Scritture per la scena
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Scritture per la scena

Leggere i testi teatrali

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Scritture per la scena

Leggere i testi teatrali

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Siamo abituati a leggere le opere dei grandi autori teatrali – dai tragici greci a Shakespeare, da Racine a Beckett, da Brecht a Pirandello – come se fossero dei romanzi. Ma scrivere per la scena non è la stessa cosa che scrivere per la lettura. Questo prezioso libro, ricco di storie e aneddoti, ci svela tutti i meccanismi del testo drammaturgico spaziando in duemila anni di storia del teatro.

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1.
Di cosa stiamo parlando

Parliamo di un grande medico e filosofo arabo, Abū al-Walīd Muammad ibn Rushd ibn Amad, meglio conosciuto in Occidente come Averroè, che più di otto secoli fa, al suo tavolo di lavoro a Cordova, cerca di tradurre la Poetica di Aristotele. Ma, pur essendo dottissimo, ha degli intoppi, perché non riesce non tanto a tradurre quanto proprio a dare senso a due parole che nella Poetica sono fondamentali, tragedia e commedia. La ragione è che non può tradurre vocaboli che designano fenomeni di cui non ha conoscenza, dato che la tradizione islamica non conosce né la teoria né la pratica del teatro. Averroè risolve questo enigma linguistico, e concettuale, assimilando la tragedia e la commedia a testi narrativi che appartengono alla sua cultura, annotando sul manoscritto: «Aristù [Aristotele] chiama tragedie i panegirici e commedie le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del Santuario». Come a dire che, non conoscendo la pratica sociale del teatro, Averroè non riesce a concepire la diversità della scrittura per la scena e non può che renderla simile a una normale scrittura narrativa. La situazione che abbiamo descritto appartiene in realtà ad un racconto del grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, La ricerca di Averroè, che tuttavia gli studiosi ci assicurano poggiare su sicure basi storiche.
Questo di Averroè è un esempio di descrizione in negativo di quello di cui stiamo parlando, che ci parla di una situazione in cui non si sa cosa sia un testo teatrale se non si riconosce la sua differenza rispetto agli altri testi. Se l’esempio è sentito come troppo lontano dalla nostra cultura, allora possiamo farne un altro, appartenente alla cultura occidentale e direttamente di argomento teatrale. Verso la fine del Medioevo, quando iniziano a recuperare le testimonianze della cultura antica, anche gli umanisti, come Averroè, si trovano di fronte a una forma per loro sostanzialmente sconosciuta, il teatro appunto, che constatano aver avuto grande diffusione nella cultura greca e romana ma che per secoli era sparito dalla società medievale a causa della violenta campagna ideologica scatenata contro di esso dalla cultura cristiana. Insieme alle tracce di questo fenomeno sociale, gli accademici e gli scrittori del tempo recuperano tuttavia anche i testi che a quel fenomeno erano collegati, soprattutto le opere dei drammaturghi latini come Seneca, Terenzio o Plauto, che i copisti dei monasteri hanno continuato a trascrivere e conservare. La situazione è ancor più stringente di quella che si presenta ad Averroè, che non ha i testi ma solo le parole che li designano, perché gli umanisti possono verificare che quei testi hanno una struttura differente dagli altri e sanno che, proprio perché legati a un fenomeno sociale, non dovevano essere soltanto letti ma in qualche modo dovevano essere utilizzati per produrre quell’evento teatrale di cui si trattava proprio di individuare la nozione.
