Se potessi avere 1000 euro al mese
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Se potessi avere 1000 euro al mese

L'Italia sottopagata

  1. 192 pagine
  2. Italian
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L'Italia sottopagata

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In Italia i cittadini tra i 19 e i 35 anni sono dodici milioni. Volete sapere come vivono, cosa fanno, come si mantengono? La maggioranza è sottoimpiegata, sottopagata, sottorappresentata. E soprattutto è ricattabile, perché i giovani italiani del nuovo millennio sono un esercito senza armi e senza tutele, senza santi in paradiso.Non vi siete distratti né addormentati sui banchi. Siete giovani, volenterosi e avete finito di studiare più o meno nei tempi giusti. Il problema però è che nonostante master, corsi di specializzazione e tripli salti mortali non avete ancora un lavoro retribuito il giusto, per guadagnare di più dovete lavorare in nero e se siete fortunati vi rinnovano il contratto a progetto facendovi stare a casa solo un mese, quanto basta per non avere troppi diritti. Oppure, se lavorate in un negozio come commesse vi assumono come 'associate in partecipazione' anziché come dipendenti subordinate e così vi pagano meno. O, peggio ancora, il vostro lavoro diventa quello di cercare lavoro, un'attività con cui non ci si annoia mai. Sono alcune delle storie che trovate in queste pagine: non sono solo i 'soliti noti' artisti, giornalisti, ricercatori ma anche categorie insospettabili come medici, avvocati, architetti.Eleonora Voltolina spiega capitolo dopo capitolo perché nessuna categoria è immune e racconta come sia possibile che in Italia milioni di persone non riescano a mantenersi con quel che guadagnano e perché il periodo di formazione in tutte le professioni si stia dilatando a dismisura e aumentino i contratti 'di collaborazione autonoma', cocopro e partite iva, che nascondono normale lavoro dipendente. Pagina dopo pagina, troviamo dati e racconti di vita vissuta di chi è stato o è ancora precario, ma soprattutto sfruttato.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858104002
Argomento
Economia

1.
Emergenza retribuzioni

Emergenza retribuzioni. Non è il titolo ad effetto di un quotidiano, ma una realtà ormai innegabile della situazione italiana. Per sgombrare subito il campo dal sospetto che si tratti di un allarme di parte, di un’esagerazione pompata ad arte dalla sinistra massimalista, dai sindacati e dagli irriducibili che ancora leggono il mondo attraverso la lente del conflitto tra servi e padroni, è utile premettere che i primi ad ammettere in tempi recenti che il re era ormai nudo sono stati due ricercatori della Banca d’Italia, Alfonso Rosolia e Roberto Torrini, in un breve saggio del 2007 intitolato Il divario generazionale: un’analisi dei salari relativi dei lavoratori giovani e vecchi in Italia. La Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico che si occupa di mantenere la stabilità del sistema finanziario e di controllare l’esercizio del credito: quindi non si possono tacciare i suoi ricercatori di essere abituati a lanciare allarmi senza fondamento, o a vestire i panni dei paladini dei poveri e degli sfruttati. Eppure il documento di Rosolia e Torrini già cinque anni fa dimostrava, dati alla mano, che la frase «questa è la prima generazione che starà peggio di quella precedente» non era un modo di dire: i giovani italiani vivevano davvero allora (e vivono oggi) una condizione drammatica dal punto di vista retributivo.
Nel dettaglio, il divario tra lo stipendio percepito da un neolaureato e quello di un lavoratore adulto si è nel corso degli anni progressivamente ingrandito e vi è stato un «declino dei salari d’ingresso», che gli autori mettono in relazione prima di tutto con i «mutamenti della legislazione sul mercato del lavoro». Siamo a dieci anni dal pacchetto Treu e a quattro dalla legge Biagi, le due rivoluzioni del diritto del lavoro che hanno introdotto la flessibilità in Italia, e che però hanno omesso di dotare il nuovo assetto di quattro aspetti di non poco conto: innanzitutto di un parametro retributivo cui agganciare la quantificazione dei compensi per le sempre più frequenti – grazie proprio alla flessibilità – forme di lavoro autonomo. In secondo luogo, è mancata la necessaria trasformazione del sistema di welfare italiano dalla struttura lavoristico-occupazionale a quella universalistica[5], quella tipica dei paesi del Nord Europa, l’unica in grado di tutelare anche i precari – che sono poi quelli più colpiti dal problema della disoccupazione e che ad oggi ne risultano nella stragrande maggioranza dei casi esclusi. Terzo, non è stato previsto per i contratti temporanei un costo superiore, in modo da rendere il lavoro stabile più conveniente. Infine, il legislatore ha dimenticato di prevedere un capillare sistema di controlli atti a verificare che sotto alla facciata di collaborazioni autonome non si celassero in realtà normali contratti di lavoro subordinato; e naturalmente una serie di sanzioni, pecuniarie e non, per punire severamente e dunque scoraggiare gli abusi. Per tutte queste ragioni, la nuova legislazione sul lavoro ha contribuito a livellare al ribasso i salari di ingresso.
