1.
Nobiltà e cavalleria nella Francia medievale:
un dibattito storiografico aperto
Tels parolent de chevalers
ki ne sevent pas lour mesters,
ne quele deit estre lour vie,
ne quele lour chevalerie.
(Le Chevaler Dé, vv. 3-6)
Verso la metà del XII secolo, l’emiro Usamā ibn-Munqidh lasciò scritto nel suo libro chiamato Kitāb al-i’tibār, a proposito della società latina con cui aveva avuto contatti approfonditi in Terrasanta: «Presso i Franchi – Dio li mandi in malora! – non c’è virtù umana che apprezzino fuor del valore guerriero, e nessuno ha preminenza e alto grado fuor dei cavalieri, le uniche persone che valgono presso di loro». Questa osservazione è confermata da conversazioni con i maggiori capi franchi, come questa col re Folco: «Il re mi disse in quell’occasione: ‘O tu, per il mio valore, mi sono ieri grandemente rallegrato!’ ‘Dio rallegri Vostra Maestà – risposi io, – per che cosa ti sei rallegrato?’ ‘Mi hanno detto che tu sei un gran cavaliere, e io non credevo che tu fossi cavaliere’». Non meno memorabile la proposta di quel Franco che in tutta serietà consiglia all’attonito Usamā di mandare suo figlio in Europa, «che conosca i cavalieri, e impari il senno e la cavalleria».
Sono impressioni che si attagliano, senza dubbio, soprattutto alla società coloniale nata nelle dominazioni latine d’Oltremare, dove l’elemento militare conservò sempre una preponderanza schiacciante. Usamā del resto riferisce soltanto gli atteggiamenti del mondo con cui è familiare, dei guerrieri riuniti alla corte del re di Gerusalemme; gli uomini di Chiesa, i mercanti genovesi e pisani, i borghesi di Tiro e di S. Giovanni d’Acri non erano probabilmente così fiduciosi nell’eccellenza del modello cavalleresco. Una testimonianza di prima mano come quella di Usamā – un contemporaneo che non era meno estraneo alla società europea del XII secolo di quanto lo siamo noi oggi – è tuttavia preziosa, poiché conferma che all’indomani della prima crociata l’aristocrazia francese si identificava con l’esercizio delle armi, e che lo status cavalleresco, senza perdere nulla della sua natura schiettamente militare, comportava un’inequivocabile connotazione di prestigio sociale.
Nonostante il valore diverso attribuito alle parole dall’arabo e dal francese – che spiega l’equivoco del re Folco, e che indusse Usamā a precisare prudentemente «Sono un cavaliere della mia razza e della mia gente» – non c’è dubbio che agli occhi dell’emiro la condizione sociale più elevata, fra i Cristiani, è quella dei soldati di professione – di coloro che le fonti occidentali chiamano milites – e che il rispetto della società franca si guadagna grazie al valore guerriero e alla forza fisica: «Quando il cavaliere è alto e slanciato, più essi lo ammirano».
Ancora in anni relativamente recenti, la testimonianza di Usamā sarebbe risultata perfettamente in linea con la rappresentazione della società aristocratica del XII secolo elaborata dagli storici. L’interesse per la cavalleria era nato in effetti, alla fine del secolo scorso – per non citare taluni precedenti eruditi – principalmente sulla base delle fonti letterarie; e queste ultime confermano l’immagine di un mondo di guerrieri rispettosi soltanto del coraggio, della forza, del senso dell’onore, in cui ognuno, dai capi ai combattenti più anonimi, è prima di ogni altra cosa un cavaliere. Da tempo tuttavia questa visione, la cui influenza si avverte ancora nella Société féodale di Marc Bloch, è stata incrinata nella storiografia dall’affiorare di interrogativi sempre più fitti. Quanto e più della forza fisica, certe fonti, e specialmente quelle di origine ecclesiastica, rispettano il potere e la nascita; accanto e al di sopra dei guerrieri, celebrano uomini che si gloriano di essere non solo militia strenui, ma anche genere nobiles. Nelle chansons de geste i cavalieri sono anche, implicitamente, coloro che esercitano i poteri di comando sulla maggioranza della popolazione; ma è certo – ci si è chiesti – che il titolo di nobilis si addica a tutti i milites, che anche i semplici cavalieri discendano da famiglie fiere del proprio sangue? All’immagine fondamentalmente egualitaria suggerita dalla letteratura cavalleresca si sostituisce così l’immagine più problematica di un’aristocrazia attraversata da molteplici fattori di disuguaglianza; e il compito principale dello storico appare quello di individuare le linee di demarcazione tra i diversi gruppi e di seguirne la dinamica.
