Carnevale
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Carnevale

La festa del mondo

  1. 232 pagine
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Carnevale

La festa del mondo

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Caposaldo imprescindibile del nostro calendario, il carnevale sembra voler sfuggire ancor oggi a ogni tentativo di spiegazione. Eppure, i riti mascherati si collegano fin dalla notte dei tempi al ciclico ritorno degli antenati che alla vigilia del nuovo anno, sotto forme bizzarre, inquietanti, sfarzose, portano ai vivi un augurio di prosperità. Con l'avvento del cristianesimo questi personaggi ancestrali vengono scacciati dalla cittadella sacra del capodanno e prendono la via dell'esilio, rifugiandosi là dove non recano disturbo ai fasti della religione ufficiale. Così, segregata in un ghetto del calendario, la mascherata, da rito che era, si trasforma in farsa, in un tripudio di gola e di licenziosità legittimato quale necessaria antifona dell'espiazione quaresimale imminente. Forte di questo salvacondotto chiesastico, carnevale diviene il protagonista della cultura popolare della rinascenza europea, di cui seguirà tutta la parabola, per prendere il piroscafo alla conquista dell'America e proseguire il suo incedere sulla scena del mondo.

Opera tutta da godere, per la sapiente commistione di rigore scientifico e capacità narrativa, sìche questo libro si legge con stupore per l'enorme mole di dati carnevaleschi che via via presenta, saltando da una parte all'altra del mondo con il desiderio che innesca di sapere come si va a finire in questo viaggio in cui si viene accompagnati assieme a Carnevale attraverso il tempo e lo spazio, sino a raggiungere un respiro planetario.Luigi M. Lombardi Satriani

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858144206
Categoria
Antropologia