Il confronto non è solo sul presente, cioè sugli stipendi dei giovani di oggi rapportati a quelli degli anziani di oggi. Il confronto è anche comparato: di fatto i ventenni contemporanei guadagnano meno anche dei loro coetanei di vent’anni fa. Il paper di Rosolia e Torrini spiega come in un decennio, tra il 1992 e il 2002, il salario mensile iniziale sia sceso: in soldoni, se nel 1992 un neodiplomato prendeva come primo stipendio l’equivalente di 1200 euro al mese, dieci anni dopo era già sceso a meno di 1100; stesso discorso per un neolaureato, da 1300 a 1200. Cosa ancor più grave, la riduzione del salario d’ingresso «non è stata controbilanciata da una carriera e quindi una crescita delle retribuzioni più rapida. La perdita di reddito, in termini reali, nel confronto con le generazioni precedenti risulta dunque in larga parte permanente».
Per fortuna i due ricercatori della Banca d’Italia si fermano al 2002. Chissà cos’avrebbero tirato fuori se avessero ripetuto i confronti utilizzando i dati di oggi. Chissà cosa sarebbe uscito da una rilevazione che invece che (o accanto a) i lavoratori dipendenti avesse considerato i giovani autonomi o supposti tali – quella selva di cococo, cocopro, collaborazioni a partita Iva, consulenze incredibilmente convenienti per i datori di lavoro, e che progressivamente si sono livellate verso il basso. Quei lavoratori confinati in un vero e proprio apartheid occupazionale e retributivo tanto da spingere nel settembre del 2011 il giuslavorista e senatore del Pd Pietro Ichino a presentare alla Commissione europea una denuncia[6], per provare a costringere il nostro paese a rimettere mano alla legislazione sul lavoro e a intensificare i controlli sugli abusi e sullo sfruttamento.
In effetti, i famosi mille euro al mese sono ormai quasi un miraggio. Quando nel 2006 Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa scrissero Generazione mille euro[7], quella cifra era lo standard che veniva proposto praticamente a tutti i giovani, senza fare grandi differenze rispetto al titolo di studio, al settore, alle mansioni. Una cifra base che permetteva, seppur con grande parsimonia e non dappertutto, di mantenersi. Lo stesso Incorvaia ha detto di recente che se quel libro fosse scritto oggi probabilmente il titolo dovrebbe essere Generazione settecento euro: meno efficace dal punto di vista della comunicazione ma più aderente alla realtà. Infatti nel 2009 il reddito medio dei contribuenti dai 15 ai 24 anni è stato di 6856 euro: meno di 600 euro al mese, che precipitano a 450 se si considera solamente il Sud. La regione che sta meglio è la Lombardia, dove in media i giovani guadagnano 8481 euro l’anno, sfondando il misero tetto dei 700 euro al mese; quella messa peggio è la Calabria, solamente 418 euro al mese[8].
A quei mille euro che sei anni fa sembravano la soglia minima ora si sogna di tornare per rientrare nella decenza. Un salario minimo di mille euro netti per un lavoro full time era in effetti tra le proposte contenute nel programma del Partito democratico alle elezioni politiche del 2008 (poi vinte dal centrodestra), al punto «Stato sociale: più eguaglianza e più sostegno alla famiglia, per crescere meglio». Mille euro al mese sono anche la misura che la testata giornalistica «Repubblica degli Stagisti» ha adottato, nel maggio del 2011, come soglia minima per il progetto Milledodici, una iniziativa pensata per incentivare le imprese a utilizzare la flessibilità cum grano salis e in particolare prevedendo contratti non troppo brevi (almeno dodici mesi) e pagati non troppo poco: appunto almeno mille euro al mese.
