Capitolo sedicesimo.
La Chiesa e i poveri
di Armand Puig i Tàrrech
1. Il Concilio Vaticano II:
da papa Giovanni a papa Montini
L’11 settembre 1962 papa Giovanni pronunciò un’allocuzione che era il grande prologo al Concilio Vaticano II, inaugurato un mese dopo. In essa si leggeva che «la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Questa affermazione, rapportata in quel contesto ai paesi sottosviluppati, aveva uno slancio profetico che guardava oltre. Era qualcosa che apparteneva all’identità stessa della Chiesa e si muoveva in una precisa cornice ecclesiologica. Infatti, il 20 ottobre, pur in un clima di incertezze e forti dibattiti interni i padri conciliari rivolgevano un messaggio ad universos homines, in cui si sottolineava la preoccupazione speciale dell’assemblea conciliare per «i più umili, più poveri, più deboli», riecheggiando così l’impatto delle parole del papa nel suo radiomessaggio.
Sarebbe stato poi il cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, a prendere su di sé il tema della Chiesa dei poveri e, nel suo noto intervento nell’aula conciliare del 6 dicembre 1962, ad allargare teologicamente l’idea di papa Roncalli proponendo che fosse l’idea dominante di tutta l’ecclesiologia conciliare e pure della cristologia sottostante. Riprendendo la frase del radiomessaggio del papa, Lercaro sottolinea la prospettiva cristologica e scrive: «Il mistero di Cristo nella Chiesa sempre è stato ed è, ma oggi è particolarmente, il mistero di Cristo nei poveri [...] l’annuncio dell’evangelo ai poveri», un annuncio visto come una sintesi riassuntiva di tutta la vita di Gesù, dalle profezie riguardanti il Messia dei poveri al Regno di Dio, presente ma anche promesso nella venuta escatologica del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi.
Su questa base cristologica, di chiara impostazione biblica, il testo di Lercaro, elaborato con Giuseppe Dossetti, suo teologo conciliare, si addentra nelle conseguenze ecclesiologiche, che si possono riassumere in questa frase programmatica: «Il tema del Concilio [dovrebbe essere] la Chiesa, in quanto particolarmente Chiesa dei poveri». Questa Chiesa, chiamata a comunicare il Vangelo, dovrebbe riflettere il volto del Messia povero, l’Unto del Signore, e vivere come Chiesa povera. Questo significa, secondo Lercaro, che la Chiesa deve distogliersi da una prassi moralistica o sociologica o istituzionale o filantropica o puramente ascetica, ed entrare nel mistero di Cristo, nel quale «la povertà è un aspetto essenziale e primario». Come sottolinea Joan Planellas, commentando l’intervento del card. Lercaro, «il mistero della Chiesa altro non è che il mistero di Cristo povero». E questo mistero affonda le sue radici nel disegno salvifico di Dio che si è manifestato con l’incarnazione del Verbo nella debolezza della nostra carne.
Riassumendo la proposta teologica di Lercaro, la presenza di Cristo nei poveri e la sua identificazione con loro (cfr. Matteo 25,40) devono orientare la missione della Chiesa, che riprende la missione messianica di Cristo e deve essere Chiesa dei poveri. Questa espressione ha due sbocchi. In primo luogo, una Chiesa dei poveri è chiamata ad essere Chiesa per i poveri, cioè a evangelizzarli, a comunicare loro il Vangelo del Regno, in cui questi hanno un posto di onore e – possiamo aggiungere – a lasciarsi evangelizzare da loro. In secondo luogo, essere Chiesa dei poveri significa essere una Chiesa povera, che vive imitando Gesù povero senza lasciarsi prendere dal fascino della ricchezza. Sono due dimensioni che appariranno nel pensiero di papa Francesco.
