Lo schiavo
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Lo schiavo

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L'antichità greco-romana intrattiene rapporti privilegiati con la nostra sensibilità contemporanea. Secondo un sentimento generale, la nostra civiltà ha ereditato dai Greci e dai Romani i suoi caratteri più specifici, prendendo costantemente in prestito da loro temi filosofici e letterari o forme estetiche. Questa familiarità è tuttavia contraddetta da pratiche che introducono, in quella che viene considerata come la civiltà per eccellenza, un profondo segno di barbarie. A distanza, questa giustapposizione è concepita come una contraddizione insormontabile. Come è possibile inventare la filosofia, la politica, costruire monumenti che incarnano perfettamente questi nuovi valori e, contemporaneamente, fare combattere la gente nell'anfiteatro o ridurre in schiavitù parte dell'umanità?Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100356
Argomento
History

Lo schiavo

L’antichità greco-romana intrattiene rapporti privilegiati con la nostra sensibilità contemporanea. Secondo un sentimento generale, la nostra civiltà ha ereditato dai Greci e dai Romani i suoi caratteri più specifici, prendendo costantemente in prestito da loro temi filosofici e letterari o forme estetiche. Questa familiarità è tuttavia contraddetta da pratiche che introducono, in quella che viene considerata come la civiltà per eccellenza, un profondo segno di barbarie. A distanza, questa giustapposizione è concepita come una contraddizione insormontabile. Come è possibile inventare la filosofia, la politica, costruire monumenti che incarnano perfettamente questi nuovi valori e, contemporaneamente, fare combattere la gente nell’anfiteatro o ridurre in schiavitù parte dell’umanità?
Questa contraddizione non è superficiale. Se la libertà politica – vale a dire il fatto che la nozione di cittadino prevale su quella di suddito – appare intimamente legata alla città, lo stesso può dirsi per la schiavitù. Quest’ultima diventa la forma di dipendenza dominante solo nel mondo della polis. È anche necessario precisare che la schiavitù ha la massima diffusione soltanto in alcune città: quelle dove grandi riforme hanno fatto sparire la massa degli asserviti locali. Gli Spartani hanno i loro iloti. In compenso, dopo le riforme dell’epoca arcaica, che hanno allargato il corpo dei cittadini, gli Ateniesi non dispongono più, nell’Attica stessa, di un’equivalente massa di dipendenti. Per colmare questa lacuna si moltiplicano rapidamente gli schiavi provenienti soprattutto dall’esterno, ben prima che Aristotele teorizzasse la coincidenza tra asservito e barbaro.
A Roma una situazione simile si viene a creare con le lotte della plebe. La costituzione di una comunità di proprietari-soldati, cioè di una collettività di cittadini comprendente la maggioranza della popolazione, richiede lo sfruttamento di stranieri ridotti in schiavitù. La perdita totale della libertà, caratteristica dello schiavo, è la conseguenza del suo sradicamento e della sua esclusione dal gruppo al quale è stato arbitrariamente unito. È molto significativo, al contrario, il modo in cui il diritto romano limita rigidamente, prima dell’Impero, l’asservimento dei cittadini e, in questo caso estremo, preveda il più delle volte la vendita del condannato fuori dalla città. Visto l’intimo legame tra schiavitù e polis, appare logico che questo fenomeno abbia avuto un’espansione senza precedenti nel quadro della città più potente e che la sua decadenza sia iniziata quando le istituzioni di questa città cambiarono profondamente.
Lo schiavo viene definito essenzialmente per antitesi. Al di là delle profonde trasformazioni provocate dagli sconvolgimenti successivi del contesto storico, egli rimane, per secoli, il negativo del cittadino. Per Aristotele, mentre l’uomo è anzitutto un animale politico, lo schiavo è sprovvisto della facoltà di deliberare (Politica, 1, 13, 7). Il modo di vivere del cittadino implica il tempo libero, la scholé o l’otium, che permette di dedicarsi alle attività creative, a cominciare dalla politica; la condizione di schiavo è caratterizzata invece dall’assenza di tempo libero: come un animale domestico, egli lavora, e, per ricostituire le sue forze per il lavoro, mangia e dorme. Si identifica con la sua funzione: è per il padrone ciò che il bue è per il povero (Politica, 1, 2, 5), è un oggetto animato che fa parte della proprietà. La stessa idea si ritrova costantemente nel diritto romano, dove il caso dello schiavo viene frequentemente associato a quello di altri elementi patrimoniali: è venduto con le stesse norme di un appezzamento di terreno, è incluso, in un lascito, tra utensili e animali. Rimane anzitutto un oggetto, una resmobilis. Contrariamente al salariato, la sua persona non viene distinta dalla sua capacità lavorativa.
Questo statuto servile occupa dunque un posto specifico nel ventaglio delle varie forme di dipendenza. Impone precauzioni per domare ogni insubordinazione, ma permette anche uno sfruttamento particolarmente intenso dell’asservito. Questo spiega l’esistenza di schiavi molto tempo prima e molto tempo dopo lo sviluppo della vita urbana; il regime schiavista permane infatti in Occidente fino all’inizio dell’XI secolo. Ciò spiega anche la sua rinascita, in epoche recentissime, come modo di sfruttamento dominante della manodopera nell’ambito di società il più delle volte coloniali, capaci di costruire sistemi estremamente coercitivi.
