Nella spirale tecnocratica
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Nella spirale tecnocratica

Un'arringa per la solidarietà europea

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Nella spirale tecnocratica

Un'arringa per la solidarietà europea

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Gli europei devono riconoscere che il loro modello di Stato sociale e la varietà nazionale delle loro culture possono sopravvivere solo grazie a uno sforzo comune. Rinunciare all'Unione europea significherebbe prendere congedo dalla storia mondiale.L'Unione economica e monetaria è stata disegnata secondo le concezioni ordoliberali del patto di stabilità e progresso. È stata pensata come l'elemento portante di una costituzione economica che avrebbe dovuto stimolare, oltrepassando le frontiere nazionali, la libera concorrenza degli attori del mercato e organizzare regole vincolanti per tutti gli Stati membri, neutralizzando le differenze di competitività esistenti nelle varie economie. Sennonché l'ipotesi che bastasse una libera e regolata concorrenza per raggiungere un benessere egualmente distribuito si è rivelata presto sbagliata. Disattese le condizioni ottimali per una moneta unica, le diseguaglianze strutturali delle varie economie nazionali hanno finito per aggravarsi; e continueranno ancora ad aggravarsi, finché la politica europea non la farà finita con il principio per cui ogni Stato nazionale deve decidere sovranamente da solo, senza guardare agli altri Stati associati.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113028

capitolo secondo. Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea*

* Im Sog der Technokratie. Ein Plädoyer für europäische Solidarität, cap. 5 dell’edizione tedesca.

