Oltre ogni ragionevole dubbio
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Oltre ogni ragionevole dubbio

Decidere in tribunale

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Oltre ogni ragionevole dubbio

Decidere in tribunale

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In un dialogo continuo fra teoria e ricerca sul campo, Oltre ogni ragionevole dubbio analizza le forme, i modi, i possibili inciampi dello sviluppo decisionale in ambito giuridico. È un'indagine approfondita del complesso percorso mentale del giudice che conduce alla sentenza; un viaggio per comprendere come si stabilisce il verdetto. Che non è immune dall'ombra del dubbio e dell'incertezza ma è frutto dello sforzo di ricostruire i fatti nel modo più coerente e sensato, con il minore margine d'errore possibile.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858106969

1. Decidere

1.1. Ragionare con le informazioni che la nostra mente ha a disposizione

Molto spesso gli individui stimano la probabilità o la frequenza di un evento basandosi sulla facilità con cui riescono a pensare a eventi simili: più facilmente un evento può essere ricordato o immaginato, più verrà ritenuto frequente. Così, se in memoria abbiamo molti esempi di un determinato evento, è legittimo concludere che quell’evento accade con una certa regolarità. Questo tipo di processo, che di fatto è non solo naturale, ma estremamente funzionale, incontra alcune difficoltà e può produrre delle imprecisioni, se non proprio degli errori, legate ad alcune caratteristiche della memoria che influenzano il recupero delle informazioni. Si potrebbe dire che la memoria ha alcune «preferenze» che fanno sì che alcuni elementi o ricordi vengano recuperati molto meglio di altri. La memoria «seleziona» i ricordi piuttosto che procedere «metodicamente» al recupero di tutte le informazioni possibili che pure può possedere. Sicuramente, i fatti salienti della propria vita o quelli che appartengono alla storia personale hanno la supremazia, ma anche la vividezza di un evento può portare quell’informazione nel primo piano della scena mnestica. Se uno dei miei amici ha avuto un brutto incidente in cui ha rischiato la vita perché non indossava le cinture di sicurezza, sarò portato a pensare che spesso gli incidenti hanno esiti molto gravi a causa di questa dimenticanza; se un fulmine colpisce l’antenna del mio televisore, penserò che quando c’è un temporale è abbastanza probabile che possa succedere un evento del genere. Analogamente, se un giudice ha appena subìto un’aggressione nella sua casa da parte di una banda di rumeni, sarà portato a pensare che, in un caso di rapina in villa, sia più probabile che gli autori provengano dall’Est anziché dall’Italia. Se nella sua esperienza giudiziaria si è trovato frequentemente in procedimenti contro cittadini colombiani per spaccio di droga, sarà portato a sovrastimare la probabilità che l’ennesimo cittadino colombiano sia di fatto colpevole in un caso di detenzione e spaccio di cocaina.
Questo tipo di ragionamento, definito euristica della disponibilità, oltre a essere sensato, è anche «economico»; tuttavia può essere fonte di decisioni o giudizi imprecisi o addirittura scorretti. Possono venire coinvolti in questa euristica tutti quei processi che sono preceduti da una campagna mediatica massiccia (pensiamo, in Italia, a casi come quelli di Sarah Scazzi o Amanda Knox). In simili situazioni è estremamente difficile che il giudice o i giurati riescano a ignorare informazioni, emozioni, articoli, interviste, che spontaneamente sono presenti in memoria e che possiedono, oltretutto, caratteristiche di vividezza, salienza e recenza. È ovvio che il giudice, nel suo lavoro, non dovrà tenere conto delle informazioni pre-processuali e che molto spesso sarà anche in grado di