Oriente Occidente
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L'Occidente ha sempre visto nella lotta eroica della piccola Grecia contro l'impero persiano il simbolo della propria superiorità morale e culturale rispetto al dispotismo orientale. Eppure quelle guerre hanno rappresentato solo un momento di un rapporto millenario, qui ricostruito, in forma originale e innovativa, da uno dei più importanti archeologi mondiali.

Tra Oriente e Occidente sembra che sia sempre esistito un vero e proprio scontro di civiltà. Nel nostro immaginario, le guerre persiane per secoli hanno simboleggiato proprio questo: la lotta perenne tra il dispotismo orientale e la libertà dell'Occidente. Basti pensare ai 300 delle Termopili che resistono eroicamente all'invasione delle sterminate masse del Gran Re. Al contrario, per lunghi millenni a partire dalle antichissime civiltà mesopotamiche, il nostro Occidente (europeo) è stato una sorta di appendice al grande complesso orientale (asiatico). Ancora al tempo delle guerre persiane il grande impero vedeva la Grecia come un problema marginale. Furono proprio quei conflitti a trasformare i pesi sulla bilancia: il loro esito diede alla Grecia la forza non solo di resistere, ma anzi di reagire e infine prevalere. Viste le enormi differenze di potenza militare, di bacino demografico, di tradizione dominatrice, tra il grande impero e la piccola Grecia, è stato ovvio per il mondo occidentale costruire la propria immagine come qualitativamente superiore, facendo emergere i valori della democrazia contro il dispotismo orientale, delle libertà contro l'asservimento generalizzato, delle individualità contro la sottomissione etnica.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858144756
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Parte seconda.
Il processo storico

9.
La rivoluzione urbana

Gordon Childe scrisse nel 1950 il celebre articolo sulla Urban Revolution, ma si era formato negli anni ’20-’30, e affrontò il problema della prima urbanizzazione facendo uso di uno strumentario terminologico e concettuale che risale in buona parte all’Ottocento, e che oggi appare quanto meno sorpassato. Ciò vale soprattutto per la concezione di un evoluzionismo unilineare, che attraversa i tre “stadi” (stages) definiti rispettivamente savagery, barbarism e civilisation (stato selvaggio, barbarie, civiltà). La definizione dei tre stadi viene fatta risalire esplicitamente ai «sociologi ed etnografi» ottocenteschi: è ovvio il riferimento all’opera di Morgan e alla sua rivisitazione marxista da parte di Engels. La costruzione evoluzionista ottocentesca era basata – in mancanza di dati archeologici adeguati – su una classificazione tipologica delle culture etnografiche allora note; ma il trasferimento dalla tipologia alla diacronia era già ovvio ai «sociologi ed etnografi» e viene ribadito dallo stesso Childe: «La sequenza logica degli stadi può essere trasformata in una sequenza temporale di epoche». Tutta l’opera di Childe – e del resto non solo la sua – può esser letta come un tentativo di fornire appropriate basi documentarie di natura archeologica per questa trasformazione della tipologia in una diacronia. Le corrispondenze essenziali erano ovvie: lo stato “selvaggio” corrispondeva al paleolitico, la “barbarie” al neolitico, la “civiltà” ha inizio con l’avvento dell’età del Bronzo (o dei metalli, come si diceva allora). Le caratterizzazioni essenziali erano anch’esse ovvie: al primo stadio appartenevano società basate su caccia e raccolta, al secondo quelle basate sulla produzione di cibo (agricoltura e allevamento), al terzo quelle dotate di tecnologie e di strutture socio-economiche e socio-politiche più complesse.
Ma il problema centrale per Childe era spiegare il passaggio da uno stadio all’altro. E qui la sua soluzione venne influenzata dalle teorie marxiste: non tanto dello Engels della Origine della famiglia, ma proprio del Marx del Capitale. In primo luogo il passaggio da uno stadio all’altro, che oggi si preferisce definire con un termine più sfumato quale “transizione”, viene definito “rivoluzione”: parola che (nonostante i chiarimenti dello stesso Childe) portava con sé le connotazioni di un evento relativamente rapido, di una rottura, e soprattutto di un processo doloroso in termini di costi sociali e di conflitti sociali. Abbiamo dunque una “rivoluzione neolitica” che segna il passaggio dallo stadio selvaggio a quello della barbarie, mentre con la “rivoluzione urbana” si lascia la barbarie per entrare nella civiltà.
