'80
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L'inizio della barbarie

  1. 248 pagine
  2. Italian
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L'inizio della barbarie

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Troppo vicini per essere già storia. Sarà per questo che l'eredità italiana degli amati/odiati anni Ottanta stenta a trovare narratori. Paolo Morando ripercorre attraverso un racconto-reportage il decennio più ambiguo: vitale e al contempo feroce.Italians do it better: sono le parole d'ordine lanciate da una maglietta indossata da Madonna, mentre Paolo Rossi diventa il simbolo di un'Italia che vuole lasciarsi per sempre alle spalle stragi e terrorismo. Sono gli Ottanta: gli anni dell'edonismo, dell'arricchimento, quando eravamo un Paese invidiato da mezzo mondo. Gli adolescenti di allora ricordano quegli anni con nostalgia: Nikka Costa, Maradona, Goldrake, gli Europe di The Final Countdown, il tormentone Gioca Jouer, il Cacao Meravigliao di Arbore, Il tempo delle mele, il Ciao della Piaggio, il succo di frutta Billy, il piccoletto de Il mio amico Arnold, i Puffi, il Tom Cruise di Top Gun...Eppure, a guardar meglio, è il decennio delle mode effimere e classiste, dell'imbarbarimento della politica e della convivenza civile. Di baby pensioni. E debito pubblico al galoppo. Nella Milano da bere ci si spranga per rubarsi Timberland e Moncler, divise d'obbligo dei giovani paninari che alle ideologie preferiscono 'cuccare'. Mentre si applicano al gioco in Borsa e all'evasione fiscale, gli italiani si confrontano con l'arrivo dei primi 'vu' cumprà'. E dagli scontri in piazza tra fascisti e comunisti si passa a quello Nord-Sud, con l'alba delle Leghe e uno slogan che ancora oggi risuona negli stadi: Forza Etna!

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124086

L’Italia becera

Un giorno del 2010 Paolo Vigevano si trova di fronte Fiorello e Marco Baldini: due che di radio se ne intendono. E che gli dicono così: bisogna darvi atto di aver realizzato la più importante trasmissione radiofonica della storia d’Italia. Lui sorride. Più compiaciuto che nostalgico: non è tra quelli che amano guardarsi indietro. Romano, classe 1949, laurea in ingegneria, nella seconda metà degli anni ’70 è in un colpo solo fondatore, editore e amministratore di Radio radicale. E militante del partito, che lascerà solo nel 1999, con lapidario fatalismo. Dirà al «Giornale»: «Quando ci sono contrasti gestionali e operativi in una struttura come quella radicale, non regolata da alcuna forma statutaria, ma affidata a una sorta di consultazione permanente, continue e spesso interminabili riunioni, diventa impossibile anche la semplice convivenza». In mezzo, anni di dirette dal Parlamento e dalle aule di giustizia, da congressi e convegni di partito. E di referendum e sit-in, digiuni e debiti: perché del Partito radicale, per un buon ventennio, Vigevano sarà anche il tesoriere. Fino a un passaggio alla Camera, nel 1994 con la lista di Forza Italia (in quota Riformatori). Poi, archiviata la politica dopo aver coordinato la segreteria del ministro per l’Innovazione Lucio Stanca, il passaggio al mondo del business: il Cda di Finmeccanica, ma soprattutto il settore dell’energia, presidente e amministratore delegato di Acquirente Unico Spa. Nulla dunque più a che fare con microfoni, cuffie, banchi regia. Però, quell’estate del 1986...
In quell’estate gli eroi di Bearzot si congedano per sempre: in Messico ammainano bandiera già agli ottavi, eliminati dalla Francia, due reti di Platini e Stopyra e addio al sogno di bissare l’impresa di Madrid. Ad accanirsi sui tifosi italiani, il secondo scandalo del calcioscommesse: è quello che tra l’altro minaccia di portare la Lazio addirittura in serie C. Salvo poi un ripensamento della Corte d’appello federale: biancazzurri in B, ma con ben 9 punti di penalizzazione. Nel frattempo Silvio Berlusconi, fresco presidente del Milan, si segnala per l’arrivo in elicottero all’Arena di Milano per il raduno rossonero, in stile Apocalypse Now con tanto di note della Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Lo stesso Cavaliere farà poi un regalo a un giovane centrocampista del Parma: è Davide Zannoni, che dopo appena cinque minuti di gioco di un’amichevole di inizio agosto si scontra con Tassotti, procurandosi la rottura dei legamenti del ginocchio destro. E da Berlusconi, mosso a compassione («solo un gesto di simpatia nei confronti di un calciatore sfortunato»), verrà omaggiato addirittura di una Fiat Uno.
