Regie teatrali
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Regie teatrali

Dalle origini a Brecht

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Regie teatrali

Dalle origini a Brecht

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Teatro è idee, pensieri, emozioni, ma anche trucco, materia, legno, stoffa, corpo, luci. Attraverso una serie di ritratti di registi e racconti di spettacoli particolarmente significativi dalla fine dell'Ottocento a Bertolt Brecht, Mara Fazio mette a fuoco le procedure del lavoro scenico e i modi in cui un testo si traduce in evento, un'idea nella pratica materiale del teatro.

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Informazioni

VIII. Mejerchol’d e «Il revisore» di Gogol’

Molte carriere registiche hanno inizio con un disagio, quello che prova un attore nel dover seguire ed eseguire un disegno che non lo convince. La carriera di Mejerchol’d regista inizia con la scontentezza di Mejerchol’d attore al Teatro d’Arte di Mosca.
Nel 1898 Vsevolod Mejerchol’d (1874-1940) aveva ventiquattro anni ed era allievo di Nemirovič-Dančenko1 alla scuola d’arte drammatica di Mosca quando questi fondò insieme a Stanislavskij il Teatro d’Arte. Nemirovič lo incluse nel gruppo di attori che portò con sé al Teatro d’Arte dove Mejerchol’d interpretò il ruolo nervoso e insofferente di Treplev nella prima storica edizione del Gabbiano di Čechov e altri ruoli importanti2. La scuola di Stanislavskij fu un’esperienza fondamentale per la formazione non solo attorica ma anche registica di Mejerchol’d.
Se io ho potuto dare qualcosa è esclusivamente per avere passato degli anni al suo fianco. Ricordatevelo! Se tra di voi attori c’è qualcuno che crede di farmi piacere a parlarmi con insolenza di Stanislavskij, si sbaglia. Senza essere d’accordo con lui, l’ho sempre profondamente rispettato ed amato. [...] Stanislavskij ed io affrontiamo la soluzione di un compito come i costruttori di un tunnel sotto le Alpi: ognuno avanza dalla sua parte, ma da qualche parte, al centro ci incontreremo sicuramente.3
Attraverso la musicalità, il ritmo che gli attori del teatro d’arte seppero imprimere ai drammi di Čechov, Mejerchol’d aveva imparato che l’attore era l’anima del teatro4. Presto però, quando i modi trovati per le opere di Čechov cominciarono ad essere applicati ad altri testi rischiando di divenire cliché, iniziò a manifestarsi in lui una certa inquietudine. Gli pareva che il naturalismo introdotto da Stanislavskij come correttivo della teatralità artificiosa dei vecchi attori avesse chiuso le porte al mistero. Richiedendo una recitazione netta, estremamente precisa, non permettendo alla scena di suggerire, i metodi del Teatro d’Arte impedivano anche allo spettatore di completare l’illusione con l’immaginazione. Mejerchol’d pensava con Voltaire che «il segreto della noia sta nel pretendere di dire tutto». L’eccesso di particolari, il desiderio di mostrare tutto gli sembravano un tradimento nei confronti di autori poetici come Čechov, che amava.
Il teatro naturalista respinge il dono di sognare. [...] Approfondendo l’analisi, spezzettando l’opera, il regista naturalista perde di vista il tutto; appassionato nel limare scene particolarmente «caratteristiche» compromette l’equilibrio e l’armonia dell’insieme. Il tempo è prezioso sul palcoscenico. Quando una scena che deve essere eseguita rapidamente dura troppo a lungo, pesa sulla scena successiva, che nello spirito dell’autore è ugualmente importante. Lo spettatore al quale si è richiesta troppa attenzione per poca cosa, è stanco al momento della scena capitale.5
Mejerchol’d era incompatibile con il naturalismo: ragionava in termini musicali, ritmici. Nella primavera del 1902, dopo quattro anni, lasciò il Teatro d’Arte, fondò una sua compagnia e cominciò a recitare in provincia, in cerca di nuove strade espressive. Nel suo repertorio, oltre a Čechov, Hauptmann, Gor’kij, Ibsen, che allestì seguendo la concezione realista, comparvero nuovi autori contemporanei più difficili: Maeterlinck, Schnitzler, Hamsun, che Mejerchol’d mise in scena cercando nuovi metodi non naturalistici. Ma l’esperienza in provincia, che durò tre stagioni, si rivelò difficile. Mejerchol’d aveva bisogno di sperimentare e convinse Stanislavskij ad aprire come succursale del Teatro d’Arte un teatro-studio, il Primo Studio di Stanislavskij (1905). Qui, lavorando soprattutto sui testi di Maeterlinck, fece i primi esperimenti di un teatro di stile, o come lui lo chiamava, di un teatro «convenzionale»6.
Mettendo in pratica un nuovo metodo di lavoro registico Mejerchol’d lasciava liberi gli attori di provare, di proporre, passando solo in seguito ad armonizzare in scena le varie parti. Era convinto che il lavoro teatrale fosse un’opera collettiva e che il compito del regista consistesse nell’equilibrare tutto ciò che gli altri creatori avevano elaborato liberamente. Voleva essere un coordinatore, non un despota. Allo Studio, Mejerchol’d sperimentò anche una nuova maniera di recitare. Chiedeva agli attori di scandire le parole freddamente, senza vibrazioni di voce, facendole cadere come gocce in un pozzo profondo. E, soprattutto, alla dizione andava integrata una recitazione plastica che non corrispondeva alle parole ma in un certo senso le completava.