farlo, ma l’elemento importante, cognitivamente, è che la mente del giudice avrà «disponibili» elementi che si dovrà sforzare di non considerare ma che, fisiologicamente, entrerebbero a far parte del suo processo decisionale. In una sua ricerca, Vidmar (2002) descrive un caso esemplare avvenuto nel 1997 a Kingston, una cittadina di 160.000 abitanti in Ontario (Canada). Una donna di nome Reynolds viene accusata dell’omicidio della figlia di 7 anni. Nei 24 mesi successivi al fatto, il giornale locale pubblica 48 articoli sul caso, aggiungendo argomenti, molto particolareggiati, a sostegno dell’accusa: ad esempio, la convinzione che la donna abbia colpito in testa la piccola per 84 volte, descrivendo in dettaglio la vita della bambina, tragicamente costellata di abusi, e aggiungendo numerose considerazioni negative sulla personalità della donna. L’ipotesi difensiva, che la bambina sia stata uccisa da un pit-bull trovato vicino alla scena del crimine e ricoperto di sangue, peraltro corroborata da due periti, non viene mai pubblicata dai giornali. Il procedimento viene ritardato per ragioni legali, ma ancora un anno dopo l’opinione pubblica viene infiammata da una notizia pubblicata sui giornali: la donna, che ha ucciso brutalmente la figlia, ha avuto cinque figli da cinque uomini diversi e, nel periodo in cui è avvenuto l’omicidio, era sotto indagine da parte di una società di aiuto all’infanzia. Il rancore pubblico cresce ancora di più quando viene pubblicata una poesia che la donna ha scritto per la sua bambina nell’anniversario della sua morte. La rabbia e l’ostilità della gente diventano così forti che la polizia locale manifesta forte preoccupazione per l’incolumità della donna nei suoi spostamenti al commissariato. Nel 1999 viene riesumato il corpo della piccola e due periti del tribunale trovano numerosi riscontri a favore dell’ipotesi difensiva. Lo stesso perito dell’accusa ammette l’errore compiuto precedentemente e ritratta le prime conclusioni. La riesumazione e i risultati delle analisi vengono riportati dal giornale nazionale, ma non da quelli locali.
Nel 2002 Vidmar conduce una ricerca sulla popolazione per verificare se i sentimenti di rabbia e ostilità siano ancora presenti o meno. La maggior parte degli intervistati ricorda molto bene il fatto ed è anche in grado di fornire dettagli in merito. Alcune risposte alle domande poste dall’intervistatore sono particolarmente interessanti: «Se la Reynolds venisse processata e la giuria la giudicasse innocente, come giudicherebbe il verdetto?». Il 35% lo trova inaccettabile e il 20% esplicita forti dubbi. «Supponiamo che lei faccia parte della giuria e che il giudice dica che l’accusa sosterrà la colpevolezza, ma anche che lei ha il dovere di ascoltare ed esaminare tutte le prove, di essere imparziale e di essere quindi disposto a considerare sia la colpevolezza che l’innocenza. Tenuto conto di tutto ciò che lei sa del caso e della sua posizione in merito, ritiene di poter essere un giudice imparziale?». Il 72% risponde di essere in grado di essere imparziale, il 23% prevede di non esserlo e il 5% è incerto.
La vistosa discrepanza fra le due risposte è dovuta, fra le altre cose, all’euristica della disponibilità: le informazioni ricevute dalla stampa sono ancora così vivide che riescono a prevalere, in alcuni casi, e forse inconsapevolmente, sull’aspetto razionale della consapevolezza della imparzialità del giudice.