Su questi famosi mille euro è basata un’interessante proiezione che Sergio Bologna e Dario Banfi hanno inserito nel libro Vita da freelance[9], disamina della condizione dei lavoratori della conoscenza oggi in Italia. Bologna è un docente universitario ormai vicino agli ottant’anni, che per tutta la vita ha studiato l’evoluzione della società industriale e del mercato del lavoro; negli ultimi venticinque anni ha concentrato la sua attenzione sulle peculiarità e le problematiche del lavoro autonomo. Banfi, giornalista quarantenne, è invece in prima persona un freelance ed esperto delle professioni legate alle nuove tecnologie e al digitale. Sulla base dei mille euro e prendendo anche in considerazione alcuni fattori molto importanti e tipici del lavoro autonomo, Bologna e Banfi calcolano che chi offre le sue prestazioni sul mercato senza la rete di protezione di un tariffario professionale non dovrebbe mai scendere sotto i 27 euro lordi all’ora[10].
L’idea di calcolare un valore minimo del lavoro è interessante. Si può farlo all’ora, al mese, a singola prestazione. Per alcune professioni sono in vigore tabelle precise e vincolanti per gli iscritti, che periodicamente, com’è accaduto di recente con l’azione del governo Monti, si cerca di spazzare con le liberalizzazioni: a volte, infatti, fissare una tariffa minima significa garantire una rendita di posizione ai professionisti già affermati, impedendo la libera concorrenza e rendendo difficile ai giovani l’ingresso a quel mercato.
Il salario minimo è però una misura in vigore in molti paesi e ha dimostrato di essere uno strumento utile per contrastare in maniera efficace il lavoro sottopagato. In Francia la tradizione è antica, risale al 1950: ad oggi lo Smic, salaire minimum interprofessionnel de croissance, è pari a 9 euro netti all’ora e a 1365 euro netti al mese[11]. In Italia ci si basa invece da decenni sui contratti nazionali, concordati tra le associazioni dei datori di lavoro e i sindacati, in cui sono minuziosamente descritti tutti gli aspetti di un rapporto di lavoro: le ore, lo stipendio, gli scatti di anzianità, gli aumenti, la regolamentazione di permessi e ferie, tutti i diritti e i doveri reciproci insomma. I sindacati traggono forza dall’essere periodicamente i protagonisti di queste contrattazioni.
Il problema dei contratti nazionali è che da quando sono entrate in vigore le norme sulla flessibilità in Italia è aumentata a dismisura, specie tra le giovani generazioni, la quota dei rapporti di lavoro che sfugge a questi accordi. Un contratto a progetto infatti per sua natura non può essere agganciato a un contratto nazionale, in quanto si tratta di lavoro autonomo e non dipendente. Idem per le collaborazioni e le consulenze. Dal 1997 ad oggi il mercato invece che flessibilizzarsi si è precarizzato, e questo per la drastica riduzione dei redditi dei lavoratori più giovani.
C’è un cortocircuito in tutto questo, ben spiegato già da Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e grande esperto di questioni generazionali, nel suo saggio Non è un paese per giovani[12]. Il cortocircuito è che i giovani in Italia in effetti sono pochi. Su poco più di 60 milioni di abitanti vi sono oggi solamente 22 milioni di under 35 – considerando l’intera fascia, quindi anche i neonati. Per la precisione solo il 36,9 per cento della popolazione si colloca nel sottogruppo dei ‘giovani’. Per fare un confronto che permette un’immediata percezione del problema, in Francia – paese simile al nostro per grandezza e popolazione – questa percentuale è maggiore di oltre sei punti[13]: in demografia, un abisso.
Eppure, pur essendo pochi, i giovani italiani penano quotidianamente per trovare la propria collocazione nel mercato del lavoro. Anche Rosolia e Torrini non mancano di rilevare che si tratta di una vera e propria anomalia: «Il calo della crescita della popolazione e il suo progressivo invecchiamento avrebbero dovuto contribuire a sostenere i salari dei più giovani, diventati meno numerosi e maggiormente istruiti». Insomma, gli italiani fanno pochi figli, quindi i giovani sono numericamente pochi, caratterizzandosi pertanto come ‘risorsa scarsa’. Quanto più una risorsa è disponibile, tanto più è a buon mercato; se al contrario è rara, come l’oro o il petrolio o i diamanti, il suo valore sale: quindi i pochi giovani italiani dovrebbero essere trattati con i guanti, pagati bene, ricercati. La realtà inspiegabilmente va in un’altra direzione. Chi cerca di mascherare questa situazione, normalizzarla, giustificarla, di solito fa appello alla crisi economica partita nel 2008 e ancora in atto. Ricorda che anche i ‘vecchi’ hanno perso il lavoro, le fabbriche hanno fatto massiccio ricorso alla cassa integrazione, tanti piccoli imprenditori sono falliti. Tutto vero, ma la sostanza non cambia: la situazione sarà pure drammatica per tutti, ma per una fascia – guarda caso, quella dei giovani – era già pessima prima. «Le preoccupazioni per il peggioramento relativo delle carriere lavorative delle generazioni più giovani appaiono fondate, anche in un contesto economico generalmente meno soddisfacente per tutti» scrivevano Torrini e Rosalia già in epoca pre-crisi: «Sembra plausibile invece ipotizzare che, in un quadro di generale moderazione salariale, l’aggiustamento delle retribuzioni sia stato asimmetrico e abbia penalizzato maggiormente le prospettive dei lavoratori neoassunti rispetto a quelle dei lavoratori già impiegati».
