Capitolo 34.
L’Europa romantica
1. Il romanticismo europeo
Sul piano strettamente politico si parla per la prima metà del XIX secolo, fino al 1848, di una Europa della Restaurazione, volendo così intendere che si tentò un ritorno al passato nelle forme e nei princìpi del governo degli Stati e dei popoli. Da un punto di vista più generale, al contrario, quell’epoca, che potrebbe così essere più correttamente definita dell’Europa romantica, rappresentò una radicale rottura rispetto al secolo che l’aveva preceduta, il Settecento. Questa rottura avvenne su alcuni punti fondamentali della civiltà culturale e politica del XVIII secolo e vi si trovarono profondamente d’accordo tanto coloro i quali assunsero posizioni liberali, quanto i democratici e persino moltissimi di coloro che, sul piano strettamente politico, potrebbero definirsi conservatori.
Al di là delle differenti opinioni politiche la generazione di coloro che potevano considerarsi – secondo l’espressione di uno scrittore francese, Alfred de Musset – «nati con il secolo», nati cioè tra l’ultimo decennio del secolo XVIII e il primo del XIX, che non avevano vissuto la Rivoluzione francese ed erano stati solo sfiorati dall’avventura napoleonica – esercitò una critica radicale ai princìpi che avevano ispirato la cultura settecentesca e soprattutto all’idea di ragione. Alla ragione come strumento – faro della capacità umana di conoscenza del mondo – essi sostituirono il sentimento, l’adesione emotiva alla realtà, frutto della interiorità individuale. L’esplorazione del mondo sentimentale diventò una delle principali espressioni della nuova cultura dell’Ottocento, soprattutto attraverso il romanzo, forma di scrittura narrativa destinata a creare alcune delle maggiori tradizioni letterarie europee: in Francia, in primo luogo, ma anche in Russia, in Inghilterra, in Germania.
L’Europa del romance, l’Europa romantica, affidò l’espressione del sentimento non solo alla letteratura. Anzi, forme artistiche meno legate alla comunicazione verbale apparvero più adatte alla manifestazione del mondo interiore. Così è la poesia, per la quale si possono ricordare i nomi dell’italiano Foscolo, del tedesco Schiller, degli inglesi Shelley e Byron. Ma su tutte la musica, sia in forma concertistica che in forma strumentale, specialmente attraverso i due strumenti simbolo del Romanticismo: il violino e il pianoforte. Autori come Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Liszt vennero ascoltati con passione ovunque in Europa. Così pure deve dirsi dell’opera lirica, genere musicale che aveva cominciato ad affermarsi, soprattutto con Mozart, nell’ultima parte del Settecento e che nell’Ottocento esplose con la sua capacità di incrociare la rappresentazione di grandi drammi storici con l’espressione di passioni individuali. Qui i nomi sono nella più gran parte italiani: Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, a cui solo più tardi si aggiunsero il tedesco Wagner o il francese Bizet.
Alla ragione illuminista la cultura romantica rimproverava l’astrattezza di princìpi generali che non tenevano conto della particolarità dei singoli individui e delle loro diversità. Particolarità e diversità erano, a loro volta, frutto non solo di differenti esistenze singole, ma anche di contesti collettivi nei quali gli individui erano nati e si erano formati. L’Ottocento si affermò, così, al suo nascere come “il secolo della storia”, l’epoca nella quale si provò con insolita energia a rievocare il passato, da cui provenivano valori, fedi, credenze, atteggiamenti e passioni, forme di vita quotidiana che distinguevano tra loro gli uomini e le comunità alle quali essi appartenevano. È l’epoca della grande storia e dei grandi storici: molti dei quali francesi, come Michelet e Guizot, inglesi come Carlyle, tedeschi come Humboldt e Mommsen. E dall’incrocio tra la scrittura del romanzo e la ricerca della storia nacque un genere letterario di straordinario successo popolare, il romanzo storico, che ebbe nelle opere di Alessandro Manzoni, di Walter Scott, di Alexandre Dumas, i suoi esempi di maggiore successo.