Sempre a proposito della vividezza delle informazioni e della sua capacità di garantire una più facile e rapida «revocabilità» di ricordi presenti in memoria, è interessante un lavoro di Reyes, Thompson e Bower del 1980, in cui a un gruppo di persone veniva presentato il caso giudiziario di un uomo che, di ritorno da una festa, si era scontrato con un camion, non avendo rispettato lo stop. Il tasso alcolemico non viene rilevato subito ma, nonostante la difesa sostenga che l’uomo non era ubriaco, questi viene arrestato. A coloro che partecipavano all’esperimento furono presentate una serie di prove, sia dell’accusa sia della difesa, che differivano fra di loro in vividezza e che potrebbero essere definite «forti» o «deboli» in funzione della loro capacità di suscitare un’immagine intensa del fatto accaduto. Ad esempio, la versione «forte» dell’accusa tentava di far apparire l’uomo completamente ubriaco, descrivendolo barcollante su un marciapiede, mentre urtava il tavolino di un bar, facendo cadere tutto ciò che c’era sopra; mentre la versione «forte» della difesa puntava sul colore scuro del camion, che di notte si sarebbe visto male, e sulla stessa testimonianza del camionista che riconosceva che il colore del suo camion in effetti era grigio e che lo aveva scelto perché in grado di mimetizzare lo sporco. Le versioni «deboli», sia dell’accusa sia della difesa, erano formulate con termini più neutrali e dunque non producevano, nella mente di chi ascoltava, nessuna immagine particolarmente vivida o lucida. Naturalmente si era fatto in modo che il grado di vividezza delle argomentazioni non modificasse il valore probatorio delle dichiarazioni. Successivamente, queste persone dovevano valutare l’importanza di ognuna di queste prove, e infine rispondere a tre domande relative alla probabilità di colpevolezza dell’imputato. Queste stesse persone venivano poi richiamate dopo due giorni e veniva chiesto loro quante prove ricordavano, il loro valore probatorio e, di nuovo, dovevano rispondere alle stesse tre domande precedenti sulla colpevolezza dell’imputato. Questa procedura ha fornito risultati particolarmente interessanti: le persone rammentavano maggiormente le argomentazioni vivide, e in particolare quelle che erano in contrasto con la descrizione che dell’accusato era stata fornita, cioè quelle che mettevano in contrapposizione alcuni particolari della scena (barcollante, urta un tavolino) con l’immagine dell’imputato (sobrio), come se fossero più facili da ricordare le informazioni vivide e incongruenti. Ciò, però, influiva anche sui giudizi di colpevolezza, nel senso che le persone tendevano a basarsi solo sulle informazioni che venivano loro in mente, cioè quelle vivide, soprattutto se non coerenti con l’immagine data dell’imputato e ciò le portava a modificare il giudizio di colpevolezza/innocenza espresso precedentemente, come se le dichiarazioni «incongruenti» risaltassero di più, in quanto maggiormente informative, rispetto a quelle congruenti con le aspettative: e così, ad esempio, la versione «forte» dell’accusa, contro l’imputato sobrio, tendeva a produrre un maggior numero di giudizi di colpevolezza. Inutile ricordare, naturalmente, che i fatti erano che non era stato rispettato lo stop e l’eventuale rilevazione del tasso alcolemico.
La rilevanza delle informazioni «vivide» è stata riconfermata anche in un altro lavoro (Bensi, Nori, Strazzari e Giusberti, 2003) nel quale i partecipanti giudicavano non colpevole un imputato quando il testimone forniva un racconto neutrale della scena del crimine, mentre non erano in grado di decidere sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato quando la medesima scena, cioè lo stesso elemento probatorio, era descritta con termini vividi e intensi.
Dunque, questo lavoro ha messo in luce che la «disponibilità» di un argomento non è l’unica determinante dell’impatto sulla decisione; alle argomentazioni pro e contro la colpa dell’imputato viene assegnata una certa forza; indipendente da questa forza, la «ricordabilità» dell’argomentazione viene influenzata dalla vividezza, dalla particolarità dell’informazione e dalla sua congruenza o incongruenza con l’immagine dell’imputato.