Più in concreto, Childe adottò il processo con cui Marx aveva spiegato la “rivoluzione industriale” per spiegare le due rivoluzioni più antiche. Si tratta della cosiddetta “accumulazione primitiva del capitale” (o originaria, o primaria), ovvero della destinazione a scopi sociali della “eccedenza” prodotta all’interno di una determinata comunità. Childe usa il termine “eccedenza sociale” (social surplus) senza neppur tanto soffermarsi a chiarire (dandolo probabilmente per scontato) che non si tratta semplicemente di un’eccedenza prodotta all’interno di una data società, ma di un’eccedenza che viene da questa destinata ad un utilizzo sociale (cioè comunitario), sottraendola dunque ai consumi privati dei produttori.
E qui Childe innesta la distinzione tra un’urbanizzazione “primaria”, avvenuta in società che dovettero procurarsi l’eccedenza per processo interno, con mezzi propri; e un’urbanizzazione “secondaria” di società posteriori o contigue a quelle primarie, che poterono attingere (per via di scambio) all’accumulo primitivo avvenuto altrove. Solo i quattro casi “primari” (Egitto, Sumer, Indo, Maya) devono costituire la base documentaria per analizzare e comprendere la natura del fenomeno. Per tutti gli altri innumerevoli casi di carattere “secondario” Childe assume processi di diffusione e trasmissione sia pur non invariata che oggi si preferisce ridimensionare (e di molto) per dar più spazio alle dinamiche interne di ciascun caso.
Sulla base dei quattro casi “primari”, Childe elenca i famosi “dieci punti” caratterizzanti la rivoluzione urbana. L’elenco è stato più volte criticato. In effetti, se viene letto come “elenco” e ridotto a parole chiave, esso si rivela debole sia per la sequenza adottata, sia per la diversa natura e il diverso peso dei singoli elementi, alcuni strutturalmente decisivi, altri almeno apparentemente estrinseci e occasionali. In realtà, tuttavia, quello di Childe è un discorso continuo, suddiviso in punti per maggiore chiarezza, ma dotato di un filo conduttore preciso e di forti legami logici (e persino sintattici) tra la fine di ciascun punto e l’inizio del punto successivo. Se si segue questo filo conduttore, i “dieci punti” non sono altro che l’articolazione descrittiva di un unico ed essenziale punto: l’accumulazione e utilizzazione sociale dell’eccedenza. Personalmente ritengo che questo punto centrale della spiegazione childiana, di chiara matrice marxiana, possa considerarsi tuttora valido, o almeno sia suscettibile di adeguata rivisitazione.
Più che su questo punto centrale, le critiche rivolte a Childe si sono accentrate (oltre che sulla stadialità e sul diffusionismo, come già detto), sull’individuazione di un “primo motore” unico, che è quello tecnologico. La questione dell’artigianato specialistico “a tempo pieno” (full-time professionals, full-time specialists) riveste indubbiamente per Childe un ruolo primario. Le generazioni successive hanno invece privilegiato altri “primi motori”, di natura demografica, ad esempio, o sociale. E hanno amato sottolineare la complessità del processo ricorrendo a modelli multi-fattoriali, con molteplici interazioni e feedback dai quali il fenomeno risulterebbe più adeguatamente analizzato. E qui si tratta di intendersi su cosa sia un modello: se si preferisce un modello talmente analitico e complesso da “assomigliare” ai casi studiati, allora i complessi schemi di flusso proposti – con decine e decine di caselle e di frecce – costituiscono indubbiamente un passo avanti rispetto a Childe. Ma se si preferisce un modello di solare semplicità e chiarezza, con il pregio di individuare il minor numero possibile di fattori, che siano però quelli veramente essenziali, allora il modello di Childe resta ancora insuperato.
In realtà Childe insiste sulla questione della specializzazione a tempo pieno non solo e non tanto perché intende dare una coloritura prevalentemente “tecnologica” alla sua ricostruzione della rivoluzione urbana; ma anche perché vi ravvisa il discrimine essenziale tra città e villaggio. È ovvio che la definizione del sotto-insieme “città” non potrebbe avvenire se non per via di contrapposizione distintiva rispetto ad altro sotto-insieme (appunto il “villaggio”) all’interno dell’insieme superiore “insediamento” (settlement). Su questo punto Childe utilizza il classico studio di Émile Durkheim sulla divisione del lavoro sociale: e si noti che mentre i rinvii a Morgan o a Marx sono sottaciuti, forse in quanto ovvi o anche perché politicamente (s)qualificanti, il rinvio a Durkheim è esplicito. La distinzione durkheimiana tra la “solidarietà meccanica”, che caratterizza situazioni in cui ogni unità produttiva è omologa alle altre, e la “solidarietà organica”, che caratterizza situazioni in cui le varie unità produttive sono legate tra loro da gerarchie e connessioni necessarie e funzionali all’assieme, viene ripresa e applicata rispettivamente al villaggio e alla città.
