Letteratura e altro». Il rapporto fra viaggio e letteratura avrebbe potuto legittimamente, e forse più spontaneamente, iscriversi nella serie dedicata a «Le forme nella storia», come presentazione di un peculiare genere letterario, la «letteratura di viaggio»; oppure, altrettanto legittimamente, si poteva considerare il viaggio come «tema letterario» («il viaggio nella letteratura»). Entrambe le scelte subordinano, anche grammaticalmente, il viaggio alla letteratura: considerano cioè il viaggio come una delle variabili interne al fatto letterario. Ma sul piano antropologico fra i due termini esiste un originario nesso di coordinazione e reciprocità: un nesso che non cogliamo subito solo perché, come la lettera rubata di Poe, sta davanti ai nostri occhi. Il viaggiatore e lo scrittore, in certo modo, nascono insieme.
Il viaggiatore infatti, per definizione, è colui che costituisce, spostandosi, una distanza. Postulando che egli abbia una dimora, un luogo di stato abituale, egli se ne allontana, si pone in uno stato distante da quello di partenza.
La costituzione di questa distanza spaziale ha inoltre una sua durata (e postula una attesa di riavvicinamento). Il viaggio è lontananza anche nel tempo (passato e futuro) dal proprio, dal noto, dal familiare.
È esattamente questa situazione antropologica che fonda un nesso privilegiato fra viaggio e scrittura: se è vero che la scrittura è per l’appunto «nata originariamente per rendere possibile la comunicazione a distanza nello spazio e/o nel tempo» (Gianfranco Folena). Non stupisce perciò che forme privilegiate e fondanti della scrittura di viaggio siano quelle che ancora Folena definisce «forme primarie della scrittura»: la lettera, il messaggio scritto che percorre a ritroso, annullandolo, il tragitto del viaggiatore, e la registrazione memoriale, il «diario di bordo», che deve garantire la trasmissione (o almeno la trasmissibilità) dell’esperienza-viaggio al di là della sua durata. La lettera annulla la distanza spaziale, il diario annulla la distanza temporale.
I due generi sono assai vicini dal punto di vista delle modalità di enunciazione: in entrambi i casi c’è un io che scrive, qui e ora; in entrambi i casi il destinatario leggerà e dopo. Apparentemente una differenza consiste nella mancanza, per il «giornale di bordo», di un destinatario nominale. Ma nessuna scrittura è davvero «per sé»; persino il diario intimo postula l’esistenza di un futuro lettore che riceva e apprezzi la testimonianza depositata dall’io: ciò vale tanto più per il giornale, istituzionalmente destinato alla futura lettura dell’auspice o del committente del viaggio. D’altra parte molte lettere di viaggio sono prive di un destinatario individuato, o lo perdono come non necessario in caso di pubblicazione. I due generi, distinti in astratto, storicamente tendono a confondersi: il diario di bordo si configura spesso come sequenza di lettere; la lettera è organizzata come registrazione diaristica degli eventi del viaggio.
In comune, rispetto al viaggio, queste scritture hanno una caratteristica istituzionale e funzionale che carica di valenze più peculiari le loro marche formali. Anch’esse infatti viaggiano, o meglio sono destinate a viaggiare. La lettera in particolare è per così dire speculare al viaggio: sia in quanto lo rende visibile, lo riflette, sia in quanto ne rimanda l’immagine al punto di partenza. Questa dinamicità del genere (una dinamicità intrinseca, ovviamente: non è necessario che la lettera viaggi materialmente) attiva una funzione forte del destinatario, quand’anche generico e puramente istituzionale. Esso è punto di riferimento del destinatore per misurare le distanze dall’«altro» che egli vede e descrive. La presenza continua del tu, nella lettera, è un meccanismo di salvaguardia e riconquista dell’io, sempre insidiato – nella «dislocazione» del viaggio – dal rischio di immedesimazione nell’altro.