Durante l’antichità, la permanenza dei dati essenziali della definizione dello schiavo, non deve far smarrire importanti evoluzioni. In particolare, risulta che l’opposizione tra uomini liberi e schiavi si afferma sempre più come divisione fondamentale dell’umanità man mano che il sistema della città cessa di essere il quadro essenziale nel quale si organizza la vita degli uomini. Ancora in Aristotele, la riflessione si articola sempre attorno alla nozione di cittadino. Certo, nel libro primo della Politica, l’autore oppone l’uomo libero allo schiavo, ma precisa che l’uomo è per natura destinato a vivere in città (1, 2, 9). D’altronde, nel libro terzo, la prima operazione alla quale si dedica Aristotele è di distinguere cittadino e non-cittadino, in funzione di criteri essenzialmente politici che si possono riassumere nella partecipazione al potere (anche se le forme di questa partecipazione possono essere assai diverse). Da questo procedimento ancora molto classico, che instaura una frattura maggiore tra cittadino e non-cittadino, risulta che lo schiavo non rimane isolato ma al contrario si trova in compagnia di altri gruppi anch’essi opposti al cittadino: meteci, stranieri, dipendenti di vario tipo e persino giovani, vecchi e donne che sfiorano la cittadinanza senza possederla del tutto. È significativo, in questo senso, che nel libro primo ogni riflessione fatta sullo schiavo sia costantemente inframezzata da analisi parallele riguardanti il bambino e la donna. La frattura maggiore si trova tra il cittadino e gli altri membri della sua famiglia: serve da sostegno a una riflessione sulla differenza di natura che oppone il potere nella città al potere del capo famiglia sugli schiavi, sulla moglie, i figli. I ruoli di padrone, sposo e padre implicano tre relazioni originali, ma queste tre relazioni rientrano nel campo della sfera domestica e, per natura, sono tutte e tre rapporti da superiore a inferiore.
Durante i secoli successivi, la città rimane un quadro essenziale. Lo sviluppo delle monarchie comporta tuttavia una riduzione considerevole dell’indipendenza di queste unità, ormai sottomesse a entità politiche più vaste. L’ideale del suddito entra in competizione con quello del cittadino. L’Impero romano accelera l’evoluzione. La cittadinanza è sempre meno quella di una città determinata e sempre più cittadinanza romana, ossia una cittadinanza di stato che va oltre uno stretto ancoraggio geografico e che si diffonde sempre più nella massa della popolazione fino al momento in cui l’editto di Caracalla (212 d.C.) consacra l’accesso di tutti gli uomini liberi allo statuto di cittadino.
Ne risulta uno spostamento della frattura più importante che divide il genere umano. Ormai essa isola dal resto degli uomini molto meno il cittadino che lo schiavo. Il non-libero è diventato, per eccellenza, un elemento originale che si distingue da tutti gli altri. L’evoluzione è chiaramente percettibile presso i giuristi già dalla metà del II secolo della nostra era: Gaio divide l’umanità in liberi e schiavi. È la summa divisio personarum (Istituzioni, 1, 9). Molto rapidamente, già dal III secolo, si produce un altro spostamento di quella cesura essenziale che ormai divide honestiores e humiliores: avremo l’occasione di riparlarne.
Questa sottomissione radicale di una parte dell’umanità a beneficio di un’altra sparge una luce violenta sulla realtà del mondo greco-romano. Rinunciare a un approccio idealista, riconoscere cioè che le notevoli produzioni dell’antichità poggiano su uno sfruttamento ferocemente esibito, non basta per risolvere ciò che si presenta come contraddizione fondamentale: com’è possibile esaltare la libertà del cittadino e nello stesso tempo difendere il principio della schiavitù? Prima di rispondere a questa domanda è necessario analizzare più a fondo la natura reale della schiavitù.
Un primo dato essenziale è la grande eterogeneità che caratterizza il mondo degli schiavi. Questi vengono definiti da uno status giuridico che, complessivamente, li priva della loro personalità, li trasforma in oggetti di proprietà che si possono vendere o acquistare, li sottomette all’autorità del padrone: per farla breve, li assimila agli animali domestici. Nelle città greche, di frequente, una sola e stessa legge si applica tanto agli schiavi quanto agli animali domestici, e questa associazione si ritrova spesso nel diritto romano, per esempio in Ulpiano, giurista del III secolo, che varie volte equipara fughe di schiavi a perdite di bestiame. Tra questi due momenti, Catone: i capitoli del suo trattato agricolo che riguardano le razioni alimentari degli schiavi (L’agricoltura, 56-8) sono accostati al passo che indica le razioni dei buoi (59). Non c’è dubbio che la stesura del testo non debba niente al caso. Ciò che fa l’unità del mondo servile è dunque la sua definizione giuridica, che vale per tutti gli schiavi. Ma questa unità è contraddetta dai modi concreti, estremamente vari, in cui gli schiavi venivano utilizzati.
È stata spesso sottolineata la divisione essenziale che separa gli schiavi rurali da quelli di città, particolarmente da quelli addetti alla casa del padrone. Essa sembra effettivamente corrispondere a una realtà profonda: al momento della grande rivolta schiavile di Spartaco, le campagne si sollevano ma i gruppi servili urbani sembrano non avere reagito o averlo fatto in misura assai debole. Questo si può capire abbastanza facilmente. Gli schiavi adoperati in campagna sono, per la stragrande maggioranza, adibiti a compiti produttivi. Poco in contatto con il padrone, sono sottoposti, il più delle volte, a una severa disciplina che tende a sfruttare al massimo le loro capacità di lavoro. È a questo gruppo che, nonostante una certa diversità di situazioni, si applica meglio la formula di individui ascholoi, sprovvisti di «tempo libero». Catone non manca d’inserire nel suo trattato un capitolo intitolato ubi tempestates malae erunt, quid fieri possit, vale a dire: che cosa sarà possibile fare quando il tempo sarà brutto? Lo spirito di questo capitolo è chiaro: si tratta...

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  1. Lo schiavo