È anche l’estate delle code a Palazzo Grassi, a Venezia, rimesso a nuovo dall’avvocato Agnelli (attraverso le sapienti mani di Gae Aulenti). Futurismo & Futurismi, si intitola la prima grande mostra che ospita: una scelta che solo pochi anni prima sarebbe stata tacciata di criptofascismo. Per dire quanta acqua è passata, anche in Laguna. Dove, tra una polemica e l’altra sui giovani che invadono la città in sacco a pelo, puntualmente multati dai vigili cui il Comune raccomanda la linea dura, si fa notare l’assessore al turismo Augusto Salvatori: democristiano, 40 anni, avvocato di grido, è sua la trovata di chiedere alle associazioni dei gondolieri, ai posteggiatori e alle agenzie viaggi che le serenate in gondola d’ora in poi siano allietate esclusivamente «da canzoni e motivi musicali veneziani». E a proposito di saccopelisti, eccone finire aggrediti e picchiati a sangue in raid punitivi notturni, a Roma come in Sardegna, sempre ai danni di coppiette tedesche. Vacanze italiane.
Mentre le radio impazzano a colpi di Run to me di Tracy Spencer e Easy lady di Spagna, nell’estate ’86 le cronache registrano anche la tragica morte di un nome simbolo del decennio: l’imprenditore Giorgio Aiazzone. Rimane vittima di un incidente aereo durante il ritorno in Piemonte, assieme a un’amica e al pilota di un piper, noleggiato per trascorrere la domenica in Versilia: piper che precipita in Lomellina, forse colpito da un fulmine. «Provare per credere», è lo spot tormentone che grazie all’imbonitore Guido Angeli ne fa la fortuna, sulla prima tv privata d’Italia Telebiella (che poi diventa sua): un impero di pura immagine, perfetto dunque per gli anni ’80. Perché Aiazzone non produce nulla: si limita a vendere divani, poltrone, armadi di altri mobilifici appiccicandoci però sopra il proprio marchio, nel frattempo propagandato massivamente. Dici Aiazzone e in realtà pensi proprio ad Angeli: è il suo volto a venire in mente. E non a caso. Per dire del rapporto tra i due, è proprio Angeli a celebrarne la memoria con un programma mozzafiato, due ore di dialogo con una poltrona vuota colpita da un mistico raggio di luce, a rappresentarne l’assenza: «Piangono le mamme di tutta Italia – dirà a un certo punto – isole comprese».
In quei giorni di luglio arriva anche la prima sentenza su un caso giudiziario clamoroso, quello che coinvolge lo psicanalista Armando Verdiglione: quattro anni e mezzo per estorsione e circonvenzione d’incapace. Una vicenda per certi versi analoga a quelle di Mamma Ebe e i suoi seguaci, oggetto anche di un instant-movie firmato Carlo Lizzani, e di Scientology, altro nome che inizia a circolare nelle aule di giustizia. Infatuazione? Plagio? O qualcosa di più? Lo si dirà anche a proposito dell’eredità di Renato Guttuso, che pure diventa un caso giudiziario. Tutte vicende di cronaca (e costume) della decade indicatrici di qualcosa di profondo, frutto del tramonto delle ideologie: la ritrovata autodeterminazione individuale. Spesso spregiudicata. E altrettanto spesso strumentalizzata.
