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Tutti rossi
Il derby
Il 10 aprile 2019, nell’ennesima diretta Facebook rivolta agli italiani, il ministro dell’Interno del governo Conte I, in vista delle manifestazioni per il successivo 25 aprile – i cortei con «i partigiani e i contropartigiani, [...] e i rossi e i neri e i verdi e i blu e i gialli e i rossi» –, ha dichiarato di non essere interessato al «derby fascisti-comunisti»1. È interessante esaminare un’affermazione che, con consumata abilità comunicativa, strizza l’occhio ad alcuni elementi largamente presenti oggi nel senso comune a proposito della Resistenza2. Certamente, infatti, quelle frasi alludono alle celebrazioni del 25 aprile e al modo di ricordare la lotta di Liberazione che si è costruito nel tempo, ma lasciano intravedere in controluce anche immagini e letture di ciò che accade tra il 1943 e il 1945. Almeno tre.
Parlare di un derby tra due squadre richiama immediatamente l’idea di un conflitto in cui si sono affrontate due minoranze contrapposte, un conflitto a cui la grande maggioranza della popolazione (e non si fa troppa fatica a percepire il sottinteso “perbene”) ha assistito senza prendere parte, al limite tifando. L’allusione lascia filtrare poi un secondo giudizio per il quale la Resistenza è sostanzialmente una faccenda da “rossi” (contrapposti alla “squadra” dei “neri”), da “comunisti”, in riferimento sia a chi l’ha combattuta sia a chi ne ha tramandato il ricordo. Questa rappresentazione, infine, convive in maniera contraddittoria con una specularmente rovesciata: la Resistenza è stata l’iniziativa di un’accozzaglia di gente diversa, improvvisata e confusa («i verdi e i blu e i gialli e i rossi» del titolare del Viminale). Ma la contraddizione, in fondo, è soltanto parziale, perché tutti, di qualsivoglia colore, finiscono comunque a traino dei rossi.
Quattro gatti
Dire che la Resistenza è stata un fenomeno minoritario, così come la militanza nella Repubblica sociale italiana, è una semplice constatazione di fatto: nella prima parte dell’aprile 1945 si stimano 130.000 partigiani a fronte di circa 160.000 soldati fascisti, su una popolazione di circa 45.000.000 di persone3. Il più famoso storico del fascismo, Renzo De Felice, proprio sottolineando la dimensione minoritaria dello scontro tra partigiani e repubblichini, ha parlato di «zona grigia» per definire la posizione di sostanziale estraneità alla contesa della grande maggioranza degli italiani4. Partendo da valutazioni numeriche differenti, ha osservato che, anche adottando un criterio a maglie molto larghe, che prenda in considerazione non solo i combattenti ma anche le loro famiglie, gli affini e gli amici, si arriva a individuare «3 milioni e mezzo-4 milioni» di persone direttamente coinvolte nella guerra civile5. Con tutta evidenza, dunque, parliamo in ogni caso di una minoranza.
Alla constatazione numerica, però, si legano due questioni. In primo luogo solitamente essa si accompagna al tono compiaciuto di chi ha il coraggio di pronunciare una verità a lungo negata. Nelle prime fasi del dopoguerra, in effetti, il discorso ufficiale sulla Resistenza insiste sulla sua natura di lotta corale, la descrive come un moto di rivolta che ha avuto compatti dietro di sé tutti gli italiani. È una rappresentazione che allora, per ragioni diverse, risponde alle esigenze di tutte le forze politiche antifasciste, dalla destra moderata alle sinistre. Prima ancora che agli interessi di parte, è funzionale al bisogno comune a tutti di gettare il passato dietro le spalle per legittimare una democrazia ancora da costruire. È altrettanto vero, però, che almeno dall’ultimo scorcio degli anni Sessanta questa immagine viene messa in discussione e progressivamente ridimensionata sia nel discorso pubblico sia dagli storici, cosicché ormai da decenni è difficile trovarne traccia6. E diventa ancora più difficile se si guarda alle molte memorie dei protagonisti, uscite in quantità fin dall’immediato dopoguerra. Gli stessi partigiani, infatti, sono ben consapevoli di essere stati pochi, tanto che nell’imminenza dell’insurrezione, e subito dopo, chi ha combattuto dall’8 settembre 1943 o dai mesi successivi prende atto con amarezza di come il numero dei combattenti cresca tanto improvvisamente quanto inspiegabilmente (da 130.000 alla vigilia salgono a 240-250.000 con e dopo il 25 aprile)7 .
Altra questione: non è di poco conto interrogarsi sull’atteggiamento della larga maggioranza che “assiste” alla battaglia, perché gli italiani che invece scelgono di combattere non si muovono nel vuoto pneumatico. Guardando alla minoranza che fa la Resistenza, per ogni riunione clandestina che si svolge senza intoppi e per ogni partigiano che non viene catturato bisogna presupporre non soltanto parenti e amici, ma anche estranei che facciano finta di non vedere e stiano zitti (rischiando anche soltanto in questo modo di finire nei guai, di essere arrestati, di veder distrutta la propria casa o di perdere la vita). In altre parole, ciò che i numeri, pur nella loro chiarezza, non riescono né a fotografare né a quantificare è l’area di complicità, o quanto meno di non ostilità, che deve necessariamente esistere perché una forza clandestina possa vivere e crescere8.
