Le religioni
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Le religioni

  1. 208 pagine
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Le religioni

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L'integrazione fra culture diverse costituisce la sfida più formidabile della modernità. Questo volume esamina la dimensione religiosa del confronto con l'altro, col diverso, e ne prospetta infine soluzioni giuridiche ancora tutte da sperimentare, per un diritto che sia davvero cosmopolita.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858118771
Argomento
Diritto

Introduzione

1. Religione e Altro

Fede e ragione, religione e diritto, religione e politica, religione ed etica, sacro e mondano, coscienza (libertà di) e autorità, Stato e Chiesa, universale e individuale, laico e religioso. Queste e numerose altre opposizioni o coppie oppositive sono iscritte nel codice genetico della modernità e in ciascuna di esse la religione ricopre una posizione determinante equivalente all’altra faccia della dimensione pubblica, al dominio del potere politico e dell’esperienza giuridica.
Disegnare una mappa anche approssimativa delle origini di queste opposizioni, dei loro contesti genetici, delle loro motivazioni storiche sarebbe un’opera ciclopica. Anche a non voler inseguire il dettaglio, i soli aspetti generali richiederebbero un’investigazione a largo raggio lungo tutto l’itinerario di sviluppo della tradizione culturale dell’Occidente. Occuparsene in un breve volume dal taglio divulgativo potrebbe apparire un controsenso o un tentativo certamente fallimentare. Ed è inutile non riconoscere che sia così.
Eppure nessuna delle opposizioni prima elencate è assente da quel complesso di saperi impliciti, di presupposizioni che popolano la mentalità comune, il modo di pensare che ogni giorno a diverso titolo ci vede attori della scena sociale più o meno ordinaria nei paesi cosiddetti occidentali. Quelle opposizioni disegnano linee di confine che tutti avvertono come invalicabili, certe, persino ovvie. E questo è vero non soltanto nella sfera pubblica, ma anche in quella privata dominata dalle più immediate verità e reazioni psicologiche. Chi accetterebbe che le sue convinzioni politiche dovessero rispondere ai dictat di un’autorità religiosa? Chi rinuncerebbe alla libertà di orientare la propria coscienza, il proprio senso del giusto secondo i propri convincimenti individuali, i più intimi? Chi consentirebbe che le regole della convivenza pubblica, i presupposti e i principi da rispettare per potersi dire cittadino dipendessero dal rispetto di una piuttosto che di un’altra ortodossia religiosa? Chi consentirebbe che la fede nel trascendente e le sue verità dogmatiche intralciassero il cammino e i progressi della ragione pratica, della ricerca scientifica, del dibattito democratico? Forse nessuno – quanto meno a patto che sia vittima diretta di simili restrizioni.
Nella sicurezza di questa risposta è racchiusa la consapevolezza che nel bene o nel male nessuno, tra gli occidentali, può non dirsi figlio della modernità. Questo perché sono stati i percorsi della modernità a rendere autoevidenti quelle opposizioni e le loro conseguenze pratiche riscontrabili nelle pieghe della quotidianità, del vissuto di ciascuno.
Ma è proprio a partire da queste evidenze culturali, per ipotesi riguardate come un dato immediatamente percepibile, un grado zero nella lettura delle società contemporanee, che può giustificarsi un’indagine che investa i rapporti tra religione e istituzioni democratiche. Quelle evidenze infatti cominciano a mostrare segni di cedimento, crepe progressivamente più larghe; e si fa sempre più diffusa la percezione di un imminente collasso delle certezze che hanno costituito per secoli i pilastri portanti di quelle opposizioni e dei corrispondenti abiti sociali. Simili trasformazioni costringono a volgere lo sguardo verso il futuro, lo sguardo di tutti. Esse perciò legittimano ad assumere un atteggiamento pratico nei confronti del passato, attento a raccogliere da esso, di volta in volta, quel tanto che basti per evitare di muovere il prossimo passo in avanti in una totale assenza di consapevolezza su quel che sembra tramontare, sugli abiti mentali che il tempo ci impone di dismettere. Senza un po’ di quella consapevolezza, d’altronde, si avanzerebbe al buio poiché anche il nuovo, che comunque è figlio del vecchio, apparirebbe senza volto, privo di qualsiasi connotazione riconoscibile.