1.2. Decidere quanto è probabile un certo evento

Quando si deve giudicare la probabilità di un certo evento, può accadere che venga usata la cosiddetta euristica della rappresentatività. In questo caso le persone tendono a fondare la loro decisione in base a quanto quell’episodio è simile a una classe più ampia di eventi analoghi. Anche in tal caso non si può affermare che questo strumento cognitivo conduca sempre a errori, perché, al contrario, permette a ogni individuo di ordinare e organizzare tutte le informazioni in concetti, e di «catalogare» gli eventi, gli oggetti e le esperienze in un modo economico. Se, rispetto a ogni stimolo o informazione che proviene dall’esterno, fosse necessario, ogniqualvolta esso si presenta, doverlo «imparare» e acquisire, senza riferimenti già presenti nella nostra struttura cognitiva, avremmo un dispendio di lavoro mentale enorme: se, tutte le volte che vediamo un cane, non avessimo già presente, in memoria, il concetto di cane come quadrupede, mammifero, e animale domestico, dovremmo metterci nelle condizioni di apprendere ogni informazione come se fosse nuova tutte le volte. È ovvio che questa capacità di ordinare il mondo e di «concettualizzarlo» rappresenta un importante strumento di sopravvivenza, in un caos di stimolazioni che altrimenti diventerebbe ingestibile. Ma questo processo spontaneo di categorizzazione a volte può diventare, anche in ambito giuridico, fonte di errori.
Se, ad esempio, bisogna giudicare sulla probabilità che una giovane donna sia stata stuprata, si tenderà a valutare la probabilità che l’evento sia avvenuto anche sulla base di quanto le caratteristiche della giovane donna «coincidono» con le caratteristiche usuali di una giovane donna stuprata. Assumendo che, abitualmente, una vittima di abuso mostri, ad esempio, segnali evidenti di depressione, di ansia e di vergogna, e, se messa a confronto con l’imputato, un comportamento di paralisi, timoroso o aggressivo, verrà giudicato più probabile che l’evento stupro si sia realmente verificato qualora la vittima presenti questi segnali; meno probabile se la vittima si mostra sicura di sé e senza particolari turbamenti o imbarazzi o se manifesti, nei confronti dell’imputato, un atteggiamento indifferente o addirittura tranquillo.
Il motivo per cui questo processo ragionativo, certamente utile in alcuni casi, in quanto «economico», può essere invece foriero di errori in altre situazioni è che viene «accorciato» il processo indagatorio di ricerca delle prove, siano esse a carico che a discarico, per essere sostituito da un giudizio di «bontà del confronto» di quanto quell’evento «corrisponda» alla categoria generale dell’evento stesso. Detto in altri termini, di quanto quell’evento «stupro» coincida, per tipologia e caratteristiche, con la categoria generale dell’evento «stupro». Se quell’evento singolo non assomiglia alla categoria generale, è probabile che il processo decisionale del giudice sia più abbreviato o frettoloso di quanto dovrebbe essere, nella ricerca di elementi probatori a carico dell’imputato.
Regan e Baker (1998) hanno condotto un lavoro molto interessante, dimostrando come il comportamento di un bambino-testimone possa influenzare la giuria, sia rispetto al bambino stesso sia rispetto alla colpevolezza dell’imputato. È stato chiesto a un gruppo di persone di descrivere ed elencare una serie di atteggiamenti e di reazioni emotive di un bambino che, vittima di un abuso, si dovesse trovare in aula alla presenza del suo aggressore, e si è rilevato che le risposte significativamente prevalenti erano il pianto, la paura e la confusione. Una volta identificate queste caratteristiche, si è proceduto a una seconda fase in cui si è studiato l’impatto della presenza/assenza di una di queste «risposte previste» sulla percezione dei giurati, ed è stato dimostrato che un bambino che piange di fronte al suo assalitore è giudicato essere un bambino più affidabile, onesto e credibile di un bambino che non lo fa. Oltre a questo, e di conseguenza, i giurati erano più propensi a giudicare l’imputato colpevole in presenza dei comportamenti «rappresentativi» dell’abuso di quanto non lo fossero in assenza di essi.
Sempre in quest’area di ricerca, in un altro lavoro di Golding e colleghi (2003) si è visto che così come l’assenza di alcuni comportamenti ritenuti rappresentativi dell’abuso può interferire sul giudizio di sincerità e affidabilità del bambino, e dunque sulla probabilità di colpevolezza dell’imputato, così anche la presenza «eccessiva» di tali comportamenti, in particolare il pianto, può condurre i giurati alle medesime conclusioni: il bambino è meno credibile. Apparentemente, sembra esistere un range piuttosto ristretto di reazioni emotive che vengono considerate rappresentative o prototipiche di un bambino abusato, se posto in presenza del suo aggressore.
