XI.
Il trasferimento
a Roma e la crisi
dell’università
1. Da Messina a Roma
L’imponente attività scientifica centrata soprattutto, ma non solo, nel completamento della grande biografia cavouriana e nell’intenso impegno politico dispiegato da Romeo negli anni Settanta-Ottanta avvenne in una cornice accademica profondamente mutata rispetto agli anni Cinquanta, sia sul piano della condizione generale dell’università italiana, sia su quello più strettamente personale delle condizioni nelle quali egli svolse i suoi compiti di docente.
Sul piano generale, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta l’università pubblica italiana, da elitaria qual era in una società ancora con forti tratti di arretratezza e povertà diffusa, divenne università di massa in un paese altamente industrializzato, sia pure con persistenti squilibri sociali e territoriali. Sul piano personale dal 1962 lasciò l’Università di Messina per trasferirsi in quella di Roma, economizzando molto del tempo e delle energie spese nel pendolarismo, ma ritrovandosi dopo qualche anno in un clima di rapporti con gli studenti, e anche con i docenti, lontano anni luce da quello nel quale aveva vissuto nell’ateneo siciliano.
La possibilità di trasferirsi nella capitale si aprì in seguito alla scomparsa improvvisa nel luglio del 1960 di Federico Chabod, che insegnava storia moderna nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza. A sostituire Chabod fu chiamato Nino Valeri, che nel 1954 era passato dall’Università di Trieste al Magistero di Roma, dove dal 1955 era stato nominato direttore dell’Istituto di Scienze storiche. Valeri prese servizio a Lettere nel dicembre 1960, ma il suo successore al Magistero fu chiamato quasi due anni dopo, quando il contrasto tra Romeo e Armando Saitta, entrambi candidati, fu risolto dal Consiglio di Facoltà a favore di Romeo, che nel febbraio del 1963 fu anche nominato direttore dell’Istituto di Scienze storiche.
Nel frattempo nel dicembre del 1961 aveva avuto proprio a Roma la consacrazione istituzionale della sua statura di risorgimentista venendo nominato componente del Consiglio di Presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano presieduto da Alberto Maria Ghisalberti.
L’anno accademico 1962-63 al Magistero fu comunque per Romeo solo di passaggio. Vi tenne un corso monografico sulla giovinezza di Cavour le cui dispense universitarie anticipavano senza alcuna differenza i primi due capitoli del primo volume di Cavour e il suo tempo. L’anno successivo fu chiamato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia grazie a Nino Valeri, il quale aveva ottenuto l’istituzione di una seconda cattedra di storia moderna proprio per lui. Romeo volle rimanere sempre su quella cattedra, fino alla sua scomparsa nel 1987, anche quando la cattedra di Valeri, che andò fuori ruolo nel 1967, si liberò. Preferì farla occupare da Ruggero Moscati, e poi, all’uscita fuori ruolo di questi nel 1979, da Rosario Villari, ordinario di storia moderna a Firenze, e, come sappiamo, assistente di Moscati ai tempi dell’Università di Messina.
Alla Facoltà di Lettere e Filosofia Romeo giunse con grande entusiasmo e seriamente intenzionato a dispiegare un impegno didattico adeguato al livello di chi lo aveva preceduto: Chabod e Valeri. Portò con sé un gruppo di collaboratori di alto livello: Sergio Bertelli e Renzo De Felice – entrambi ex allievi del Croce –, Claudio Signorile, Mario Signorino. Ad essi si aggiunsero negli anni immediatamente successivi Mirella Calzavarini e Vittorio Vidotto, che colmarono il vuoto lasciato da Bertelli e Signorino. La presenza di De Felice era di grande significato sia storiografico che accademico. De Felice aveva matrici ideologico-politiche ben diverse da quelle di Romeo. Era stato borsista al Croce nel 1955-56 quando Romeo vi era segretario e vi teneva lezione, ma tra i due non c’era stata grande simpatia, anche se certamente Romeo aveva apprezzato l’adesione di De Felice al manifesto dei 101 e il distacco dal Pci in seguito ai fatti d’Ungheria. L’evento che tuttavia richiamò l’attenzione di Romeo e lo convinse a instaurare con lui un rapporto di collaborazione fu la sua bocciatura alla libera docenza decretata nel febbraio del 1962 da una commissione di cui facevano parte Armando Saitta e Giorgio Spini. A Romeo sembrò un atto inverosimile e indegno della comunità scientifica e accademica. Il 3 marzo 1962 scrisse direttamente a Cantimori che «Da parte mia cercherò di fare del mio meglio per i nostri studi e per i giovani che davvero meritano che ci si occupi di loro; e anche per conservare quel senso di misura e di equilibrio, per non dire di giustizia, che taluni episodi recenti mostrano come si venga pericolosamente incrinando anche fra noi storici, che per tanto tempo eravamo sembrati quasi immuni da questi mali». Decise quindi di avviare con De Felice una collaborazione che divenne presto un’amicizia mai più interrotta: i due condivisero fino al 1979 lo stesso studio alla Sapienza e Romeo fu commissario nel concorso a cattedre che De Felice vinse nel 1968 assieme a Gastone Manacorda. Intervenne inoltre più volte a suo favore nella polemica aperta dai suoi scritti su Mussolini e il fascismo, condividendo con lui tutti, tranne uno, i capisaldi della sua interpretazione esposti nella celebre Intervista: il fascismo come espressione di ceti medi emergenti; l’avvento con esso di un nuovo regime politico di massa che lo differenziava dai tradizionali regimi autoritari e burocratici e gli garantì un consenso attivistico ed esteso anche se superficiale; la distinzione tra movimento e regime. Rifiutò invece la tesi che il fascismo fosse portatore di un progetto di uomo nuovo, perché il contenuto ideologico di esso era di tipo tradizionale: Patria, famiglia, costume guerriero, frugalità ecc..