È in questa prospettiva e nei limiti di essa che si presenta la possibilità di offrire una lettura relativamente accessibile dei rapporti trascorsi tra religione e diritto nell’ambito dell’esperienza della modernità.
Possibilità e necessità di una simile lettura vengono intrecciate dai rivolgimenti e dalle metamorfosi che oggi subiscono gli assi culturali posti a sostenere le molteplici forme di opposizione tra fede e ragione. Le relazioni dialettiche tra di esse si collocano comunque entro i confini di una esperienza culturale, quella dell’Occidente, questo almeno quando si parla di modernità. Ma sono quei confini che oggi sembrano modificarsi sia nelle loro articolazioni interne, sia in quelle propriamente esterne. Il mondo occidentale è dominato dall’evoluzione tecnologica, che modifica a una velocità sempre maggiore le forme del vissuto, della quotidianità. Costumi sociali, abiti mentali, luoghi comuni, modelli di comportamento appartenuti ininterrottamente al passato sociale divengono sempre più frequentemente e massicciamente obsoleti. Parallelamente, le forme dell’esperienza giuridica occidentale, mutuate dagli ordinamenti democratici attraverso il filtro di una tradizione plurimillenaria risalente al diritto romano, sembrano collassare su se stesse, perdere irrimediabilmente il legame sottostante tra fini e mezzi che sostiene la ragionevolezza e in definitiva la stessa effettività del diritto. Nell’indicare questo fenomeno non mi riferisco tanto o soltanto alle strutture organizzative dello Stato, al diritto pubblico, ma soprattutto al diritto civile e anche al diritto penale. Famiglia, matrimonio, contratti, successioni, per non parlare di tutta l’elaborazione giuridica legata al mercato e agli scambi come al diritto del lavoro, sono istituti che vanno smarrendo, nella loro forma attuale, il proprio coefficiente di effettività. La realtà sociale narra di strade e strategie sempre più diverse seguite dall’esperienza quotidiana per articolare e realizzare i propri interessi in un mondo profondamente mutato rispetto al passato: strategie diverse e progressivamente più lontane dagli schemi di comportamento e dagli obiettivi soggiacenti alle prescrizioni corrispondenti alle categorie centrali della tradizionale esperienza giuridica occidentale.
Occorre considerare però anche un ulteriore fattore di metamorfosi delle forme di vita prodotte dalla modernità occidentale. Esso coincide con la rottura dei confini esterni tra le culture, con la fluidità delle loro sovrapposizioni, con il modificarsi incontrollabile della geografia etnica prodotto dall’imponenza dei flussi migratori odierni, dalla loro velocità e soprattutto dall’interdipendenza economica, ma ormai anche morale, affettiva, in una parola umana che li accompagna. Popolazioni un tempo destinate ad avere complessivamente contatti relativamente rarefatti, connessi per lo più a traffici e transazioni economiche e commerciali, oggi si trovano a condividere gli stessi spazi vitali, gli stessi circuiti di esperienza quotidiana, a confrontare le loro differenze commisurandole con gli aspetti più intimi del proprio vissuto, della propria mentalità, dei propri valori, delle proprie credenze, in breve dei propri retaggi culturali.
Ma cosa hanno a che fare queste trasformazioni con il rapporto tra religione e democrazia, tra religione e diritto?
