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Cosa sbaglia l'Italia sui cervelli in fuga

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Cosa sbaglia l'Italia sui cervelli in fuga

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Anziché dare la colpa ai cosiddetti 'cervelli in fuga' bisogna comprendere e sanare le condizioni che ne causano la fuga e, soprattutto, che rendono l'Italia una meta non attrattiva per i talenti di altre nazionalità.

Questo libro è prezioso, necessario, urgente. È ora che dell'emigrazione qualificata, dall'Italia verso il resto del mondo, si discuta in modo serio e senza stereotipi.Dalla Prefazione di Federico Rampini

«Sono stufa del fatto che l'opinione pubblica e i politici considerino noi cervelli in fuga o privilegiati traditori o disgraziati vittime delle circostanze. Vorrei che questo libro facesse breccia nell'immaginario comune contribuendo a costruire una nuova narrazione.» La storia della generazione perduta di talenti è davvero come la raccontano? L'Italia è colpita dal fenomeno quanto gli altri grandi paesi europei ma con alcune evidenze preoccupanti che rendono la situazione più drammatica, come l'accelerazione dell'emigrazione qualificata negli ultimi dieci anni e la scarsità di laureati prodotti dal nostro sistema educativo. Gli effetti negativi della fuga di cervelli sono particolarmente evidenti quando, come nel caso dell'Italia, tende a essere una fuga unidirezionale.Il libro si propone di sfatare alcuni miti, indagare il fenomeno da una prospettiva internazionale più ampia e dare voce a chi è partito, grazie alle testimonianze raccolte dall'autrice. Un paese o un governo che si voglia occupare di talenti deve pensare a come svilupparli e dar loro opportunità affinché restino, ma anche a come attirarli da altrove.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858146927
Argomento
Economia

1.
Che cos’è la fuga dei cervelli?

“Come se il contribuente italiano pagasse una Ferrari per poi regalarla ai tedeschi”. È con queste parole che Giorgia Meloni ha definito il fenomeno della fuga dei cervelli. La leader di Fratelli d’Italia si riferiva al fatto che, secondo stime OCSE, un italiano con dottorato, tra studi, spese della famiglia e prestazioni di welfare state, costa un totale di circa 250.000 euro. Il valore di una Ferrari, insomma, che regaliamo a qualcun altro quando decidiamo di lasciare il nostro paese. Cara Giorgia, questo libro spero ti convincerà che la fuga dei cervelli è un fenomeno molto più complesso della perdita di una Ferrari e che le politiche per contenerla/gestirla non possono limitarsi a considerare i cervelli in fuga come tante Gioconde da riportare in patria.
Proprio la superficialità con cui spesso viene trattato questo tema, tra un aneddoto e l’altro, è stata una delle ragioni per cui ho deciso di scrivere questo libro. Per fortuna non sono l’unica a pensare che debba essere affrontato in maniera più seria e, infatti, questo tema beneficia sempre più spesso, oltre che dell’attenzione di politici come Giorgia Meloni, dell’interesse di circoli politici, universitari e di tutti coloro che in generale si interessano del benessere del paese. È un campo di studi in continua evoluzione, che si scontra con dati difficili da reperire e talvolta contraddittori, ma la cui importanza è aumentata a dismisura nel nostro mondo post-fordista in cui la crescita e lo sviluppo si basano sull’economia della conoscenza e del capitale umano.