Lo scrittore e il viaggiatore

I formalisti russi definiscono il procedimento artistico della scrittura (la «letterarietà») un atto di spaesamento (la parola russa è ostranenie, più spesso la si traduce con «straniamento»). Volendo sottolineare che il procedimento letterario consiste in un allontanamento dei meccanismi percettivi dalla consuetudine, dall’abituale, in un confronto con stimoli ignoti che ci sottrae all’automatismo del «riconoscimento» e ci permette di «vedere». Il termine non è scelto a caso. L’esperienza antropologica del viaggio segue esattamente lo stesso percorso: allontanamento dal noto e dal familiare, confronto con l’altro e il diverso, e, attraverso questo confronto, conquista dell’identità, visione di sé.
La lettera di viaggio, intesa nel senso più generale di ragguaglio narrativo, è in questo senso per antonomasia produttrice di «straniamento». Lo si vede in modo chiaro quando il meccanismo viene rovesciato artificialmente attraverso la collocazione del viaggio nel paese del destinatario, al fine di rendere di nuovo visibile il noto, il consueto, il familiare: è il caso delle Lettere persiane (1721) di Montesquieu. Di qui l’utilizzabilità del resoconto di viaggio come nucleo, o strumento forte, di letterarietà: una funzione che non decade affatto in epoca moderna, quando il genere propriamente inteso, specie nella sua versione epistolare, tende a scomparire, o comunque a marginalizzarsi.
Naturalmente, ciò non significa affatto che queste «scritture» siano sempre e automaticamente di carattere letterario, artistico. Quando Gian Battista Ramusio (1485-1557), funzionario della Repubblica di Venezia, decide di raccogliere e pubblicare, a metà del Cinquecento, una gran quantità di scritture di viaggio, vi include anche lettere di viaggio «scritte da marinari et persone grosse», con qualche preoccupazione per la mancanza di organizzazione formale: «per infinite repliche che fanno inducono tedio». Ma Ramusio è convinto che sia comunque utile pubblicarle: «daranno pur qualche cognitione di detti discoprimenti».
Tuttavia la funzione informativa di cui è portatore il viaggiatore e la funzione letteraria pertinente allo scrittore sono sentite fra loro come strettamente connesse, e reciprocamente necessarie. Tanto è vero che quando le due funzioni non sono espletabili, per difetto di competenza, da un’unica persona, si crea una particolare simbiosi, in cui è quasi impossibile sceverare i singoli apporti: il caso più noto è quello della coppia Marco PoloRustichello da Pisa, simbolicamente ‘condannati’ alla collaborazione (è noto che il Milione fu scritto in un carcere nel 1298):
Ma io voglio che vvoi sappiate che ppoi che Iddio fece Adam nostro primo padre insino al dì d’oggi, né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante maravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo. E però disse infra sse medesimo che troppo sarebbe grande male s’egli non mettesse inn-iscritto tutte le maraviglie ch’egli à vedute, perché chi no lle sa l’appari per questo libro.
E ssì vvi dico ched egli dimorò in que’ paesi bene trentasei anni; lo quale poi, stando nella prigione di Genova, fece mettere inn-iscritto tutte queste cose a messere Rustico da pisa, lo quale era preso in quelle medesime carcere ne gli anni di Cristo 1298.
Ma non è l’unico esempio di «autore uno e bino» (Cesare Segre), nella scrittura di viaggio: si pensi al più celebre Viaggio intorno al mondo fra i tanti scritti nel Settecento, quello in cui felicemente interagiscono l’audacia avventurosa di un grande esploratore, James Cook (1728-1779), e la curiosità intellettuale di un notevolissimo scrittore-antropologo, l’anglotedesco Georg Forster (1754-1794).

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È significativo che questa collaborazione, storicamente data, fra viaggiatore e letterato divenga talmente canonica da costituirsi come paradigma strutturale del racconto di viaggio, e quindi proporsi alla finzione parodica di quei testi che capovolgono in invenzione fantastica la funzione informativa svolta dal testimone-viaggiatore: come i Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, fondati sul paradosso di racconti patentemente favolosi che l’autore dichiara «aderire strettamente alla verità». Il capitano Gulliver afferma infatti di aver seguito l’esempio di «suo cugino» William Dampier (reale navigatore inglese autore nel 1697 di un Viaggio intorno al mondo) nell’affidare il resoconto dei suoi viaggi a «uno di quei giovani gentiluomini di Oxford o Cambridge che li ordinasse e ne correggesse lo stile».
L’interazione fra le due attività di «vedere e cercare le meravigliose cose del mondo» e di «metterle in scritto» si costituisce dunque non come mera collaborazione strumentale, ma come osmosi organica, come complementarità e reciproca dipendenza. Una complementarità che può manifestarsi ed essere enunciata nelle due direzioni: dal viaggio verso la letteratura, dalla letteratura verso il viaggio.
Da un lato il viaggio, in quanto esperienza dell’«altro», del diverso, può essere conosciuto solo attraverso la sua «presentazione» letteraria (presentazione nel senso di «familiarizzazione», processo di riduzione dallo sconosciuto al noto); con questo di particolare, che mentre un’esperienza «stanziale» può esser narrata – teoricamente – da chiunque, perché è «verificabile», e il pubblico ne può riscontrare congruità, coerenza, iscrivibilità in un reticolo spazio-temporale noto, solo il viaggiatore può raccontare l’esperienza del viaggio: lo scontro con l’ignoto, col diverso, è attestabile solo da chi, in prima persona, l’ha vissuto.
Per converso, lo scrittore, nella misura in cui si pone per definizione il compito di trasmettere un «vero» nuovo, inaspettato, ignoto all’esperienza consueta del lettore, si troverà facilmente immerso nel campo metaforico del viaggio. Di qui la frequente assunzione di un percorso di viaggio – reale o fantastico o simbolico – come struttura dei testi che intendano narrare una transizione esistenziale decisiva, un «passaggio» attraverso i pericoli e le difficoltà (hic sunt leones, scrivevano i cartografi sulle regioni ignote) verso la conquista o la riconquista di una identità: penso ovviamente e innanzi tutto, al pellegrinaggio di Dante.
Ma c’è di più: è l’atto stesso dello scrivere, i...

Indice dei contenuti

  1. 1. Due spaesamenti
  2. 2. Testi di viaggio e viaggi del testo
  3. 3. Bibliografia
  4. L’autore