1.
Carnevale festa del mondo

Carnevale festa del mondo, perché il mondo degli uomini vi celebra fasti tutti propri, senza alcun dichiarato riferimento ultraterreno: «non è una festa che si offre al popolo, ma è una festa che il popolo offre a se stesso», scrisse Goethe da par suo1. È la festa di un al di qua senza aldilà, ovvero di un al di qua fattosi immune a qualsiasi suggestione d’aldilà, sotto il cielo diafano e muto di febbraio, senza angeli, senza stelle comete e senza dei. È la festa del secolo laicale, del mondo «mondano», del mondo come è, con tutti i suoi difetti, i suoi vizi, i suoi peccati e le sue brutture, che vi risultano in effetti esagerate, senza imbarazzi. E poi, carnevale è festa del mondo anche per la sua intrinseca qualità virale che, sull’onda potente del desiderio elementare del travestirsi, del mascherarsi, del giocare a divenire altro da sé, e del mettere in scena un mondo soltanto immaginato e desiderato come se fosse vero, lo ha reso noto, un passo dopo l’altro, a tutto il pianeta: dall’Europa cattolica del medioevo, dove è nato, alle Americhe, dove è arrivato prima con il veliero e poi nell’Ottocento con il piroscafo, fino alla sua nuova dimensione globale, dove ormai lo si ritrova dappertutto: senza più una quaresima imminente, senza il nesso con un’idea di redenzione, e pure senza più inverno, perché ormai, da Rio de Janeiro a Rotterdam, carnevale prima per obbligo – in febbraio ai tropici fa caldo – e poi per scelta lo si fa anche d’estate.
Eppure, con tutta la sua notorietà planetaria, sospeso come un acrobata tra Natale e Pasqua, cioè tra i due fari principali del calendario cristiano, carnevale comunica da sempre una sua qualità funambolica, arrischiata, ambigua. Tutti, infatti, saprebbero raccontare con qualche presunzione di certezza che cos’è il Natale, o che cos’è la Pasqua; quando si parla di carnevale, invece, gli stessi racconti si fanno esitanti e imprecisi, e si tingono presto dei colori ineffabili della leggenda: di una leggenda, però, che non viene narrata mai, e che risulta sempre, nelle versioni smozzicate che si possono carpire qua e là, reticente e incerta. Tuttavia, anche se da passeggero clandestino, carnevale dovrebbe far parte integrante del calendario usitato del mondo popolare cristiano, e attenere almeno di lontano alla medesima tradizione... Questo imbarazzo, questa difficoltà a spiegare, a narrare, incomincia dalla ragion d’essere sempre piuttosto indefinita della festa e addirittura dal suo nome: «carnevale». Questa parola, divenuta nei secoli sempre meno comprensibile, nell’interpretazione tardomedievale si è voluta far alludere a un rito di addio solenne alle carni e al mangiare di grasso, di cui nessuno però sa niente di preciso e che anzi nessuno ha mai visto, forse per il semplice fatto che non c’è mai stato.
Se del tutto spuria è la memoria di questo lontano addio alle carni, ugualmente intessute di leggenda sono la mezza dozzina di storielle che, per darsi una ragione del carnevale e della festa così spudoratamente immotivata che vi si celebra, allignano un po’ ovunque, in parti d’Europa anche molto lontane. In più di un luogo, per esempio, si racconta che il carnevale ricorda la liberazione del paese dalle iniquità feudali dello ius primæ noctis. Questo avviene a Ivrea, con la bella mugnaia Violetta, promessa in sposa a tale Toniotto, che si ribella alle turpi voglie del marchese del Monferrato, ma anche a Rocca Grimalda ancora in Piemonte, a Valfloriana nel Trentino o a Gljev nell’entroterra dalmata non lontano da Spalato, dove si raccontano storie affatto simili: a ben guardare, la stessa storia de I Promessi Sposi, tanto per citarne un’elaborazione romanzesca moderna di buon successo.
Oppure, si racconta di voler celebrare il grande successo del popolo nel disperdere l’assedio di un esercito nemico: a Mohács, in un’enclave croata dell’Ungheria, si racconta ad esempio che i turchi invasori si dessero a una fuga precipitosa alla sola vista degli spaventosissimi busók con corna e zanne, vestiti di candide pelli di pecora, che attraversavano a frotte il Danubio sulle barche per venire a battersi2. Sempre i turchi sono di scena a Cattafi nel Messinese, dove scendono in campo i cosiddetti «scacciuni», specie di danzerini biancovestiti, ben poco marziali in realtà, che riescono comunque a respingere l’attacco di un pascià temibile ma non troppo, visto che sfila pacioso per le vie del paese tra i protagonisti della mascherata. Stessa vicenda, però contro i saraceni, a Sampeyre in Val Varaita nell’alto Cuneese dove tuttavia, con tutto il rispetto per la mobilitazione generale della locale abbadia, i saraceni nella storia non sono mai arrivati, oppure all’isola di Làgosta in Dalmazia, dove abbiamo la curiosa situazione di croati indossanti un’antica divisa inglese, che respingono con spade di legno un’armata invisibile di pirati catalani comandati da un genovese al soldo del turco. A Naoussa, la «città eroica» della Macedonia greca, la situazione è ancora più indecifrabile, perché i presunti campioni dell’insurrezione anti-ottomana del 1821, che secondo l’opinione generale sarebbe il tema della rappresentazione mascherata, non indossano le casacche della guerriglia cleftica, ma la splendida uniforme dei giannizzeri del sultano, e come tali sono presentati, in un paradosso di difficile soluzione se non nella logica carnevalesca. Allo stesso modo, i montanari della Coumba Freida valdostana vestono le uniformi degli invasori della Grande Armée di Napoleone che scende in Piemonte dal Gran San Bernardo, lasciando nei paesi sottostanti una scia di orpelli vestimentari a beneficio delle landzette della benda di carnevale.
Ancora, si racconta che con carnevale si vuole ricordare il lascito di qualche facoltoso maggiorente, come il veronese Tommaso da Vico che nel 1478, in tempi di grave carestia, aprì al popolo i forni della città, garantendo gnocchi per tutti, o il conte di Tricarico che dischiuse l’accesso ai grandi pascoli del Metapontino alle mandrie di bovini del paese, e qualche altra bizzarra fandonia, sulla quale il più volonteroso degli storici non troverà negli archivi il minimo riscontro.