Tentando di ricostruire la struttura e le modalità di funzionamento del teatro, l’ipotesi che viene formulata e argomentata già dal XIII secolo e variamente per un paio di secoli, appoggiandosi soprattutto sull’autorità delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (del VII secolo), è per noi moderni molto curiosa. Nelle rappresentazioni antiche, dunque, ci sarebbe stata una sorta di edicola dalla quale il poeta leggeva il proprio testo, con degli attori muti e mascherati al di sotto che ne rappresentavano i contenuti a gesti, attorniati dagli spettatori. Interpretazione curiosa, si diceva, ma alla fine possibile perché metteva assieme, sia pur un po’ meccanicamente, elementi che erano realmente presenti nel teatro antico, dal testo agli attori con le maschere al pubblico, se non tutt’intorno almeno a semicerchio o a ventaglio. Il problema è che, nel vuoto di teatro provocato dalla cultura medievale, si era perduta proprio la nozione stessa di rappresentazione, quel meccanismo fondamentale nel teatro secondo cui un attore assume l’identità di un personaggio nella sua totalità, parole, gesti, comportamenti. Meccanismo per noi consueto ma che di fatto era sconosciuto nella pratica dello spettacolo medievale, basato sulle performance dei giullari o sulle cerimonie tramutate in spettacolo del cosiddetto teatro religioso. La conseguenza teorica è che la parola e la scrittura restano separate dall’azione, e dunque il testo teatrale di Terenzio o di Seneca viene assunto come un qualsiasi altro testo, solo da leggere e quindi solo per il suo intrinseco valore letterario, al più da accompagnare con qualche illustrazione di gestualità corporea del tutto separata. Mentre il testo teatrale, noi oggi lo sappiamo bene, proprio in virtù del fatto che deve essere rappresentato dagli attori in uno spazio e un tempo condiviso con gli spettatori, ha una funzione diversa dalla sola lettura, anche pubblica, e per questo ha una struttura formale differente rispetto agli altri testi.
Ma davvero lo sappiamo bene com’è fatto un testo teatrale? Anche a costo di sfiorare la banalità, partiamo da qui: se un testo teatrale non è un testo narrativo o discorsivo come gli altri, cos’è? Com’è fatto? Come si differenzia dagli altri testi? Naturalmente ci sono elementi che ritroviamo comuni in altre tipologie di testi. Il titolo, ad esempio, che in qualche modo indirizza la lettura del testo nella direzione voluta dall’autore. Una differenza può riscontrarsi tuttavia nel fatto che, essendo il testo teatrale spesso incentrato su un personaggio, più frequentemente che altrove si trovano titoli che, specie nella tragedia, identificano il personaggio principale. Basterebbe pensare a molti titoli delle tragedie greche, ma anche a molti drammi shakespeariani o a tante tragedie di Racine o di Alfieri. In altri contesti, ad esempio nella commedia, sarà più frequente trovare un titolo che identifica un vizio più che un personaggio, o meglio un personaggio che diventa la personificazione di un vizio (l’avaro, il misantropo, il malato immaginario). In altri ancora, come nel dramma moderno, il titolo indicherà piuttosto una situazione o una condizione, inducendo simbolicamente una chiave di lettura dell’opera: per fare qualche nome, Casa di bambola o Spettri di Ibsen o Il gabbiano o Il giardino dei ciliegi di Čechov o La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlio. Anche se talvolta il titolo può essere depistante, visto che la protagonista vera dell’Agamennone di Eschilo è in realtà Clitennestra, la protagonista dell’Ippolito di Euripide è certamente Fedra e alla fine non è così sicuro che il protagonista dell’Otello shakespeariano sia proprio Otello e non piuttosto il suo antagonista Jago. E in contesti più ironici e meno tradizionali, specie nel Novecento, il meccanismo del depistaggio indotto dal titolo può anche essere più spregiudicato, se si pensa che Eugène Ionesco intitola un suo testo La cantatrice calva, quando nel testo non c’è traccia di cantanti, né calve né pettinate, se non in uno scambio di battute volutamente assurdo: «e la cantatrice calva?», «Si pettina sempre allo stesso modo!».