Quella dell’86 è però soprattutto l’estate in cui la politica italiana si arricchisce di un nuovo termine: il «patto della staffetta». Quello cioè che, di lì a meno di un anno, sulla carta dovrebbe garantire la presidenza del Consiglio nuovamente a un democristiano, dopo i quasi 1.100 giorni del primo governo Craxi. Che a giugno si dimette, dopo la bocciatura alla Camera di un decreto legge sulla finanza locale su cui era stata posta la fiducia. Segue un nuovo incarico al leader socialista, che dà vita al proprio secondo esecutivo, ancora un pentapartito: basato però su un accordo ufficioso tra i cinque segretari, appunto la staffetta Psi-Dc a Palazzo Chigi. Che mesi dopo Craxi sconfesserà brutalmente. E attenzione: non a Montecitorio o a un congresso di partito. Lo farà invece in tv, a Mixer, intervistato da Giovanni Minoli: ben prima del Porta a Porta di Vespa ‘terza Camera’ del Parlamento. Mentre sul fronte Pci, ancora di gran lunga il secondo partito italiano, ferve il dibattito interno: al di là delle 50.000 copie in più di vendita che da sei mesi gli porta ogni lunedì, è giusto che «l’Unità» pubblichi un inserto satirico, «Tango», in cui in una vignetta firmata Forattini – ma opera di Staino – ci si permette di ritrarre il segretario comunista Natta nudo come un verme, mentre balla («Nattango» appunto) al suono della fisarmonica di Craxi e del violino di Andreotti?
Accade anche, in quell’estate, che Radio radicale annunci la propria chiusura, causa dissesto economico: troppo alti i costi (3 miliardi di lire) rispetto ai ricavi, costituiti unicamente dal finanziamento pubblico che il partito gira all’emittente. Sono due miliardi e mezzo, non bastano. Tanto che Vigevano informa redattori, tecnici e collaboratori dell’imminente licenziamento: le lettere sono pronte, con decorrenza 30 settembre. Una via d’uscita ci sarebbe: una convenzione con il governo in quanto servizio pubblico, esattamente come per la Rai, motivata da quella che è la principale attività della radio, cioè la trasmissione dei lavori del Parlamento. E così alla mezzanotte di lunedì 30 giugno la programmazione viene interrotta, per lasciare spazio a questo messaggio: «Ci è necessaria la vostra collaborazione. Ci rivolgiamo a te che ci ascolti. A lei, signor giudice, a lei avvocato, a te collega giornalista, a te disoccupato e pensionato, studente o operaio, cieco o handicappato, a te drogato, a te imputato o carcerato, a te che non dormi, a te omosessuale... a voi tutti... che siete pubblico e protagonisti di tempo e di parole, che fate del nostro lavoro il vostro lavoro... Se la consapevolezza di quello che Radio radicale è, di quello che è stata, sarà certa, affermata attraverso una mole impressionante di parole, di scritti... potremo sperare di riscuotere quel credito che ci siamo guadagnati, in questi dieci anni di servizio pubblico autentico, di informazione in presa diretta, che soli abbiamo offerto senza contributi, senza canoni, senza clientele... un fatto unico nella storia del nostro Paese. Non abbiamo la possibilità di parlare con voi. Lottiamo con il tempo e ogni attimo diventa prezioso. Per questo risponderemo dopo, servendoci delle segreterie telefoniche: avrete un minuto di tempo per registrare il vostro messaggio». E poi il numero: 465711, preceduto dallo 06 per chi chiama da fuori Roma.

1. Radio parolaccia

Radio radicale sta in via Principe Amedeo, all’ultimo piano di un vecchio palazzo, di quelli costruiti dai piemontesi attorno alla Stazione Termini. Una volta varcato l’ingresso dello stabile e lasciatisi alle spalle le insegne di un albergo, di una pensione e di due medici (uno specialista in malattie urogenitali e uno in sessuologia), si sale con l’ascensore. Che però funziona a moneta: e ci vogliono quelle da dieci lire, sempre più rare. Sennò su a piedi, per cinque piani. In redazione le linee telefoniche sono dieci: su quattro vengono installate le segreterie. Mentre il messaggio registrato viene ritrasmesso ‘ad abundantiam’, alternandolo con parte del ricchissimo materiale d’archivio e qualche requiem, altro classico dell’emittente. Ricorda oggi Vigevano:
Ormai eravamo senza soldi. E allora, assieme a Marco Pannella, prendemmo la decisione di non aspettare la chiusura e di far vivere anticipatamente ai nostri ascoltatori quello che sarebbe diventato un Paese senza Radio radicale. Interrompiamo così le trasmissioni, totalmente, e sostituiamo i programmi con un appello: la richiesta agli ascoltatori di mandare le loro testimonianze su quello che per loro è la radio. Nel giro di pochi giorni raccogliamo qualche migliaio di lettere, numerose manoscritte su fogli di carta a quadretti. Scopriamo così che un’attività di informazione compassata e specialistica, apparentemente di livello culturale elevato, interessava tutte le fasce di ascoltatori, specie quelle attente alla vita politica italiana: dal vecchio partigiano al novantenne della Prima guerra mondiale, fino ad alcuni semianalfabeti che con grafie stentate ci supplicavano di non chiudere, perché eravamo l’unica finestra che avevano sul Paese e sul Parlamento. Questa raccolta di lettere già da sola è un documento storico sociale e di costume assolutamente straordinario: su Craxi e Amato, ai quali la sottoponemmo, ebbe un primo impatto entusiasmante. Ma alla fine, in termini di provvedimenti politici concreti in grado di aprire spiragli per il futuro della radio, la situazione non cambia di una virgola. Chiediamo allora agli ascoltatori di telefonarci: noi avremmo registrato il loro pensiero su segreterie telefoniche.