Ma nell’euristica della rappresentatività è spesso coinvolto anche l’uso degli stereotipi che sono, naturalmente, cosa diversa dai prototipi. Lo stereotipo, fortemente legato al pregiudizio, si riferisce a un insieme di opinioni su una classe di individui o di gruppi che si basano su rappresentazioni semplificate di alcune caratteristiche della classe.
Se ci viene fornita la descrizione di un individuo ritenuto responsabile di un reato, riteniamo questa possibilità molto probabile se la descrizione corrisponde, con un livello elevato di plausibilità, al prototipo, che molto spesso è trasformato in stereotipo, di cui quella rappresentazione costituisce una caratteristica saliente: detto in altri termini, quanto più riteniamo che il comportamento osservato sia rappresentativo della classe o categoria di individui da cui è tratto, tanto più riterremo probabile la correttezza dell’attribuzione.
Supponiamo che si sia verificato un furto in un appartamento, che siano stati rubati tutti i gioielli, eccetto le perle, e che nei pressi ci sia un campo di nomadi. Anche in mancanza di prove o di indizi, saremo portati inevitabilmente a pensare, se non a essere certi, che il responsabile del furto sia un nomade, giacché nello stereotipo del nomade una delle caratteristiche, peraltro salienti, è l’attività di rubare, e in più una voce popolare dice che i nomadi non rubano mai le perle perché «portano lacrime».
Se un determinato comportamento viene considerato come molto rappresentativo di un prototipo, è molto facile valutarlo come estremamente probabile e farlo diventare, di conseguenza, uno stereotipo. Questa nostra tendenza naturale a fare previsioni intuitive sulla base della corrispondenza fra la personalità o il comportamento di un individuo e lo stereotipo che abbiamo della classe o categoria a cui quell’individuo appartiene (nomade-ladro, meridionale-truffatore, ebreo-avaro, bambino-innocente...) è conosciuta molto bene, e spesso sfruttata, in sede processuale, sia da parte dell’accusa sia da parte della difesa. Per questo motivo, legittimamente, il sistema giuridico ha introdotto la non ammissibilità, come prova, «dell’evidenza dei tratti» della personalità di un individuo (Saks e Kidd, 1980-1981).
L’attivazione di uno stereotipo fa sì che il giudice o il giurato tenda a selezionare le prove coerenti con lo stereotipo e a concentrare su di esse maggiore attenzione e interesse, con la conseguenza di sottovalutare, o addirittura eliminare, elementi non congruenti con lo stereotipo (Bodenhausen, 1988). La semplice indicazione del nome di un imputato (Carlos Ramirez vs. Robert Johnson) è stata sufficiente ad attivare, in un campione di giurati simulati, uno stereotipo razziale, che ha avuto un effetto selettivo sui dati disponibili (si veda anche il capitolo 3).
Che l’utilizzo dell’euristica della rappresentatività possa «interferire» sulla accuratezza di un giudizio probabilistico del giudice può essere rilevato anche in un altro fenomeno, strettamente collegato a essa, e definito fallacia della frequenza di base. Questa fallacia si riferisce al caso in cui si giudichi la probabilità di un evento senza tenere conto di quanto frequentemente quello stesso evento accade. Questo tipo di fallacia viene trattato in un lavoro di Tversky e Kahneman (1980) con un problema molto noto: il «problema del taxi».
In una città ci sono due compagnie di taxi, quelli blu e quelli verdi. I blu rappresentano l’85% dei taxi circolanti, il restante 15% è verde. Una notte, un taxi è coinvolto in un incidente e fugge senza prestare soccorso; un testimone dichiara che si trattava di un taxi verde. Tramite una prova di acuità visiva, viene dimostrato che il testimone, nelle stesse condizioni di luminosità e distanza, è in grado di distinguere la differenza tra quelle tonalità di blu e di verde nell’80% dei casi. Qual è la probabilità che il taxi visto dal testimone fosse verde? La maggior parte delle persone risponde «l’80%», incappando nella fallacia della frequenza di base: considera cioè solo la forza dell’evidenza testimoniale, senza tener conto della probabilità a priori che il taxi sia verde, e cioè del fatto che i taxi verdi, in città, sono molto meno di quelli blu; seguendo la strategia corretta di calcolo della probabilità, il valore corretto sarà del 41%.
Una situazione più quotidiana, ma dai risvolti drammatici, viene descritta da Thompson e Schumann (1987): si tratta di un caso giudiziario in cui, in una separazione conflittuale, la moglie accusa il marito di presunti abusi ai danni della loro figlia; tutti i testimoni, compresa la moglie, affermano che il marito è sempre stato un ottimo genitore, molto premuroso e attento all’educazione della figlia. L’unica p...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Decidere
  3. 2. I percorsi mentali che conducono alla sentenza
  4. 3. La disparità di sentenze
  5. 4. Ricerca scientifica e giustizia: due esperimenti di psicologia forense
  6. 5. Il percorso che conduce alla sentenza: la decisione del giudice in un caso reale
  7. Riferimenti bibliografici