Altrettanto indicativo della volontà dell’autore di indirizzare la comprensione dell’opera, e talvolta altrettanto fuorviante, è spesso il sottotitolo che il drammaturgo utilizza per specificare il genere a cui l’opera dovrebbe appartenere. Nel teatro greco o nei drammi shakespeariani non c’è bisogno di specificazioni, visto che il titolo e il contesto sono autosignificanti, mentre in Molière le opere sono indicate descrittivamente come «commedie» o «farse» oppure, quando è il caso, come «commedie-balletto». È semmai nella drammaturgia moderna che compaiono indicazioni più interessanti. Ad esempio Čechov designa Il gabbiano, Tre sorelle e Il giardino dei ciliegi come «commedie in quattro atti», anche se i finali sono amari, e Zio Vanja invece «scene dalla vita di campagna», anche se l’andamento è da commedia e il finale, pur se sconsolato, è forse meno drammatico che nelle altre opere. Ibsen invece indica genericamente le sue opere come «drammi», tranne che per Spettri, specificato come «un dramma familiare», quasi a voler insistere sulla dimensione familiare della vicenda, che tratta della trasmissione ereditaria di una malattia. E Pirandello sottotitola Così è (se vi pare) come «parabola in tre atti», indirizzando la lettura del testo verso una interpretazione metaforica, come appunto si trattasse di una parabola esemplare. È poi soprattutto August Strindberg, che del resto è il più eclettico tra i drammaturghi del periodo tra Ottocento e Novecento, a offrirci uno spettro molto ampio, con sottotitolazioni anche fantasiose. Così, se spesso le indicazioni sono generiche, tipo «dramma in cinque atti» o «tragedia in quattro atti», altre volte sono molto più precise, come I creditori, ad esempio, che è definita «tragicommedia», una categoria utilizzata nel teatro del Cinquecento e soprattutto del Seicento e di cui si erano perse le tracce da secoli, o L’avvento, che è qualificato come «mistero in cinque atti», con un richiamo evidente a testi del Medioevo. La sua opera forse più importante poi, La signorina Julie, si richiama al contesto naturalista («spettacolo naturalistico»), anche se non sono trascurabili le sue dimensioni simboliche.
Proseguendo nella pura descrizione esterna, vediamo che un testo teatrale ha al proprio interno delle scansioni. La tragedia greca possiede una rigida struttura con cadenze interne, tra prologo, parodo (l’entrata in scena del coro), episodi (a cui è demandato lo svolgimento dell’azione), stasimi (gli interventi del coro a commento) ed esodo, ma senza cesure. E senza cesure sono anche le commedie romane, quelle di Plauto e Terenzio, la cui partizione in atti è opera degli editori rinascimentali. Perché è appunto nel contesto della cultura rinascimentale che nasce quell’unità drammaturgica che è l’atto, la scansione che da lì diventa canonica nei testi teatrali. Certo, anche altre scritture come i romanzi o i saggi hanno delle partizioni, come i capitoli o i paragrafi, ma l’interruzione della continuità del testo prodotta dagli atti è molto più determinante e significativa. Perché al cambio di atto quasi sempre cambia l’ambientazione dell’azione e spesso anche la dimensione temporale (altro momento della giornata o addirittura un altro giorno o un’altra stagione). In questo modo l’atto si definisce, ben più del capitolo di un romanzo, come un’unità che ha in sé una propria compiutezza drammatica, una propria unità strutturale. Gli atti sono poi numerati progressivamente e sono di numero variabile: uno (e allora il testo si qualificherà come atto unico), tre, quattro o cinque, molto raramente due, se non in certi casi della drammaturgia contemporanea.
All’interno degli atti ci sono poi le scene, unità drammatiche ancora più piccole, anch’esse numerate progressivamente all’interno dello stesso atto. Le scene tuttavia solo raramente possiedono un’unità e un’autonomia compiute, dato che la scansione in scene, per convenzione, è determinata solo dal cambiamento del numero dei personaggi in palcoscenico: la scena cambia numerazione, anche se la vicenda prosegue senza interruzioni, solo perché è entrato un nuovo personaggio o qualcuno è uscito. Questa, ad esempio, è la ragione per cui Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello non ha scansioni in scene, perché i personaggi sono sempre assieme sul palco. E peraltro quel testo non avrebbe tecnicamente neanche una partizione in atti, perché le due interruzioni che consentono gli intervalli sono giustificate dalla necessità di andare altrove per scrivere il testo e dall’incidente tecnico del sipario calato per sbaglio. E comunque in generale nei testi contemporanei, in cui saltano molti dei parametri della drammaturgia tradizionale, non è inconsueto trovare testi senza scansione in atti ma solo in scene, oppure con atti ma senza scene interne, oppure senza alcuna partizione di alcun tipo.