Tuttavia il Concilio non fece sua la proposta di Lercaro e preferì invece la strada ecclesiologica dettata dai cardinali Suenens e Montini, quella che si cristallizzò in due documenti: la Lumen gentium sul mistero della Chiesa e lo schema 13 (la futura Gaudium et spes) sui rapporti tra Chiesa e mondo. Ma durante il Concilio fu molto attivo un gruppo, informale e numeroso, di padri ed esperti, con altre persone esterne ma influenti nell’aula, chiamato «gruppo della Chiesa dei poveri». Questo gruppo si riuniva nel Collegio Belga di Roma. L’iniziativa proveniva da Paul Gauthier, sacerdote francese, antico membro delle fraternità di Charles de Foucauld e in quel 1962 prete operaio a Nazareth, che si spostò a Roma e vi trascorse tutto il Concilio. Gauthier sosteneva che i poveri dovessero prendere coscienza dei propri diritti e della propria liberazione attraverso il Vangelo di Gesù. Questo punto di partenza, come si vedrà, avrebbe accompagnato anche gli inizi della teologia della liberazione latinoamericana. Parecchi vescovi dell’America Latina ma anche di Africa e Asia, nonché europei, tutti desiderosi di una Chiesa più vicina ai poveri, parteciparono al gruppo. Nel suo opuscolo Jésus, l’Église et les pauvres, Gauthier inserisce riflessioni bibliche sui profeti e su Gesù riguardo alla povertà, e allo stesso tempo denuncia una Chiesa ricca che non si identifica con Gesù di Nazareth, «il falegname, e attraverso di lui con tutto il mondo del lavoro, con il popolo dei poveri e degli operai». L’approccio sociale e sistemico, non privo di una certa emotività, non permise al gruppo, condizionato da un’esposizione eccessiva ai media, di fare i conti necessari con la dimensione teologica del tema dei poveri. Questi limiti si faranno sentire largamente.
Il lavoro del gruppo della «Chiesa dei poveri» fu integrato in parte nel Rapporto Lercaro, che il cardinale consegnò a Paolo VI pochi giorni prima della fine della terza sessione del Concilio (19 novembre 1964), con il titolo Appunti sul tema della povertà nella Chiesa. Rapporto al papa. Questo documento, nella sua stesura finale, era stato redatto da Giuseppe Dossetti e dalla cosiddetta «Officina bolognese». Il suo punto centrale è la critica della società opulenta che con la sua adorazione neopagana dei beni materiali annulla il senso del sacro e produce una decadenza spirituale dell’uomo. Perciò occorre un «rovesciamento teologale della impostazione moralistica» che blocchi sia la società opulenta sia l’ateismo marxista. È urgente che la Chiesa recuperi il senso «teologico» della povertà quale scaturisce dal piano divino libero e gratuito (la rivelazione di Dio in Gesù si è fatta nel segno della povertà!) per raggiungere tutti i cristiani, discepoli di Gesù incarnato e abbassato sino alla croce. C’è un Vangelo sulla povertà che bisogna approfondire nel senso di leggere la prima beatitudine come quella che è rivolta «a chi abbia la condizione oggettiva di povero, di escluso, di diseredato di questo mondo, vissuta per altro con intimo religioso abbandono al piano divino». La lettura teologica, con le sue applicazioni pratiche, porta a scartare un approccio meramente etico e sociologico al tema della povertà. Si noti che il tema della Chiesa e i poveri, così presente nell’intervento conciliare del card. Lercaro del 6 dicembre 1962, resta in questo documento in secondo piano.
Riguardo ai documenti del Vaticano II, occorre dire che il tema della Chiesa e i poveri non vi è molto presente con riferimenti espliciti. Le elaborazioni delle due citate piattaforme di pensiero – Lercaro, Dossetti e il gruppo di Bologna da una parte, il gruppo della «Chiesa dei poveri» e del Collegio Belga dall’altra –, pur trovando consensi fra i padri conciliari e, forse ancora di più, nei media, trova nel Concilio ridotta eco in due testi maggiori: Lumen gentium 8, Ad gentes 5. Gli altri testi, una sessantina, in cui appaiono le parole pauper e paupertas nelle loro varianti, si limitano a fissare i doveri della Chiesa e dei cristiani riguardo ai poveri e agli emarginati della terra.
Nel terzo paragrafo della Lumen gentium [LG], testo dovuto a Jacques Dupont e proposto da mons. Ancel, la povertà evangelica si presenta come costitutiva della Chiesa e del suo mistero. Essa è fondata sulla povertà di Cristo e sul suo atteggiamento dinanzi ai poveri. Il Concilio riconosce dunque che c’è un rapporto intrinseco tra Chiesa e povertà, e che questo rapporto sgorga da Gesù, nella misura in cui costui è vissuto nella povertà e si è most...