Mai, nel corso della prima settimana di campagna, le trasmissioni riprendono. Con una sola eccezione: un filo diretto la sera di venerdì 4 luglio, condotto dal leader Pannella. Poi via di nuovo con l’appello, mentre i messaggi sulle segreterie si accumulano: un migliaio scarso la prima settimana, altrettanti la seconda. Altro ‘break’ sabato 12 luglio, con una conferenza stampa in redazione rimandata in diretta. E finalmente i giornali iniziano a occuparsi del caso, così come la politica. Fioccano lettere e documenti di sostegno, annunci di mobilitazione, mozioni di solidarietà. Ma nel frattempo, impercettibilmente, la vicenda assume un’altra piega. Perché gli imbecilli esistono ovunque. E la garanzia dell’anonimato ‘chiama’ le loro telefonate. Che però, da quota fisiologica prevedibile e prevista, aumentano ogni giorno che passa. Tra chi telefona per proclamare la propria partecipazione ideale (e finanziaria, con tanto di obolo) all’ennesima battaglia radicale, mitomani ed esibizionisti si fanno strada sempre più frequenti. Anche gli insulti alla radio, via via, cambiano di segno: allargando il raggio e travalicando la politica. E delineando un nuovo profilo del Paese reale. Così Vigevano: «Dai messaggi che arrivano, si vede che sotto c’è qualcosa che bolle: un turpiloquio pesantissimo, non tanto contro le redattrici della radio, ma con un tipo di insulto che emerge in forme di violenta sessuofobia. Poi inizia a emergere lo scontro Nord-Sud, il ‘Forza Etna’ in forme nuove, più brutali. E poi l’aspetto calcistico, le tifoserie contro. Quindi, sentendo questo ribollire, decidiamo di non trasmettere quelle telefonate».
Fermiamoci. Per dare voce alla scrittrice e giornalista romana Cate Messina. Che esattamente a metà del decennio, sull’onda del successo del Bon Ton di Lina Sotis, dà alle stampe Galateo degli anni 80. Comportarsi oggi in privato e in società. Dove, destreggiandosi tra una miriade di voci (ben oltre il centinaio: da «Aereo» a «Coltelli da pesce», da «Liste di nozze» a «Pettegolezzi», fino a «Shopping» e all’immancabile «Verginità»), dice la sua su mode e luoghi di quegli anni. Con approccio decisamente più affabile della giornalista del «Corriere della Sera», che infarcisce il proprio best seller (che pure si articola per lemmi) di consigli come questi: «Per l’uomo mai i calzini corti, ma nemmeno quelli penduli e slabbrati. Sempre parlando di calzini, ricordarsi che sono la seconda cosa da togliersi prima di un incontro amoroso. Il calzino, il nudo e lo sguardo intenso hanno un effetto comico e non erotico». E tra le parole chiave, la presenza di «Barca», «Brunch», «Iniziali sulle camicie da uomo» e «Nuovi ricchi» (con il lapidario «Frequentateli sempre, vi faranno sentire migliori») la dice lunga sul target della Sotis. Diversissimo da quello a cui pensa la Messina. Un esempio? Proprio la parola «Linguaggio». Che l’ineffabile Sotis declina così: «Parlare bene la propria lingua, non solo con l’intonazione giusta ma in modo corretto, preciso, duttile e elegante è comunque il miglior biglietto da visita che uno possa avere. Parlando bene si prendono bei voti a scuola, si fa carriera e si è al posto d’onore nel banchetto importante». Anche questo è un segnale rivelatore dello spirito del decennio. Che però, diversamente declinato, emerge prepotente anche nel Galateo di Cate Messina. Dove alla medesima voce, in anticipo sull’estate di Radio radicale, l’autrice fotografa con esattezza lo stato delle cose nell’Italia dei barbari anni ’80.