I

Nella situazione attuale l’Unione europea è sostenuta dall’impegno delle élites politiche. Esse possono contare sul consenso passivo delle loro popolazioni, più o meno distratte, solo nella misura in cui tutti i coinvolti possono attendersi un qualche vantaggio economico. Agli occhi dei cittadini l’Unione si è legittimata più per i risultati raggiunti che non per l’adempimento di una loro esplicita volontà politica. Il che rimanda non solo alla nascita, ma anche alla costituzione giuridica di questa strana costruzione. La Banca centrale europea, la Commissione e la Corte di Giustizia hanno condizionato profondamente, nel corso dei decenni, la vita quotidiana dei cittadini europei, ancorché tali istituti siano quasi del tutto sottratti a un controllo democratico. Quanto al Consiglio europeo dei ministri – che nella crisi attuale ha energicamente preso in mano le redini – esso è composto da capi di governo che, agli occhi dei loro concittadini, vanno nella lontana Bruxelles solo per difendere i loro specifici interessi nazionali. Alla fin fine – si potrebbe pensare – toccherebbe almeno al Parlamento europeo il compito di creare un ponte tra le lotte politiche delle arene nazionali e le fatali decisioni di Bruxelles. Ma su questo ponte non è dato di vedere molto traffico.
Così in Europa si registra un abisso tra la formazione politica dell’opinione e della volontà dei cittadini, da un lato, e le politiche adottate per la soluzione dei vari problemi, dall’altro. Anche per questo motivo, le idee sull’Unione europea e sul suo futuro continuano ad essere assai confuse a livello di popolazione. Opinioni competenti e prese di posizione articolate sul corso dello sviluppo europeo restano ancora faccenda dei politici di professione, delle élites economiche e dei sociologi specializzati; neppure l’intellettuale medio ha finora preso veramente a cuore la faccenda3. Oggi ciò che unisce tutti i cittadini europei sono stati d’animo euroscettici, che – ancorché per motivi opposti – il corso della crisi non ha fatto altro che approfondire e polarizzare. Agli occhi delle élites politiche questo trend rappresenta certo un importante dato di fatto, epperò non abbastanza forte per indurle a sviluppare una politica europea indipendente, sganciata dai conflitti interni delle arene nazionali. Nella politica europea i campi che si confrontano rinviano ai vari programmi politici derivanti dalle controverse diagnosi con cui ogni nazione intende reagire alla crisi. Gli orientamenti prevalenti rispecchiano gli orientamenti politici tradizionali.
I raggruppamenti della politica europea si distinguono secondo delle variabili di comportamento disposte su due dimensioni; si tratta, per un verso, delle valutazioni opposte con cui si guarda al peso degli Stati nazionali in una società mondiale sempre più grande e interdipendente e, per l’altro verso, delle preferenze tradizionali verso un maggiore o minore rafforzamento della politica nei confronti del mercato.
Le due coppie di atteggiamenti – rispetto a come si desidera progettare il futuro dell’Europa – si possono combinare (semplificando in maniera idealtipica) secondo quattro modelli diversi. Tra i difensori della sovranità nazionale, che già giudicano eccessive le decisioni del maggio 2010 sul meccanismo di stabilità europeo (European Stability Mechanism, esm) e lo stesso patto fiscale, noi troviamo da un lato gli ordoliberali, che invocano uno Stato nazionale «leggero», e dall’altro lato i repubblicani e i populisti di destra, che invocano uno Stato nazionale «forte». Per contro, noi troviamo tra i difensori dell’Unione europea, e di una sua crescente integrazione, da un lato i teorici del liberalismo economico (in tutte le sue varianti) e dall’altro lato i propugnatori di un «addomesticamento» soprannazionale degli scatenati mercati della finanza. Se ora vogliamo collocare sul ventaglio destra-sinistra anche le posizioni di quelli che desiderano una politica interventista, allora, tra gli euroscettici, non dobbiamo soltanto contrapporre i già citati vetero-repubblicani e comunitaristi di sinistra ai populisti della destra, ma anche, sul versante degli integrazionisti, gli eurodemocratici ai tecnocratici. Dobbiamo solo stare attenti a non equiparare tout court gli eurodemocratici con gli eurofederalisti, giacché le loro idee sulla democrazia soprannazionale non si riducono al modello di uno Stato europeo federale.
Tecnocratici ed eurodemocratici formano, insieme al liberalismo economico filoeuropeo, l’alleanza di coloro che spingono verso una maggiore integrazione del continente – laddove però solo gli eurodemocratici vogliono un processo di unificazione che elimini quella divaricazione tra «politics» e «policies» da cui nasce il deficit democratico. Tutti e tre i raggruppamenti hanno buone ragioni di appoggiare – sia per convinzione sia nolens volens – le urgenti misure con cui si è cercato finora di stabilizzare la moneta comune. Ma, fondamentalmente, si tratta di un corso che viene perseguito e sostenuto da un ventaglio ancor più ampio di «pragmatisti», che si sono risolti per un comportamento di tipo «incrementalistico». Nel decidere questo corso, i politici al potere si muovono in direzione di «più Europa» senza avere nessuna chiara strategia, volendo solo evitare per il momento l’alternativa, assai più drammatica e verosimilmente costosa, di una rinuncia all’euro.
Tuttavia, all’interno della nostra tipologia, vediamo subito formarsi delle crepe in questa eterogenea alleanza. I pragmatisti, che guidano il corteo, lasciano che siano le «urgenze» più immediate e quotidiane a guidare il loro passo di lumaca, mentre le forze filoeuropee che guardano avanti spingono ognuna in una direzione diversa. Gli accesi sostenitori del mercato vorrebbero allentare i vincoli che ancora limitano la strategia di ri-finanziamento perseguita dalla Banca centrale europea. Gli intervenzionisti, motivati dalla sofferenza dei paesi più in crisi, vorrebbero invece integrare la linea del risparmio forzato, imposta dal governo tedesco, con offensive di investimenti mirati – laddove (tra questi stessi intervenzionisti) i tecnocratici vorrebbero soprattutto rafforzare gli esecutivi mentre gli eurodemocratici coltivano i progetti più diversi di unione politica. Queste tre forze spingono in direzioni opposte quel traballante «status quo» cui i governi disperatamente si aggrappano, nel tentativo di fronteggiare sia il bisogno di legittimazione sia il crescente euroscetticismo.
La dinamica generata da queste opposte motivazioni lascia intuire che l’esistente alleanza degli europeisti è destinata a saltare non appena i problemi irrisolti chiederanno di essere proiettati e affrontati in un orizzonte temporale più ampio. Per approfondire istituzionalmente l’unione economica e monetaria, la Commissione, il presidente del Consiglio europeo dei ministri e la Banca centrale europea hanno già elaborato un piano d’azione che tradisce l’insoddisfazione per il modo di procedere fin qui seguito. In un primo momento i capi di governo dell’eurozona hanno sollecitato questo piano, ma subito dopo l’hanno di nuovo rinviato alle calende greche, in quanto evidentemente non se la sentono di trasferire ufficialmente a livello europeo diritti di sovranità. Alcuni sono trattenuti da una sorta di fedeltà vetero-repubblicana verso il loro Stato nazionale, altri sono mossi dall’opportunismo di chi non vuole mollare posizioni di potere. Il motivo che però lega insieme tutti questi pragmatisti è quello di evitare a tutti i costi una nuova modifica dei trattati. Altrimenti sarebbe la stessa gestione politica a dover cambiare profondamente e l’Unione europea si trasformerebbe da progetto d’élites in una forma di cittadinanza4.