La “zona grigia” tra i due poli minoritari contrapposti, quindi, non è tutta uguale al suo interno. Si può immaginare una gamma di gradazioni nelle posizioni verso la Resistenza: dal sostegno attivo a quello passivo, alla complicità, all’omertà, all’indifferenza, alla paura, fino all’opposizione. La “zona grigia”, inoltre, non è nemmeno immobile nel tempo, perché man mano che le sorti della guerra diventano chiare e si capisce che la sconfitta dell’Asse è una prospettiva concreta, quand’anche non si voglia ammettere che cresca il sostegno aperto alla Resistenza, di sicuro aumenta l’avversione verso gli occupanti tedeschi e verso i fascisti che li servono, prima ancora che per una presa di coscienza politica, perché sono l’ostacolo principale alla fine del conflitto e alla tanto sospirata pace.
A ben guardare, quindi, la Resistenza, anziché come una partita che ha interessato in fondo “quattro gatti” esaltati in lotta contro altri, altrettanto pochi e altrettanto esaltati, appare come un’«esperienza collettiva in cui una minoranza coinvolse, con consapevolezze diverse, strati sempre più ampi della popolazione»9.
Una scelta, molte strade
Individuate le proporzioni del fenomeno, serve capire chi siano questi “quattro gatti”, circoscrivendo il discorso ai partigiani in armi, in banda o clandestini nelle città, perché è essenzialmente a loro che si imputa tutto e il contrario di tutto, di volta in volta di essere comunisti incalliti o gente senza arte né parte, animata da scopi confusi e non sempre raccomandabili.
La prima risorsa cui attingere, se si vuole evitare di restare impigliati in immagini della Resistenza banalizzanti e stereotipate, quando non fuorvianti, è evitare di considerarla come un blocco compatto; e forse la parola-chiave che meglio consente di leggere in questa “avventura”, minoritaria e collettiva allo stesso tempo, è complessità. All’interno della Resistenza, infatti, si incontrano, convivono, si scontrano e si mescolano motivazioni, esperienze, slanci, idee e ideali i più diversi: non è un’esagerazione affermare che i percorsi di chi vi approda sono moltissimi, quasi quanti sono i suoi protagonisti.
Va detto che la complessità è prima di tutto nei fatti: la situazione dell’Italia nel corso del 1943 si trasforma in un oggettivo caos. Dopo aver collezionato batoste militari su tutti i fronti di guerra, mentre i bombardamenti alleati sulla penisola e le privazioni provocate dal conflitto diventano insostenibili, la solidità del regime inizia a vacillare vistosamente, come mostrano gli scioperi operai del marzo 1943. Il colpo di grazia per la dittatura arriva qualche mese dopo, quando tra il 9 e il 10 luglio gli Alleati sbarcano in Sicilia. È questione di giorni: finalmente, dopo un ventennio di complicità, Vittorio Emanuele III di Savoia si decide a separare le sorti della monarchia da quelle del fascismo, e il 25 luglio destituisce e fa arrestare Mussolini, sostituendolo alla guida del governo con il maresciallo Pietro Badoglio, peraltro più che coinvolto con il passato regime. Iniziate in segreto le trattative con gli Alleati, con un messaggio radio l’8 settembre 1943 Badoglio rende noto l’armistizio siglato con gli angloamericani. La mossa non coglie impreparati i tedeschi che, subodorando l’iniziativa, hanno già predisposto i piani militari per occupare in forze la penisola; ma spiazza gli italiani. All’annuncio, infatti, mentre il re e il governo scappano al Sud contando sulla protezione degli Alleati, non seguono ordini precisi per le forze armate (sui fronti di guerra e in Italia), che, lasciate senza direttive, si sfasciano. È uno spartiacque epocale: crolla l’autorità statale (che abdica ai suoi compiti) e crolla l’esercito, che ne è uno dei principali simboli. In pratica è il “si salvi chi può”: ciascuno è solo e deve cercare da sé la propria strategia di sopravvivenza e le proprie regole di condotta, attingendo alle risorse di intuizione, prontezza, capacità di calcolo, coraggio, cultura che ha a disposizione10. Dopo più di tre anni di guerra mondiale condotta come Stato aggressore insieme alla Germania nazista, di colpo l’Italia da paese occupante diventa paese occupato, con il Centro-Sud controllato dagli Alleati e il Centro-Nord in mano alle truppe tedesche. E con due nuovi governi a contendersi l’autorità statale, il Regno del Sud e la Repubblica sociale di Mussolini.
È in questa situazione drammatica che nasce la Resistenza: una minoranza di italiani decide autonomamente, volontariamente e a proprio rischio di armarsi per ribellarsi contro tedeschi e fascisti. Proprio per questo, perché in tali condizioni contano le scelte spontanee dei singoli, le motivazioni dei partigiani sono molte e complesse. E perché esse si intrecciano in un paese in cui, nei venti anni precedenti, la maggioranza delle persone ha perso l’abitudine a pensare con la propria testa. Anzi, una generazione quell’abitudine non l’ha mai avuta, perché chi è nato intorno al 1915, e di lì in avanti, è cresciuto conoscendo come orizzonte esistente soltanto il fascismo, con il suo credere-obbedire-combattere, i suoi insegnamenti che trasudano violenza, nazionalismo, potenza, autorità, sottomissione, ecc.
Malgrado ciò, nel caos dell’8 settembre e delle fasi immediatamente successive, qualcuno le idee chiare le ha: sono i “politici”, gli antifascisti “storici”, quanti hanno tenuto fede alle proprie convinzioni anche durante il ventennio fascista, pagando di persona il prezzo della propria integrità, con anni di carcere, di confino o di esilio, oppure con...