Tanto vale prenderne coraggiosamente atto: il turpiloquio ha vinto la sua battaglia affermandosi come una forma di espressione non certo elegante e civile ma largamente tollerata. Alcuni termini, che fino a non molto tempo fa si ascoltavano solo nei bassifondi e nelle bettole dei porti, sono ormai entrati tramite i figli adolescenti anche nelle case dove, se a qualcuno sfuggiva incidentalmente un «Accipicchia», lo si chiamava a darne giustificazione. Ci siamo arresi, ma non senza combattere; resta solo il conforto di sapere che fu una lotta impari, da un lato adulti e anziani di buone costumanze, dall’altra un’intera generazione combattivissima di giovani sostenuta da adulti ed anziani di cattive costumanze.
«Anonimo. Telefonata di insulti»: così, con dicitura da apporre su un brogliaccio allegato alla bobina, vengono schedate inizialmente quelle che, benché volgari, fanno comunque riferimento alla battaglia di Radio radicale. Ma intanto le registrazioni si accumulano. E lunedì 14 luglio, per la prima volta, vengono mandate in onda. Telefonate di insulti comprese. Il primo effetto è tangibile: una rapida crescita dei messaggi scurrili e blasfemi che giungono alla radio. Il calcolo lo fanno gli stessi redattori: 61 quelli registrati domenica 13, quasi il doppio il giorno dopo, 199 martedì, addirittura 286 a metà settimana. Il che pone una domanda: non sarà il caso di sospendere la trasmissione delle registrazioni che, come si è visto, sembra generare altra volgarità? Si decide diversamente: niente stop ma un minimo di autocensura sì, riascoltando le bobine prima di mandarle in onda, quanto serve per eliminare le telefonate più scabrose. Un compromesso, che regge un paio di settimane. Mettetevi infatti al posto di Pannella: che cosa avreste detto di quella autocensura? Non vi sarebbe sembrata figlia anch’essa del regime e della partitocrazia?
Fermiamoci ancora. E prima di proseguire diamo un’occhiata a quel blocco iniziale di telefonate. Che già indicano le direzioni successive. Da dove partire? Per semplicità, dalla pratica più immediata da catalogare: quella di chi nulla ha a che spartire con le battaglie radicali. E così, con voce che motteggia quella di Mussolini, qualcuno chiama per annunciare ai «radicali di terra, del mare, dell’aria», che «l’ora segnata dal destino sul quadrante della Storia ha bussato alla porta della nostra Patria. La parola d’ordine è una e una soltanto: annate affanculo!». Poi quel bolognese che, serio serio, rende noti i risultati di un’indagine demoscopica effettuata sui radicali: «La Bonino è la regina del pompino, l’Aglietta una frigida troietta, Rutelli è un gestore di bordelli, Cicciomessere lo prende nel sedere...». C’è chi chiama invece con voce stentorea, per un chiarimento tardivo. E a suo modo strepitoso: «Compagni, volevo dirvi che ho iniziato con voi un digiuno nel 1980. Sei anni fa, in favore della fame nel mondo. Siccome non ho più ascoltato la radio volevo sapere se posso riprendere a mangiare perché avrei un po’ di fame». C’è quel ragazzo romano, che mette subito in chiaro la situazione: «Aho, questa nun è ’na chiamata solidale pe’ Radio radicale ma pe’ l’amici mia. Dunque, aho, se vedemo domani a ’na certa ora, ’na certa ora e ’n quarto, ar bare de lo Straccaletto. Semo io, bimbo scemo, er Bebbo e Francesco er pijacazzi. Sì, però quello è mejo che nun se lo portamo. Anzi portamose er coso, va... er Braciola. Ee, gnente, por...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. L’Italia nordista
  3. L’Italia paninara
  4. L’Italia becera
  5. L’Italia rampante
  6. L’Italia razzista
  7. Epilogo
  8. Fonti e bibliografia
  9. Ringraziamenti