Come se non bastasse, questo repertorio ristretto di leggende piuttosto sfocate si manifesta avviluppato dai luoghi comuni di un’esegesi popolare onnisciente e invasiva che però, se sottoposta a scrutinio, appare pretestuosa, vera a metà, fuorviante, contraddittoria. Primo fra tutti, come già detto, è il concetto che il carnevale abbia, in onore al suo nome, qualcosa a che vedere con la carne e con un consumo rituale spropositato di carne. Questo può esser vero solo per contrasto con gli imminenti digiuni della quaresima, ma non di per sé, visto che da che mondo è mondo il cibo del carnevale sono le frittelle e i crostoli, ovvero galani, chiacchiere, bugie, cenci, frappe nelle varie regioni d’Italia, preparazioni di farina, acqua e uova, essendo tutto il rito, come vedremo, fitto di allusioni all’universo alimentare cerealicolo3. Fra l’altro, al tempo di carnevale la stagione delle grandi maialature contadine, che avevano luogo di preferenza in dicembre, è di solito ampiamente trascorsa. E poi, a carnevale soprattutto si sfila, si va dietro ai carri, si circola liberamente per strade e piazze, si cerca protetti dalla maschera l’occasione di qualche burla, si va di casa in casa, e in casa e in piazza soprattutto si balla: mentre per banchettare, per sedersi a tavola a riempirsi la pancia, non c’è di solito né il tempo né la voglia, laddove la maschera stessa, per qualsiasi urgente adempimento manducatorio, risulta certamente di qualche impaccio.
Altro caposaldo dell’esegesi carnevalesca popolare è quello che dice «a carnevale, ogni scherzo vale», alludendo alla naturale franchigia che la festa sembra poter estendere a ogni genere di trasgressione. Anche questo, tuttavia, è vero a metà. Certamente il mettersi in maschera incoraggia tutta una gamma di comportamenti burleschi, scomposti o vituperosi, oltre alle bastonature per vendetta e alle sconcezze perpetrate impunemente dalle maschere soprattutto in passato. È anche vero, tuttavia, che di norma la trasgressività delle maschere corre sempre nei binari piuttosto stretti del rito, che impone ad esse un contegno, una misura dilatata finché si vuole ma complessivamente piuttosto prevedibile. Così, ogni loro estemporanea gaiezza appare sempre saldamente imbragata in una fitta rete di comportamenti coatti, che sembrano poter smorzare sul nascere qualsiasi autentica scherzosità. E su questo, varrà per tutti l’opinione di Goethe, che scrive da Roma il 20 febbraio 1787, mercoledì delle Ceneri, «un baccano inverosimile, ma di letizia sincera nemmen l’idea»4.
Altra opinione in auge, probabilmente diffusasi a partire dalla scuola ottocentesca di mitologia comparata di Max Müller, ma ormai filtrata nel sentir comune di varie parti d’Europa, è quella che il carnevale non sia che una grande metafora sceneggiata della sconfitta dell’inverno e del ritorno della primavera. Così, stuoli di folkloristi locali sono andati a cercare, nelle mascherate a loro portata di mano specialmente in area germanica ma non solo, che cosa di preciso rappresenti l’inverno, e cosa la primavera... Ma qui, in verità, l’assurdo è particolarmente evidente, perché quando il carnevale finisce, di inverno ce n’è ancora almeno un mese dal punto di vista astronomico e più ancora da quello climatico, anche nella fascia mediterranea dove, come è noto, marzo è il mese più incerto dell’anno. Nessuno avrebbe pertanto l’ardire di proporre la conduzione del rito carnevalesco in relazione propiziatoria alla primavera imminente, se non forse per metterne a nudo l’assoluta inefficacia.
Con il mito della primavera incipiente, siamo già prossimi alle interpretazioni di derivazione colta, di cui il secolo scorso, con le sue febbrili infatuazioni ideologiche, è stato singolarmente provvido. Primo fra questi nuovi miti è l’idea del «mondo alla rovescia», cioè del carnevale visto come un’effimera rivoluzione dove per una breve stagione si invertono tutti i valori e si rimette in auge il popolo umiliando i maggiorenti, come negli antichi saturnali di dicembre, da cui il carnevale discenderebbe in via diretta, secondo quanto si pensava già in età neoclassica: «in questi giorni» – scrive Goethe dal carnevale di Roma del 1787, a riprova di un punto di vista già ben sedimentato – «il romano moderno si rallegra con se stesso che la nascita di Cristo abbia potuto differire di alcune settimane la festa dei Saturnali con tutte le sue prerogative ma senza essere riuscita ad abolirla»5. In questa prospettiva, carnevale viene inteso come un marchingegno sociale complesso, che funge da grande riequilibratore, fantasioso ma potenzialmente anche concreto. Così, ad esempio, nel 1580 a Romans sull’Isère nel Delfinato francese la mascherata innescò, a partire dalla messa in scena drammatica del proprio bestiario simbolico (gallo, aquila, orso, pecorone...), una grande rivolta popolare contro le tasse e le prepotenze dei nobili: «una prova generale», è stato scritto, «della Rivoluzione francese»6. Anche questa interpretazione, che per forza di cose ha suscitato il massimo delle simpatie in casa marxista, risulta tuttavia un po’ vera e un po’ no, ma è complessivamente, direi, più falsa che vera.
Vero è che, in piena aderenza allo spirito degli antichi saturnali, in molti luoghi a carnevale si insedia una sorta di governo provvisorio, cui il sindaco cede talora – ma per finta! – le chiavi della città: ad Aalst in Belgio7, a Varallo Sesia ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione. Detestavo il carnevale
  2. 1. Carnevale festa del mondo
  3. 2. Maschere primordiali e antichi riti
  4. 3. Autonomia della mascherata
  5. 4. Fenomenologia della mascherata # 1: il sacro dramma
  6. 5. Fenomenologia della mascherata # 2: il doppio corteo
  7. 6. Il semestre dei riti: carnevali, mascherate e feste cristiane
  8. 7. Carnevale nasce tardi
  9. 8. Carnevale la quarta dimensione
  10. 9. Carnevale prende il piroscafo
  11. 10. «Carnevale è una gran vacca»
  12. Cartine