Storicamente si può parlare di fuga dei cervelli fin dalla nascita delle prime comunità della conoscenza nell’antica Grecia, e già nel basso Medioevo e nel Rinascimento i cervelli in fuga erano un problema reale per le università e le signorie locali. Si trattava spesso di pensatori che lasciavano le città in cui vivevano alla ricerca di luoghi più liberi, attirati dalle varie corti o dalle università concorrenti. La moderna concezione del fenomeno nasce però soltanto negli anni Sessanta per mano della British Royal Society, che per prima affrontò il tema nel rapporto Emigration of Scientists from the United Kingdom. La ricerca, pubblicata nel 1963, analizza il flusso in uscita di scienziati e tecnologi verso gli Stati Uniti e il Canada avvenuto durante gli anni Cinquanta, un fenomeno che proprio in quell’occasione verrà battezzato brain drain in un articolo dell’“Evening Standard”. Da allora il concetto di brain drain è stato ripreso nella letteratura accademica sulle migrazioni e ridefinito più genericamente come un trasferimento di risorse sotto forma di capitale umano da un paese meno sviluppato ad uno più sviluppato.
Del tema si sono occupate molto le organizzazioni internazionali, con l’intento di evitare che si ampliassero ulteriormente le differenze tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati a causa della fuga di lavoratori qualificati. Un corposo filone di studiosi considera infatti il trasferimento di migranti qualificati una perdita per il paese d’origine e un guadagno per quello di destinazione. In questo genere di calcolo, l’unità di misura dell’effetto totale non è l’individuo ma lo Stato-nazione da cui proviene. Più recentemente, tuttavia, si è cominciato a considerare il brain drain come un elemento della più ampia circolazione di capitale e lavoratori facilitata dalla globalizzazione, un fenomeno apparentemente inarrestabile i cui effetti sono più sfumati di quanto possa sembrare. Si parla quindi di brain circulation, una serie di complesse dinamiche, di spostamenti multipli, di ritorni e di ripartenze. Gli Stati non sono più semplicemente perdenti o vincenti, ma fanno parte di un sistema dinamico di scambio di capitale umano dovuto al passaggio necessario verso un’economia della conoscenza, per cui la risorsa reale e dominante, il fattore di produzione assolutamente decisivo, non è più il capitale, la terra o il lavoro, ma la conoscenza. Questo è soprattutto vero in aree dove la circolazione di persone è libera e il settore terziario molto sviluppato, come nell’Unione Europea1. Sembra crederci in modo particolare anche il Consiglio dei ministri europei, i cui ministri dell’Istruzione nel gennaio 2020 hanno ricordato con un comunicato congiunto i loro sforzi verso
lo sviluppo di competenze trasversali, interculturali e linguistiche, una più alta impiegabilità, una comprensione maggiore della propria identità, crescita personale e maturità oltre allo sviluppo di un’identità europea attorno ai valori fondanti. La mobilità della conoscenza è associata a mobilità futura, stipendi maggiori e minore disoccupazione, oltre ad essere positivamente correlata a migliore comprensione reciproca, apertura e skills di cittadinanza2.
Vedremo più avanti perché, a mio avviso, la posizione dei ministri europei è condivisibile e perché ritengo che l’approccio tradizionale al brain drain sia invece perdente.