Il taglio dato da Childe al problema della rivoluzione urbana è dunque economico, tecnologico, sociale. L’approccio propriamente urbanistico manca, il che è tanto più degno di nota in quanto l’articolo del 1950 apparve in una rivista di urbanistica, ed era dunque indirizzato a lettori che in prevalenza sarebbero stati urbanisti e architetti. In realtà il primo dei dieci “punti” riguarda la dimensione e la densità dell’insediamento; ma poi – a fine articolo – Childe sottolinea esplicitamente la mancanza di tratti comuni di natura urbanistica tra le quattro civiltà primarie, accentuando sin troppo come città e villaggi siano da questo punto di vista non ben distinguibili. In realtà gli stessi elementi distintivi da lui messi in luce – ruolo economico ma anche monumentale del tempio e del palazzo; gestione centralizzata delle risorse e dunque magazzini; specializzazione e dunque botteghe – hanno ricadute urbanistiche molto forti e che certamente non si potrebbero avere nei villaggi se questi sono intesi come privi di centralizzazione e di specializzazione. Dunque quella distinzione in termini molto generali (e teorici, o “astratti” come dice Childe) che si ravvisa nel campo socio-economico potrebbe ravvisarsi altrettanto bene anche nel campo delle forme esteriori assunte dalla città. Qui forse Childe ha avuto il timore di indicare elementi urbanistici troppo legati ai quattro casi “primari”, ma non adatti ad essere trasferiti al più generale concetto di città. Si sa che ogni tipo storico di città ha i suoi edifici e luoghi caratterizzanti, che saranno di volta in volta l’agorà o il palazzo comunale, il tempio o la cattedrale o la moschea, il mercato o il caravanserraglio, le terme o i bagni turchi, il tessuto ortogonale o quello concentrico, e così via. Ma così si entrerebbe nello specifico storico, mentre Childe intendeva tentare di dare una definizione più generale ed astratta anche delle componenti urbanistiche.
Questo punto della “astrattezza” non va sottovalutato, perché la storia pre-childiana del problema di cosa sia la città era stata sempre e gravemente inquinata da scelte orientate in senso eurocentrico e dunque storicamente selettive. Ho abbozzato altrove la storia di come la città venne concepita e teorizzata, dalla metà dell’Ottocento e fino alla sintesi di Max Weber, sulla falsariga di un percorso che va dalla polis greca al comune medievale e alle città europee della rivoluzione industriale, un percorso che scartava come non pertinenti le città “orientali”, considerate “palazzi allargati”. È una posizione – rispettabile ma di parte – che concentra nella città i valori della libertà, della democrazia collegiale, dell’autodeterminazione, dell’intrapresa economica, rispetto ai non-valori dell’asservimento, del dispotismo, della stagnazione. Credo che il mestiere di paletnologo e la ricerca di criteri archeologicamente verificabili abbiano aiutato Childe ad adottare una prospettiva esterna e propriamente scientifica, rispetto alla prospettiva “dall’interno” e partecipativa che era prevalsa fino ad allora. È merito non da poco del grande paletnologo australiano l’aver eseguito un taglio netto rispetto a questo filone (Weber non è mai citato), e l’aver posto le città di tutto il mondo e di tutte le epoche sullo stesso piano, come “casi di studio” per la costruzione di un modello unico e astratto di applicabilità universale.

10.
Scrittura e amministrazione

Oggi le rivoluzioni non sono più di moda, sia in politica sia in archeologia: l’enfasi si pone sull’aggiustamento progressivo e non conflittuale, la parola chiave è “transizione”. La metafora della “rivoluzione” esprime e connota un cambio repentino, un capovolgimento strutturale totale, un processo doloroso e conflittuale, ed anche l’esito di un’azione progettata. Invece la “transizione” è lenta e graduale, non progettata e neppure percepita dalla gente coinvolta, non ha costi sociali, non produce sofferenze, non genera conflitti.
L’emergere, nella Bassa Mesopotamia della seconda metà del IV millennio a.C., di grandi centri urbani, di comunità complesse e stratificate a livelli senza precedenti, di élite dirigenti di status professionale, di un’amministrazione formale che usa registrazioni scritte – tutto ciò può essere definito “rivoluzione” o “transizione” a seconda dei punti di vista degli studiosi, ma è comunque un processo storico di enorme importanza, che deve essere analizzato (se non spiegato) sulla base di tutti i dati disponibili.