Certo, già il Guilhiermoz, e dopo di lui con maggior risonanza il Bloch, avevano distinto concettualmente nobiltà e cavalleria; essi tuttavia, constatando il ruolo decisivo dell’adoubement cavalleresco al momento della chiusura giuridica del ceto nobiliare, tra XII e XIII secolo, e riconoscendo l’inconsistenza del vocabolario nobiliare nelle fonti dei secoli precedenti, suggerivano di interpretare la nobiltà di quei secoli come una semplice nobiltà di fatto, priva di continuità biologica e di una vera coscienza ereditaria; destinata a trasformarsi in nobiltà giuridicamente definita soltanto attraverso l’incontro con i riti cavallereschi. Per contro la recente storiografia tedesca, riprendendo, col supporto di ricerche approfondite sulla nobiltà merovingia e carolingia, concezioni già avanzate fra le due guerre, ha rivendicato la continuità di una nobiltà di sangue preesistente alla cavalleria, e da essa rigorosamente distinta fino al XIII secolo. Esuberante talvolta nell’esaltare il presunto carattere carismatico, la vocazione sacrale al potere di un Adel germanico dominante fin dall’alto medioevo su una massa asservita, tale storiografia ha tuttavia dimostrato in più di un caso la continuità dei gruppi aristocratici tra l’età carolingia e i secoli successivi, ed il ruolo preponderante esercitato nella loro ideologia dal valore del sangue. L’idea di una nobiltà ereditaria non solo indipendente dalla cavalleria, ma nettamente separata sul piano sociale dai semplici milites, è stata approfondita nel corso degli anni Sessanta, soprattutto da parte di studiosi belgi e olandesi, sia in analisi di taglio regionale, sia in un contesto più generale e teorico; mentre la scoperta delle disuguaglianze interne all’ordo cavalleresco e del carattere solo parzialmente realistico della letteratura cortese induceva, soprattutto tra i germanisti, un vasto ripensamento del fenomeno cavalleresco, interpretato come manifestazione puramente letteraria, libera da ogni concreta implicazione sociale.
Questi studi, tendenti a spogliare della sua portata sociale il fenomeno cavalleresco, all’insegna della contraddizione tra Idee e Wirklichkeit, presentano limiti che la storiografia più recente non ha avuto difficoltà a mettere in luce: in modo particolare una concezione eccessivamente rigida delle classi sociali, che trova espressione nel rifiuto di riconoscere nella cavalleria una classe se non quando – all’inizio del XIII secolo in area francese – l’eguaglianza di tutti i milites venne sancita sul piano giuridico. Caratteristica è altresì la tendenza a sottovalutare il coinvolgimento dei nobili nell’ordo militum, non senza occasionali fraintendimenti delle fonti, come è stato più volte dimostrato.
La netta separazione tra nobiltà e cavalleria, su cui insistono gli studiosi della Germania e dei Paesi Bassi, ha trovato scarso riscontro nelle ricerche incentrate su fonti francesi. Nel 1953, il Duby pensava che nel Mâconnais la diffusione del titolo di miles, che sostituisce nobilis nel corso dell’XI secolo, coincidesse con la formazione di una classe nobiliare dai contorni ben definiti. Secondo Jean-François Lemarignier, che estende considerazioni analoghe a tutto il mondo francese, il titolo di miles indica in un primo momento il livello inferiore dell’aristocrazia militare; ma già nella seconda metà dell’XI secolo designa ormai anche i grandi, e tutti coloro che in esso si riconoscono appaiono uniti da una comune coscienza di classe. Per Marcel Garaud, il concetto stesso di nobile acquista nel Poi...