Due persone parlano del tempo, di arte, di appartamenti. A condizione di essere poco sensibile, una terza persona che li osserva saprà, in base a questo scambio di parole indifferenti, ciò che sono gli interlocutori: amici, nemici o amanti. Infatti, mentre parlano, essi fanno dei gesti, prendono degli atteggiamenti, abbassano gli occhi in una maniera che non corrisponde a ciò che dicono e che permette di definire i loro rapporti reciproci [...]. Docile alla volontà dell’autore, il regista getta un ponte tra lo spettatore e l’attore imprimendo ai movimenti e alle pose degli interpreti il disegno che aiuterà lo spettatore a penetrare il loro dialogo interiore nascosto [...]. Le parole non dicono tutto. La verità dei rapporti tra gli esseri è determinata dai gesti, dalle pose, dagli sguardi, dai silenzi [...]. Le parole si rivolgono alle orecchie, la plastica all’occhio. È dunque sotto l’impulso di impressioni doppie, visive e uditive, che lavora l’immaginazione dello spettatore. La differenza tra il vecchio e il nuovo teatro consiste nel fatto che nel secondo la plastica e la parola sono subordinate ognuna al proprio ritmo, e i due ritmi non sempre coincidono [...].7
Anche se il suo sarà un percorso a zig zag, tutt’altro che lineare, queste idee sono alla base di tutto il lavoro di Mejerchol’d. Per lui, il compito del regista non è quello di illustrare un’opera letteraria ma di sentirne il ritmo interiore e saperlo restituire non attraverso le parole ma tramite la plasticità corporea:
Sono la mimica, le pause, le sospensioni, le espressioni concise, il gesto, le diverse accentuazioni che mettono in luce ciò che il testo non esprime con le parole [...]. Sono i movimenti, i gesti, i giochi di fisionomia dell’attore che informano lo spettatore sui suoi pensieri e i suoi impulsi [...]. Non è la profondità del soggetto della pantomima che commuove lo spettatore, ma la maniera di eseguirlo.8
La continua ricerca e messa a punto di questo ritmo d’insieme è l’elemento costante di Mejerchol’d. Ma all’interno di questa visione si succedono nel suo lavoro diverse fasi sperimentali. La prima nacque in opposizione evidente al naturalismo e fu, su diretto influsso di Maeterlinck, la linea simbolista, la scena di stile. Invece di profusione di dettagli, stilizzazione. Invece di folle individualizzate, gruppi e macchie di colore. Invece di suoni e rumori, musica. Invece di luce da interni, effetti luminosi usati, come da Craig, al posto della scenografia. La recitazione divenne allusiva, volutamente imprecisa. Poiché i movimenti plastici dell’attore erano per Mejerchol’d il principale mezzo espressivo della musica interiore dell’opera, ci voleva una scena che consentisse di concentrare tutta l’attenzione degli spettatori sui movimenti degli attori. Mejerchol’d abbandonò l’uso dei modellini e dispose le figure sulla scena come negli affreschi e nei bassorilievi. Recitando testi oggi dimenticati di Hauptmann, Maeterlinck, Ibsen come una sequela di tableaux vivants, utilizzando uno spazio scenico compreso in un’esile striscia, sull’orlo della ribalta o addossata al fondale, davanti a dei grigi drappeggi che nascondevano i muri del palcoscenico, gli attori si muovevano di profilo come i fanti delle carte da gioco, «slittavano a passo felpato come sul feltro di una foresta»9 tenendo un contegno statuario, passando di posa in posa, con gesti solenni e liturgici, impassibili, come modelli. Una recitazione flemmatica, priva di fuoco, in un’epoca incline a convertire la vita in figurazioni di danza. Riducendo i personaggi a parvenze indifferenziate Mejerchol’d sceglieva i costumi in modo che le figure sembrassero ricamate o dipinte sopra i pannelli, compenetrati alla superficie cromatica come nei quadri di Klimt. Emanava da quegli spettacoli un «clima di presagi e di sogni, la totale rinuncia a riferimenti concreti, il senso dell’ineffabile e delle parole velate». Tutte cose che Mejerchol’d derivò da Maeterlinck. Ma in quel modo di appiattire l’attore su due dimensioni avvicinandosi al silenzio c’era anche evidente l’influsso del cinema muto10.
Nell’autunno 1906 la grande attrice russa Vera Kommissarževskaja, che dal 1904 dirigeva a San Pietroburgo un proprio teatro, ed era in cerca di novità espressive, chiamò a sé Mejerchol’d come regista. Lui, che apprezzava «la gioia di vivere artistica» dell’attrice e la sua capacità di «costruire ruoli con senso musicale»11, accettò quell’incar...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. La messinscena prima del regista
  3. II. Il duca di Meiningene il «Giulio Cesare» di Shakespeare
  4. III. Antoine, «La potenza delle tenebre» di Tolstoj e «La terra» di Zola
  5. IV. Stanislavskij dal «Gabbiano»di Čechov al «sistema»
  6. V. Appia e il «Tristano e Isotta» di Wagner
  7. VI. Craig e il «Didone e Enea» di Purcell
  8. VII. Reinhardt e il «Sogno di una notte di mezz’estate» di Shakespeare
  9. VIII. Mejerchol’d e «Il revisore» di Gogol’
  10. IX. Piscator e «Oplà noi viviamo!» di Toller
  11. X. Brecht e «Madre Coraggio»