Il dilemma che si trova oggi a dover affrontare il mondo delle culture, e in particolare il mondo occidentale, è quello della competizione tra forme di vita e linguaggi diversi destinati a convivere all’interno di un campo di esistenza che pare unificarsi inesorabilmente e sempre più rapidamente. Una competizione che pare infrangere gli steccati tra pubblico e privato elaborati dalle moderne democrazie costituzionali proprio perché sembra trascinare sotto il fuoco della critica la stabilità di categorie di pensiero e abiti vitali che la modernità occidentale aveva fatto assurgere a verità di ragione, spesso in modo scontato, ma mutuandole in modo irriflesso dalla propria tradizione culturale. Una tradizione che ci obbliga a chiamare in causa un’entità che finora, volontariamente, non è stata mai nominata: il cristianesimo.
Il contatto fra universi culturali diversi, e quindi fra tradizioni giuridiche differenti, spesso del tutto aliene dall’idea di laicità e dalla distinzione tra fede e ragione, tra religione e politica ecc., improvvisamente sembra precipitare nel caos i dualismi e le barriere concettuali partoriti dalla modernità, insieme alla presunta autoevidenza o pura razionalità delle sue categorie politiche e giuridiche. Quelle differenze sembrano divenire incomprensibili senza far riferimento agli universi religiosi corrispondenti, alla capacità propria di ogni tradizione di fede di creare orizzonti di senso, interpretazioni del mondo e quindi ordine semantico, normatività. Leggere queste differenze unitamente allo sforzo di superarne l’apparente incommensurabilità, soprattutto tra i linguaggi giuridici di riferimento, impone necessariamente profonde escursioni nell’ambito dei saperi religiosi. Accade così che si produca una sorta di effetto specchio, più esattamente autoriflessivo, nella mente dell’indagatore occidentale. Un effetto che conduce a riconoscere la connotazione religiosa di molte delle nostre categorie giuridiche ritenute laiche e razionali e la loro incomprensibilità al di fuori dei contesti di significato perimetrati dalla tradizione cristiana.
Acquisire questa consapevolezza significa porre in discussione la pura razionalità e quindi l’universalità di quelle categorie. Un’acquisizione che obbliga però a ridisegnare il posto della religione all’interno delle scansioni politiche e sociali. La modernità è infatti riuscita a immunizzarsi dai conflitti religiosi che hanno accompagnato la fine del Medioevo e il tracollo dell’unità dell’orbe cristiano d’Occidente relegando la religione nell’ambito del privato, nell’area della libertà, della differenza individuale, della coscienza e sottraendo questi domini al controllo politico. In questo modo essa ha però occultato il debito che la tradizione culturale d’Occidente, e quella giuridica in modo particolare, aveva contratto con il cristianesimo.
Ma la collocazione periferica della religione rispetto alla dimensione pubblica, il suo riposizionamento nell’area del privato, della differenza, della coscienza individuale deliberato dalla modernità sembra inconciliabile con le esigenze che nascono dal confronto sia con i mutamenti sociali contemporanei, sia con le altre culture e le istanze di riconoscimento giuridico che da esse germinano. Queste infatti si pongono in antagonismo con le categorie di fondo dell’esperienza giuridica occidentale che il cristianesimo aveva contribuito a forgiare e delle quali la ragione giuridica laica si è appropriata soprattutto per merito dell’umanesimo giusnaturalista del XVII secolo. In discussione non sembrano perciò tanto e soltanto gli spazi di libertà cultuale, quanto piuttosto i modi di pensare la famiglia, la persona, il soggetto di diritto e la sua capacità giuridica, i canali della reciprocità tra i soggetti di diritto e i loro contenuti, il fondamento e le modalità di articolazione degli obblighi contrattuali, i confini sostantivi tra ciò che è giuridicamente valido e ciò che è privo di effetti o nullo. Questo antagonismo ha una esplicita radice culturale, ma soprattutto mette in mostra una connotazione religiosa che fa tutt’uno con la forza delle richieste di riconoscimento. Nel crogiuolo della metamorfosi multiculturale della società occidentale la religione sembra quindi abbandonare i territori della differenza, e sfruttando le enunciazioni universaliste contenute nelle Costituzioni democratiche aggredisce criticamente quel plafond di assiomi razionali e normativi che ha costituito l’asse portante dell’esperienza giuridica dell’Occidente moderno, mettendone a nudo dialetticamente l’ascendenza religiosa e il carattere sotterraneamente mistificatorio ed etnocentrico di ogni suo tentativo di occultamento.