II

Le tre istituzioni europee che, distanti come sono dalle opinioni pubbliche nazionali, risultano meno soggette ad obblighi di legittimazioni – e che nel gergo di Bruxelles vengono chiamate semplicemente «the institutions» –, vale a dire la Commissione, la presidenza del Consiglio e la Banca centrale europea (bce), alla seduta del Consiglio del 13-14 dicembre 2012 hanno presentato delle proposte che rappresentano una sintesi, diplomaticamente semplificata, di un progetto di riforma pubblicato dalla Commissione qualche giorno prima5. È il primo e unico documento dettagliato in cui l’Unione europea sviluppi una prospettiva di riforme a medio e lungo termine, che vadano al di là del semplice procrastinare una risposta alle situazioni di crisi. In questo allargato orizzonte temporale non si ricapitola soltanto quella contingente situazione di cause che, a partire dal 2010, ha prodotto l’intreccio della crisi bancaria mondiale con la crisi dei debiti statali e con la fatale spirale tra bisogno di ri-finanziamento da parte degli Stati europei e mancanza di capitale da parte delle banche; piuttosto viene anche tematizzata quella catena strutturale di cause ed effetti che, a partire dal passato, ha prodotto gli squilibri macroeconomici dell’Unione monetaria.
L’Unione economica e monetaria fu disegnata negli anni Novanta secondo le concezioni ordoliberali del patto di stabilità e progresso. Fu pensata come l’elemento portante di una costituzione economica che avrebbe dovuto stimolare, oltrepassando le frontiere nazionali, la libera concorrenza degli attori del mercato e organizzare regole vincolanti per tutti gli Stati membri6. Pur venendo a mancare, all’interno della comunità monetaria, lo strumento della svalutazione per le singole valute, le differenze di competitività esistenti nella varie economie nazionali avrebbero dovuto, poco alla volta, essere neutralizzate. Sennonché l’ipotesi che bastasse una libera e regolata concorrenza per raggiungere livelli salariali tra loro paragonabili, nonché un benessere egualmente distribuito – tanto da rendere superflua ogni formazione collettiva della volontà circa misure politiche su fisco, bilancio ed economia –, si rivelò presto una ipotesi sbagliata. Disattese le condizioni ottimali per una moneta unica, le diseguaglianze strutturali delle varie economie nazionali hanno finito per aggravarsi; e continueranno ancora ad aggravarsi, finché la politica europea non la farà finita con il principio per cui ogni Stato nazionale deve decidere sovranamente da solo – senza guardare agli altri Stati associati – nelle questioni di politica fiscale, di bilancio ed economica7.
A parte qualche occasionale concessione, il governo tedesco si è sempre attenuto a questo dogma. La riforme fin qui decise non hanno infatti mai intaccato – quanto meno sul piano giuridico ufficiale – le sovranità degli Stati. Lo stesso vale per a) il rafforzato controllo sulle leggi nazionali di bilancio, b) l’istituzione di strumenti di credito in favore degli Stati indebitati (esfs-European System of Financial Supervision, esm), c) l’organizzazione di un’unione bancaria sotto il controllo della Banca centrale europea. Soltanto i piani messi in cantiere per regolare il fallimento delle banche insolventi, istituire fondi bancari assicurativi sul piano transnazionale e decidere una tassa sulle transazioni finanziarie possono essere visti come i primi passi verso un esercizio collettivo delle singole sovranità nazionali.
Solo il Konzept – il progetto di riforma della Commissione prima ricordato e subito messo in frigorifero – mostra di affrontare la vera causa della crisi, vale a dire l’errore di avere costruito una unione monetaria senza abbandonare l’idea di una associazione di Stati sovrani (i cosiddetti «signori dei trattati»). Al termine di un tortuoso percorso di riforma, della durata di almeno cinque anni, questo progetto vorrebbe realizzare tre obbiettivi sostanziali (alquanto fumosamente descritti). Primo: una formazione collettiva della volontà politica a livello europeo, passando attraverso il coordinamento delle politiche fiscali, di bilancio ed economiche8. Con ciò si impedirebbe alle politiche di uno Stato di scaricare costi esterni negativi sull’economia di un altro Stato. Secondo: una partita europea di bilancio – dotata di autonomia finanziario-amministrativa – per favorire specifici programmi nazionali (o regionali) di sviluppo. Con ciò si creerebbe uno spazio per investimenti pubblici, finalizzati a combattere gli squilibri strutturali dell’Unione monetaria. Terzo: prestiti e fondi in euro per estinguere i debiti e consentire una parziale «messa in comune» dei debiti degli Stati. Con ciò la bce verrebbe sollevata dal compito, che si è provvisoriamente accollato, di porre argini alla speculazione scatenata contro singoli Stati dell’eurozona.
Questi obbiettivi sarebbero raggiungibili solo dal momento in cui si accettassero, nel quadro dell’Unione monetaria, dei trasferimenti di denaro che producano effetti redistributivi sul piano transnazionale. A questo punto diventa necessaria una legittimazione giuridico-costituzionale quale solo una unione politica portata fino in fondo potrebbe offrire. La proposta della Commissione tira in ballo il Parlamento europeo, osservando – giustamente – che per dare legittimità democratica alle decisioni della ue non è sufficiente «una più stretta collaborazione dei parlamenti nazionali»9. Per l’altro verso, la Commissione tiene conto delle riserve espresse dai capi di governo, e procede secondo il principio di sfruttare al massimo il Trattato di Lisbona, vale a dire organizzando il trasferimento di competenze – dal piano nazionale al piano europeo – nella maniera più strisciante e discreta possibile. La modifica dei trattati dev’essere rimandata al termine del periodo delle riforme10. I nuovi strumenti per incentivare ...

Indice dei contenuti

  1. capitolo primo. Tre ragioni per «più Europa»*
  2. capitolo secondo. Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà europea*
  3. capitolo terzo. Il dilemma dei partiti*
  4. capitolo quarto. Democrazia o capitalismo?*
  5. capitolo quinto. Il prossimo passo. Una intervista*
  6. capitolo sesto. Heine contemporaneo. «Ora non ci sono più nazioni in Europa»*
  7. Nota del traduttore