Attenzione, questa non è la posizione ufficiale di Bankitalia sull’argomento[14]. Ma a riprova che la ricerca di Rosolia e Torrini sia pienamente condivisa dai vertici vi è una lezione[15] tenuta nell’autunno del 2007 dall’allora governatore Mario Draghi, che da quella pubblicazione attinge a piene mani, aggiungendo – dati Eurostat[16] alla mano – che gli stipendi italiani sono tra i più bassi d’Europa: una retribuzione media oraria, «a parità di potere d’acquisto, di 11 euro in Italia, tra il 30 e il 40 per cento inferiore ai valori di Francia, Germania e Regno Unito». L’Italia è, come la Francia, un paese in cui l’anzianità conta molto, e da questo deriva un «profilo ascendente per età» dei redditi; il contrario di quel che accade in Germania e Regno Unito, dove «il profilo è a U rovesciata: le retribuzioni raggiungono un apice in corrispondenza delle età più produttive, calano negli anni successivi». Morale della favola: «le retribuzioni mensili nette italiane risultano in media inferiori di circa il 10 per cento a quelle tedesche, del 20 a quelle britanniche e del 25 a quelle francesi».
Con pochi soldi e zero possibilità di mettere da parte qualche risparmio non si va lontano: nell’inadeguatezza degli stipendi quindi va prima di tutto ricercata la motivazione che tiene gli italiani inchiodati. «La percezione di un minor reddito permanente e la maggiore volatilità di quello corrente si riflettono anche sulle scelte dei giovani in merito al momento in cui abbandonare la famiglia d’origine, sommandosi alle molte altre ragioni culturali e sociali». Momento che tende ad essere posticipato a dismisura: «Nel confronto europeo, l’Italia è il paese con la quota più alta di giovani che convivono con i genitori e con la quota più bassa di nuclei familiari con capofamiglia al di sotto dei 30 anni». E le polemiche rispetto ai bamboccioni che non vogliono lasciare il nido e spiccare il volo? Sebbene sia innegabile che un ventenne italiano abbia meno fretta di un coetaneo svedese di guadagnarsi l’autonomia anche dal punto di vista abitativo, per timore di rinunciare alle tagliatelle della domenica e alle camicie sempre stirate, c’è però da rilevare che i giovani ‘incastrati’ in casa di mamma e papà non per scelta ma per necessità sono sempre più numerosi. Sempre Draghi precisa che «negli ultimi dieci anni la quota di giovani tra i 25 e i 35 anni che vive ancora nella famiglia d’origine è cresciuta di circa cinque punti percentuali, al 45 per cento».
Le stesse considerazioni vengono riprese quattro anni dopo da Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, invitato a Santa Margherita Ligure per il convegno dei Giovani imprenditori di Confindustria. In mezzo c’è stata la crisi economica mondiale, il crollo della borsa, una massiccia perdita di posti che in Italia ha riguardato nella maggior parte dei casi lavoratori giovani con contratti atipici. In mezzo ci sono stati articoli di giornale, documentari, manifestazioni e proclami. Così Saccomanni parte dai dati generali: «Tra il 2008 e il 2010 l’occupazione in Italia è diminuita ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Emergenza retribuzioni
  3. 2. Medicina, la professione è ammalata
  4. 3. Partite Iva: numeri senza futuro
  5. 4. Per amore dell’arte
  6. 5. Cogito, ergo (pauper) sum
  7. 6. Giornalisti, da quarto potere a quarto stato
  8. 7. Praticantato, il nonnismo delle professioni
  9. 8. Se il master sostituisce il lavoro che non c’è
  10. 9. Contratti: la fantasia al potere
  11. 10. Cambiare musica