«Universalismo in crisi»: parrebbe questa la formula adatta a sintetizzare gli effetti della contrapposizione tra culture, esperienze giuridiche e loro proiezioni religiose che caratterizza il presente planetario delle società umane e in particolar modo delle società occidentali autoproclamatesi portavoce dell’universalismo giuridico razionalista. L’amara e problematica scoperta della contemporaneità non sembra consistere solo in una sconfessione di fatto dell’universalità dei principi giuridici elaborati sin dall’epoca del giusnaturalismo occidentale e quindi dagli albori dell’epoca moderna, ma anche, e forse soprattutto, nel collasso della loro universalità sul piano normativo e razionale poiché il loro differenziarsi da altre forme di vita sociale e di esperienza giuridica mostra origini e connotazioni consistentemente legate alla tradizione religiosa cristiana.
A vacillare è l’idea di una fede laica e razionale negli assiomi di fondo del diritto occidentale, soprattutto in quelle categorie che scandiscono la quotidianità e da secoli strutturano in profondità e in modo irriflesso gli abiti sociali e linguistici degli ordinamenti europei e americani. Quella fede si rivela assai più intrisa di religione di quanto il pensiero moderno sia andato affermando negli ultimi cinque secoli. Prendere atto di questa circostanza è un passo intellettuale destinato ad abbattersi poderosamente sugli steccati che delimitano i rapporti tra religione e diritto negli ordinamenti democratici e a imprimere una direzione inaspettata e per molti versi imprevedibile alle ricadute istituzionali e giuridiche del multiculturalismo contemporaneo.

2. Secolarizzazione, giusnaturalismo e libertà religiosa

La crisi dell’universalismo razionalista del diritto occidentale e l’evidenziarsi delle sue radici e connotazioni semantiche di matrice religiosa richiedono uno sforzo di comprensione e ricostruzione rivolto verso le sue origini moderne. Impostando il viaggio a ritroso nel tempo in direzione di esse le prime stazioni d’arrivo risultano costituite dalle due espressioni “secolarizzazione” e “giusnaturalismo moderno”.
Il termine secolarizzazione è uno dei più equivoci e ambigui del lessico politico. Al tempo stesso la sua utilizzazione è così diffusa e irriflessa da costituire quasi un presupposto di fondo, una sorta di chiave contestuale per tutti i discorsi che investano i rapporti tra la religione e le altre aree del pensiero che con essa in un modo o nell’altro abbiano o abbiano avuto contatti. Tecnicamente la secolarizzazione indica l’eversione dell’asse ecclesiastico, cioè il trasferimento del patrimonio della Chiesa alle istituzioni statali: un fenomeno che ha caratterizzato e accompagnato l’affermarsi di numerose democrazie europee. In questa accezione essa assume un significato materiale, economico. L’idea del trasferimento però possiede una sorta di latenza diffusa che sta alla base dell’utilizzazione del termine anche per riferirsi alla dimensione di pensiero, ideale. Qui si ritrovano due correnti interpretative di fondo. Esse identificano la secolarizzazione rispettivamente con un processo intellettuale, connotativo della modernità e consistente nell’affrancamento delle categorie del pensiero filosofico, politico, giuridico e scientifico in genere dagli elementi teologici e quindi con una rottura epocale ed epistemologica tra civiltà moderna e civiltà medievale; e, sull’altro fronte, con la riduzione a verità razionali di categorie del pensiero precedentemente elaborate nell’ambito della teologia cristiana o comunque sotto la sua influenza determinante. Queste letture non si escludono a vicenda. Esse indicano momenti diversi del processo indicato con l’espressione secolarizzazione ed entrano in contrapposizione soltanto se ciascuno di essi venga indicato e assunto in modo esclusivo. Molto dipende dagli obiettivi degli interpreti e dalle loro opzioni ideologiche.