Sfogliando un qualsiasi testo teatrale, si vede poi che al suo interno presenta due tipi di scritture, solitamente una in carattere tondo e una in carattere corsivo. In tondo sono le battute del personaggi, precedute dal nome di chi le pronuncia, e in corsivo sono le didascalie. Le battute costituiscono l’enunciazione di ciascun personaggio, ossia le parole che il personaggio pronuncia. È l’insieme delle battute che definisce sia l’identità del personaggio sia la rete dei suoi rapporti con gli altri personaggi. Le didascalie hanno invece la funzione di contestualizzare le battute, indicando ad esempio la modalità e il tono con cui devono essere pronunciate, definendo così l’intenzionalità di quell’atto verbale. Un insulto, qualificato in didascalia come espresso con rabbia o in tono scherzoso, cambia notevolmente il proprio significato e quindi la propria funzione nello sviluppo della vicenda. Altre volte la didascalia specifica le azioni, i movimenti, i gesti, anche le espressioni della mimica facciale dei personaggi, e fornisce ancora una volta informazioni sulla coerenza tra l’enunciazione verbale e il comportamento, oppure indica le reazioni di altri al discorso di un personaggio o il manifestarsi in scena di elementi non verbali, come i suoni e i rumori, i cambiamenti di luce, la presenza significante di oggetti. Per fare solo un esempio, non si capirebbe l’ambiguità sostanziale della scena di Casa di bambola di Ibsen in cui Nora mette in atto un sottile processo di seduzione del dottor Rank, a cui vuole chiedere un prestito per uscire da un pasticcio in cui si trova, se la didascalia non avvertisse che «durante la scena che segue comincia a imbrunire», di modo che man mano che l’operazione di seduzione procede, la luce progressivamente si abbassa, fino a raggiungere la penombra. In qualche modo si può dire che la didascalia, almeno in parte, fornisca alle battute il sottotesto, entità peraltro di più ampia portata di cui parleremo altrove. Se il testo, ossia l’insieme delle battute, definisce l’enunciato, il sottotesto, in questa accezione, definisce il contesto, la modalità con cui l’enunciato dovrebbe essere inteso e interpretato.
Soprattutto nella drammaturgia moderna, tuttavia, la didascalia assume anche un compito più impegnativo, che è quello di definire la struttura dello spazio in cui si svolge l’azione, l’impianto scenografico. Basterebbe leggere le didascalie a ogni apertura d’atto dei testi di Ibsen o di Čechov per comprendere questa funzione. Esemplare ad esempio è la didascalia iniziale di Casa di bambola:
Un salotto accogliente e pieno di gusto, ma arredato senza lusso. Una porta, sul fondo a destra, conduce fuori in anticamera; un’altra porta, sul fondo a sinistra, conduce dentro la stanza da lavoro di Helmer. Fra queste due porte un pianoforte. A metà della parete di sinistra una porta e, un po’ più avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo con poltrone e un piccolo sofà. Sul lato della parete di destra, un po’ indietro, una porta, e sulla stessa parete, verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti un paio di poltrone e una poltrona a dondolo. Fra la stufa e la porta laterale un tavolinetto. Una étagère con oggetti di porcellana e altri ninnoli artistici; una piccola biblioteca con libri rilegati splendidamente. Tappeto sul pavimento; fuoco nella stufa. Giornata d’inverno.
C’è tutto, la designazione del tempo («giornata d’inverno»), la descri...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. Di cosa stiamo parlando
  3. 2. La struttura drammatica
  4. 3. Il personaggio teatrale
  5. 4. I generi teatrali
  6. 5. Il tempo e lo spazio
  7. 6. Il testo e il contesto
  8. 7. Percorsi