Lo studio della storia, soprattutto se, come accadde, esso si rivolse con maggiore attenzione ai secoli del Medio Evo piuttosto che all’Antichità tanto amata dalla cultura settecentesca, rivelò la forza della nazione, comunità originaria da cui ciascuno traeva legami – come si disse allora – di fede, di lingua, di sangue. Queste comunità dovevano essere o mantenersi indipendenti, e solo all’interno di esse potevano realizzarsi quelle aspirazioni alla libertà che trovavano il loro riferimento concreto nelle costituzioni, nei parlamenti, nelle associazioni e nella stampa. Ed ecco, quindi, che la battaglia per la libertà delle nazioni oppresse – la Grecia, l’Italia, la Germania – divenne il grande tema politico della prima metà del XIX secolo, sicché l’Europa romantica non si limitò a essere solo una espressione artistica o letteraria, ma anche e soprattutto una espressione politica. Per la libertà delle nazioni, dei popoli, combatterono e talvolta morirono nomi illustri della cultura romantica: Victor Hugo, lord Byron, Ugo Foscolo.
I costruttori di quelle che sono state chiamate le “nazioni romantiche” – il polacco Kosciuszko, l’ungherese Kossuth, l’italiano Mazzini, fondatore di una associazione internazionale chiamata “Giovane Europa” – non pensarono mai che la battaglia per l’indipendenza della loro nazione, della loro “patria”, parola-simbolo del Romanticismo politico, fosse una battaglia contro altre nazioni e, soprattutto, contro altri popoli. Essi pensavano, piuttosto, che il movimento di liberazione di popoli avrebbe collegato tutte le nazioni europee, animandosi di quei valori di libertà individuale e di democrazia che cominciavano allora a circolare e di cui essi stessi erano profondamente convinti. Al cosmopolitismo settecentesco la cultura romantica sostituì, così, una sorta di internazionalismo, liberale e democratico, che da subito non volle rimanere circoscritto, come era accaduto alla cultura illuminista, a una circolazione di idee tra élite intellettuali, ma puntò a coinvolgere i popoli europei in una battaglia comune.
2. La civiltà dell’industria
La conclusione del lungo periodo di conflitti, che aveva attraversato l’Europa dalla Rivoluzione francese fino alla caduta di Napoleone, favorì una ripresa e una accelerazione del processo di sviluppo economico i cui caratteri generali si erano già delineati con chiarezza a partire dalla seconda metà del secolo XVIII. I risultati di questa accelerazione furono così rilevanti che a partire dai primi decenni dell’Ottocento si può parlare non solo di una “rivoluzione industriale”, ma dell’affermarsi in Europa di una “civiltà dell’industria” le cui forme, i cui benefici e i cui limiti finirono rapidamente con il diffondersi a scala globale. Ciò si dovette, in grande misura, al rapporto nuovo che si instaurò tra scienza e tecnologia. Nei suoi princìpi teorici, ad esempio, ma anche nel suo iniziale funzionamento, la macchina a vapore – la protagonista della nuova rivoluzione industriale – era stata già “scoperta”, cioè era già stata messa a punto, dall’inglese James Watt a partire dal 1764. Solo agli inizi del secolo XIX, però, grazie ad ulteriori interventi tecnologici quella invenzione fu in grado di rivoluzionare non solo i modi di trasporto terrestre e marittimo, ma anche le tecniche di estrazione dei minerali e di lavorazione dei metalli. Nel 1807 l’ingegnere statunitense Robert Fulton, dopo alcuni esperimenti non coronati da un perfetto successo mentre era in Europa dove aveva conosciuto la macchina a vapore di Watt, riuscì – tornato in patria – ad applicare l’invenzione di Watt su un battello, il Clermont, che con un motore a vapore percorse, quindi, le 300 miglia tra Albany e New York in “sole” 32 ore.