Oltre che da una incompatibilità caratteriale fu soprattutto dall’episodio della bocciatura di De Felice alla libera docenza e dai rapporti instaurati da Romeo con lui che derivarono la freddezza e poi l’interruzione dei rapporti con Armando Saitta, certamente non rasserenati dalla chiamata sulla cattedra di storia del Risorgimento della Facoltà di Lettere di Emilia Morelli avvenuta nel luglio 1964, e preferita a Saitta anche con il voto di Romeo.
Nell’ottobre del 1964 Romeo assunse la direzione dell’Istituto di Storia moderna, lasciata ad agosto da Nino Valeri e anche da quella posizione, che gli fu rinnovata successivamente fino al 1979, impresse un forte impulso all’attività didattica dell’Istituto e in particolare al suo insegnamento. Al suo arrivo infranse la consuetudine, inaugurata a Messina e proseguita al Magistero di Roma, di svolgere corsi monografici su tematiche sulle quali stava effettuando ricerca direttamente. Non tenne infatti, come i più si aspettavano, un corso su Risorgimento e capitalismo, o anche sul Cavour che stava scrivendo. Esordì invece con un corso monografico su un tema al quale nessuna sua opera, né scientifica né didattica, era stata mai dedicata: Richelieu e la guerra dei Trent’anni, basato su un fascio di dispense e sul volume di Victor-Lucien Tapié, La France de Louis XIII et de Richelieu, nella versione originale francese perché non ne esisteva ancora la traduzione in italiano. In aggiunta gli studenti erano obbligati a leggere la sua Breve storia della grande industria in Italia, ristampata nel 1963, e a partecipare a un seminario a scelta fra quelli tenuti dagli assistenti Mario Signorino e Claudio Signorile, oltre ovviamente a dover studiare la storia generale dalla fine del Quattrocento fino all’età contemporanea inclusa, usando i volumi II e III di un «buon manuale per i licei».
Era un programma impegnativo e complesso, con al centro due fondamentali tematiche della storia moderna europea: da un lato la costruzione dello Stato assoluto in Francia e dall’altro l’instaurazione in Europa, con la pace di Vestfalia del 1648, di un equilibrio tra le grandi potenze segnato dalla preponderanza francese basata sulla frammentazione politico-militare dell’area tedesca e di quella italiana. Un equilibrio protrattosi con diversi avvicendamenti egemonici, ma con la costante della divisione della Germania e dell’Italia fino all’unificazione tedesca e italiana del 1861-70. Le due tematiche erano legate ad un unico gigantesco protagonista del quale non esisteva alcuna biografia di autore italiano (che tutt’oggi continua a non esistere, perché quella di Romeo è una biografia politica e neppure completa).
La decisione di tenere in una posizione defilata le sue opere sul Risorgimento si rivelò negli anni successivi una scelta definitiva dovuta a un duplice ordine di motivi: il primo era dato dalla volontà di non invadere il campo della cattedra di storia del Risorgimento tenuta da Alberto Maria Ghisalberti; il secondo, ad esso strettamente legato, era che il maggior risorgimentista italiano di sempre non fu mai titolare di una cattedra di storia del Risorgimento né a Messina né a Roma, e nei suoi corsi doveva assolvere a obblighi di formazione generale degli studenti imprescindibili dalla conoscenza approfondita dei passaggi fondamentali della storia moderna e contemporanea. I corsi monografici di Romeo riguardarono quindi sempre momenti e problemi di fondamentale importanza della storia moderna e contemporanea, come la nascita della nazione moderna in Europa o la Rivoluzione francese o quella inglese o quella industriale, lasciando alla scelta dello studente eventualmente lo studio del Risorgimento nell’apposito insegnamento. A tal fine nel 1966 si dotò di uno strumento di grande efficacia sul piano didattico, un’antologia di documenti storici preparata assieme a Giuseppe Talamo che dedicava il secondo volume all’età moderna e il terzo all’età contemporanea. Ripetutamente inserì quelle raccolte nella parte monografica dei suoi corsi, leggendo e commentando a lezione i testi, sostenuto dalla sua straordinaria cultura storica. In quegli anni sempr...