Qui non è possibile indagare tutte le modalità di contrapposizione tra queste due interpretazioni avuto riguardo alla molteplicità di discipline e di idee giudicate ora il prodotto di un’evoluzione priva di discontinuità profonde tra elaborazione medievale e moderna, ora il frutto di vere e proprie opere di rifondazione. Ma che ogni rifondazione utilizzi materiale di risulta derivante dalle demolizioni del passato è inevitabile. Ogni innovazione deve poggiare, per far leva sulle menti dei contemporanei, su basi già esistenti; così ogni tentativo di trasmettere saperi acquisiti deve fare i conti con il presente sottoponendosi a un lavacro di aggiornamento. In questo senso, paradigmatico del processo di secolarizzazione in campo giuridico è l’esempio di Grozio, definito e comunque riconosciuto come il progenitore del razionalismo giuridico moderno. La formula che fissa nell’immaginario della cultura europea la sua identità intellettuale è quell’etiamsi daremus contenuto nella sua opera fondamentale – il De jure belli ac pacis, scritto nella prima metà del XVII secolo – con il quale egli asserisce che i principi del diritto naturale conoscibile attraverso la ragione avrebbero validità anche se Dio non esistesse. Espressione apparentemente eretica, ma sostanzialmente figlia di una mente educata alla più ortodossa teologia cattolica tardo-medievale. Essa si ritroverà anche nella Teodicea di Leibniz, riferita alle verità logiche e matematiche, e anche lì intesa a sostenere con finalità tutt’altro che eterodosse l’impossibilità che nella sua infinita bontà Dio potesse misconoscere o non far proprie verità assolute e autoevidenti. Negarle avrebbe significato precipitare il mondo nel caos, cancellare ogni plausibilità alle verità riconosciute da quella stessa ragione che nella sua infinita bontà Dio aveva voluto donare agli esseri umani, in ciò distinguendoli dalle bestie e rendendoli simili a sé.
In quel monumento di cultura classica e teologica che è il De jure belli ac pacis Grozio gioca la stessa carta successivamente fatta propria da Leibniz. Afferma che determinate verità giuridiche, riconoscibili attraverso l’uso educato e virtuoso della ragione, non sono misconoscibili da Dio e pertanto non possono essere confutate, né rigettate in base alla confessione di appartenenza o alle divergenze teologiche e di fede maturate a quel tempo all’interno della religione cristiana. Gli sforzi di Grozio sono diretti a dimostrare l’universalità e la validità intrinsecamente razionale dei principi che egli riconosce come naturali, cioè confacenti alle espressioni più alte e quindi autentiche della natura umana, le stesse verso le quali il creatore ha orientato ogni uomo facendogli dono della ragione e assegnandogli contemporaneamente il compito di perseguire la virtù e di sollevarsi dalla condizione dei bruti e delle bestie. Con questa mossa il padre del giusnaturalismo razionalista occidentale si assicurava sia la possibilità di adattare alle società europee del XVII secolo principi elaborati dalla tradizione di pensiero dei teologi-giuristi cristiani e prima ancora da quella romanistica, sia di fornire una base di ortodossia inattaccabile e oggettiva, capace di unificare trasversalmente tutte le posizioni confessionali, da utilizzare nell’opera di rifondazione delle società europee allora dilaniate dai conflitti confessionali tra il cattolicesimo e le diverse voci della Riforma protestante.
La strategia argomentativa utilizzata da Grozio per dimostrare il carattere naturale di alcuni istituti, primo fra tutti la proprietà individuale, è il contratto sociale. Uno strumento immaginario ben noto a tutta la tradizione teologica medievale, risalente alle opere dei canonisti del XII secolo e...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Dizionario
  3. A
  4. C
  5. D
  6. E
  7. F
  8. G
  9. I
  10. L
  11. M
  12. N
  13. O
  14. P
  15. R
  16. S
  17. T
  18. Guida bibliografica