Negli ultimi anni, la preferenza per transizione e continuismo è soprattutto legata all’analisi della documentazione archeologica, che tende ad attestare il graduale passaggio della cultura materiale da un’epoca all’altra. Anche l’inserimento di rivoluzioni addizionali rispetto alle due classiche childiane, come la “rivoluzione dei prodotti secondari” di Andrew Sherrat, o la “rivoluzione del rango” di Kent Flannery, riduce inevitabilmente la rilevanza di ciascuna e indirizza verso un cambiamento piuttosto progressivo.
Tuttavia, la principale novità degli ultimi decenni nello studio della cultura Uruk è stata di natura filologica. Le tavolette arcaiche di Uruk IV-III, che erano rimaste a lungo muti oggetti anziché testi, hanno cominciato a parlare grazie agli sforzi di vari studiosi (e soprattutto dell’équipe berlinese diretta da Hans Nissen). Ormai i testi arcaici di Uruk rivelano che già alla fine del IV millennio erano in uso procedure amministrative assai simili a quelle meglio documentate soprattutto dai testi di Ur III un millennio dopo, e dunque dimostrano che un drastico cambiamento di enorme portata aveva già avuto luogo rispetto alla gestione delle economie pre-urbane. È quindi piuttosto sorprendente che gli archeologi impegnati nello studio della cultura Uruk abbiano fatto scarsissimo uso dei documenti scritti, ricordandone l’esistenza come prova di un’amministrazione formale, ma non usando poi le specifiche informazioni che essi contengono.
Per parte mia, in un libretto ormai non più recente (Liverani 1998), ho cercato di riutilizzare il concetto (già marxiano) di “accumulazione primitiva” (o primaria) per spiegare i cambiamenti legati all’emergere della prima urbanizzazione e statalizzazione nell’età di Uruk. Il salto di qualità si basa su due fattori: 1) un drastico incremento produttivo, e dunque un’aumentata disponibilità di eccedenze, grazie a innovazioni tecniche nell’irrigazione e nell’agricoltura; 2) la strategia (consapevole o meno) di sottrarre le eccedenze all’auto-consumo da parte dei produttori, per riservarle invece a finanziare (nel senso della staple finance polanyiana) i servizi comuni. Su queste premesse si può cercare di analizzare la “nuova” (allora) economia con le fondamentali questioni di dove si collochino i costi sociali, dove si collochi il ricavo di eccedenze da parte dell’agenzia centrale, e quanto siano complessi i rapporti di produzione (i rapporti tra i produttori e i detentori dei mezzi di produzione).
Si dovranno analizzare soprattutto i due settori essenziali dell’economia basso-mesopotamica: la catena produttiva dell’orzo e quella della lana. La “tenzone” neo-sumerica in cui orzo e pecora vantano i rispettivi pregi, gareggiando per una supremazia di meriti verso la comunità umana, mostra come i Sumeri stessi avessero perfettamente chiaro il ruolo centrale di orzo e lana nella loro economia. È dunque essenziale chiarire come ne venisse gestita la produzione e come ne venissero redistribuiti i prodotti, secondo catene assai diverse tra loro.
L’orzo era stato selezionato come il cereale di base sin dal millennio precedente, per due caratteristiche: la rapida maturazione e la tolleranza a suoli salini, che lo rendevano preferibile a cereali magari più buoni come il frumento o il farro. In Bassa Mesopotamia il ciclo di maturazione dei cereali s’incastra male con l’andamento delle piene fluviali, che in tarda primavera minacciano le colture quasi mature. Anche il ricorrente arrivo di cavallette consiglia un raccolto il più anticipato possibile. La salinizzazione, poi, è connessa con l’intensa irrigazione in una zona deltizia caratterizzata da un gradiente minimo e da una falda acquifera molto alta, che in associazione a piogge pressoché inesistenti contribuiscono alla concentrazione del sale negli strati superficiali del suolo. Più adatto a fronteggiare questi inconvenienti, l’orzo divenne il cereale più diffuso (nell’ordine del 90% e oltre della superficie coltivata), a differenza di quanto avveniva nelle zone del Nord ad agricoltura pluviale (con un 30/40% di frumento).
Parlando di eccedenze agricole nell’antica Mesopotamia si parla dunque in sostanza di eccedenze nella produzione dell’orzo. Il...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Introduzione. Le radici antiche di un rapporto ambiguo
  3. Parte prima. L’opposizione strutturale
  4. Parte seconda. Il processo storico
  5. Parte terza. L’esito finale
  6. Fonti e bibliografia