Alla ricerca di una definizione

Nell’immaginario collettivo i cervelli in fuga sono i talenti che ci lasciamo sfuggire: gli intelligentissimi ricercatori che prendono research grants in prestigiose università francesi, gli ambiziosi banchieri a Londra e Francoforte, gli imprenditori innovativi della Silicon Valley.
In effetti, l’OCSE per definire un cervello in fuga utilizza due criteri: istruzione e professione. Per quanto riguarda l’istruzione si considera che le qualifiche accademiche e, in genere, una formazione terziaria (universitaria o equivalente) basti a rendere qualcuno un “cervello”. Secondo questa definizione, però, gli studenti universitari e pre-universitari non andrebbero contati. Tuttavia, chi studia il fenomeno argomenta che andrebbero invece inclusi, soprattutto se si vuole calcolare l’impatto economico della migrazione. E già qui iniziano i primi problemi. Per esempio, io ho studiato in Inghilterra e l’Italia non ha pagato uno dei miei anni di studio al liceo (anche se lo hanno fatto i miei genitori); inoltre, la borsa di studio che ho ricevuto per il PhD alla London School of Economics era pagata dal contribuente inglese.
Il secondo elemento definitorio – si è detto – è quello della professione: si definiscono cervelli in fuga gli highly skilled workers, anche definiti come qualified workers, e in particolare le human resources in science and technology (HRST). Purtroppo, neanche in questo caso esistono perimetri chiari e non è facile tracciarli, basti pensare a tutte quelle persone che emigrano e si ritrovano a fare lavori meno qualificati. Nel mondo accademico si parla di brain waste, uno spreco di capitale umano spesso dovuto alle difficoltà (ancora molto marcate anche in territorio europeo) di vedere riconosciuti i propri titoli e le proprie qualifiche, oppure a questioni linguistiche: si pensi ai laureati che vanno a perfezionare l’inglese facendo i camerieri in Regno Unito o i contadini in Australia.
La definizione di cervello in fuga è complessa e si riflette nella mancanza di un identificativo standard nelle statistiche sulle popolazioni o nei dati delle organizzazioni internazionali come l’OCSE. Ci sono parecchi aspetti che rimangono aperti. Per esempio, c’è da domandarsi se il luogo di formazione qualifichi o meno qualcuno come cervello in fuga. Un ragazzo italiano che ha compiuto tutti i suoi studi all’estero vale come un manager cinquantenne che si trasferisce dopo qualche anno di lavoro? E che dire di quei migranti senza un’istruzione di livello avanzato che, arrivati in un nuovo paese, trovano modo di esprimersi in altri campi, come lo sport ad alto livello?3
Viste queste difficoltà, ho quindi deciso di utilizzare l’espressione “cervelli in fuga” in modo piuttosto inclusivo, raccogliendo storie di lavoratori qualificati, accademici e studenti italiani (ancora in corso di formazione) che sono partiti, per capire le loro prospettive, i loro percorsi e i loro bisogni. Talenti e potenziali talenti, il cui destino è tutto da scrivere, come Roberto che, anche se non ama definirsi un “cervello”, vive e lavora a Zurigo da un po’ di anni:
«Sono un ingegnere informatico. Ero e sono apprezzato e benvoluto nell’ambiente di lavoro sia prima in Italia che ora in Svizzera, ma il mio CV non è eccellente, è un buon CV... Non siamo geni, ma sappiamo fare cose che richiedono competenze non comuni e non veloci da acquisire. E l’Italia le lascia andare via. Perché per me il problema non sono i 10 geni della ricerca che se ne vanno, ma i 10.000 laureati con esperienza che sono stati spinti fuori, si sono rifatti una vita altrove e non hanno molta voglia di tornare a tribolare».
Prima di passare ad analizzare che cosa possa spingere le persone a partire, ci tengo però a fare una premessa necessaria che viene spesso dimenticata quando si tratta il fenomeno dei cervelli in fuga, ovvero che la crescita della mobilità internazionale è un elemento fisiologico in un mondo che diventa sempre più interconnesso e globalizzato. Secondo i dati riportati nel report della Commissione Europea sulla mobilità lavorativa intraeuropea, la percentuale di cervelli in fuga è andata aumentando, raddoppiando tra il 2007 e il 2016, fino a raggiungere un totale di circa 3 milioni, come evidenzia la Figura 1. Di questi, due su tre hanno meno di 45 anni, quindi relativamente giovani.
Sempre lo stesso studio spiega, inoltre, che, una volta partiti, i cervelli tendono a restare sempre più spesso nel paese che li accoglie. Se prima la gran parte dei cervelli rientrava prima che fossero trascorsi dieci anni, ora in media i migranti restano all’estero per più di dieci anni. Prendendo come riferimento i paesi OCSE, tra il 1990 e il 2010 i lavoratori migranti low skilled sono aumentati del 40%, mentre quelli con istruzione superiore sono cresciuti del 130%. Anche la mobilità studentesca globale è aumentata in modo costante: secondo “University World News”, nel 1975 gli studenti che lasciavano il proprio paese erano 800.000 l’anno, un numero più che raddoppiato in venticinque anni (oltre 2 milioni nel 2010).
Figura 1. Numero totale di cittadini europei laureati che risiedono in altri paesi diversi da quello di origine (2007-2016) (fonte: rielaborazione dati EUROSTAT).
Figura 1. Numero totale di cittadini europei laureati che risiedono in altri paesi diversi da quello di origine (2007-2016) (fonte: rielaborazione dati EUROSTAT).
Spesso chi parte fa una scelta consapevole e convinta, come ci conferma Giaco...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione di Federico Rampini
  2. Introduzione
  3. 1. Che cos’è la fuga dei cervelli?
  4. 2. Non tutte le partenze vengono per nuocere
  5. 3. Il caso Italia e la sua fuga di cervelli
  6. 4. Le cause del brain drain italiano
  7. 5. Politiche per affrontare il brain drain
  8. 6. La mia proposta: per arginare l’emigrazione di talenti bisogna incentivare la mobilità
  9. 7. Conclusioni
  10. Bibliografia
  11. Ringraziamenti