Si dimostrava, così, quanto la tecnologia, cioè le applicazioni e i perfezionamenti tecnici di una scoperta scientifica, potesse determinare in breve tempo il passaggio dalla enunciazione di princìpi teorici generali e primi esperimenti a soluzioni o invenzioni di grande efficacia pratica. Nel 1814, in Inghilterra, l’ingegnere George Stephenson, anche lui dopo aver a lungo studiato la scoperta di Watt, riuscì a costruire la prima locomotiva con motore a vapore, diventando negli anni successivi l’organizzatore del sistema ferroviario britannico. Insomma, ricerca scientifica e innovazione tecnologica divennero i due pilastri sui quali poggiò da quel momento la “rivoluzione industriale”, facendo in modo che per la prima volta nella storia dell’umanità potesse applicarsi a vantaggio della vita quotidiana una energia – quella della macchina a vapore – che non dipendeva né dalla forza fisica degli esseri umani o degli animali, né da quella degli agenti naturali: l’acqua, il fuoco, il vento.
In quei primi decenni dell’Ottocento solo l’Inghilterra, che era stata – come si è già osservato – la nazione europea più precoce nella modernizzazione delle proprie strutture economiche e delle proprie istituzioni politiche, poteva definirsi un paese industriale. Gli altri Stati, anche i più progrediti come la Francia o alcuni Stati tedeschi, avevano nella manifattura tessile l’unico settore veramente avviato sulla via della industrializzazione, cioè della applicazione della tecnica allo sviluppo della produzione. L’Inghilterra, al contrario, già negli anni Venti aveva avviato attività tecnologicamente molto avanzate di estrazione e di trasformazione dei minerali, arrivando a coprire l’80 per cento del fabbisogno europeo di carbone e il 50 per cento di quello del ferro.
Anche la spettacolare crescita demografica dell’Europa nel corso del secolo XIX, che portò la popolazione del continente, già solo nella prima metà del secolo, da 187 a 266 milioni di abitanti, ebbe in Inghilterra il suo primo rilevante impulso. La popolazione inglese mostrò, infatti, un incremento costantemente superiore a quello delle altre nazioni europee, passando nell’arco di quella prima metà di secolo, da 16 a 27,5 milioni di abitanti. Si confermava, così, che laddove lo sviluppo industriale avesse assunto un carattere stabile e largamente diffuso sarebbe stato possibile superare quei vincoli demografici che per secoli, anzi per millenni, avevano caratterizzato la società e l’economia dell’Europa. Con la rivoluzione industriale, aumentando la produzione agricola e migliorando le forme della vita quotidiana, la popolazione – anche in questo caso per la prima volta nella storia dell’umanità – poteva crescere e continuare a crescere senza trovarsi, ad un certo punto, di fronte al limite della scarsezza di cibo o alla propagazione di malattie epidemiche.
Fu ancora l’Inghilterra a sviluppare per prima e con maggiore ampiezza le comunicazioni ferroviarie. Dopo la scoperta e il perfezionamento della locomotiva, lo stesso Stephenson si dedicò al perfezionamento del trasporto su rotaie – binari, pendenze dei tragitti, motori, freni – e il 27 settembre 1825 riuscì a inaugurare la prima strada ferrata: quindici chilometri tra le cittadine di Stockton e Darlington, compiuti alla eccezionale velocità di 39 km all’ora. Ad essa seguirono la ferrovia tra Bolton e Leigh e poi quella tra Liverpool e Manchester, tutte quante, all’inizio, con un quasi esclusivo uso commerciale. Solo dopo il 1830 iniziò ad affermarsi il treno come mezzo di trasporto per le persone e si cominciarono a costruire le prime vere e proprie carrozze ferroviarie.
Tra il 1830 e il 1850 le ferrovie crebbero a ritmo accelerato in tutta Europa, raggiungendo in venti anni lo sviluppo di 20.000 chilometri, undicimila dei quali nella sola Inghilterra. Il treno diventava, così, il nuovo, potente strumento a disposizione degli uomini per raggiungere luoghi lontani, trasportare merci e diffondere idee. Contemporaneamente, e con i medesimi effetti, si affermava la navigazione a vapore che si sostituiva a quella tradizionale a vela, plurimillenaria, assicurando servizi più veloci e regolari tra l’Europa e le altre parti del mondo.
Nacque anche allora l’industria chimica, applicando ai materiali le nuove conoscenze della scienza e usandole, ad esempio, per la produzione di gomma di sintesi, concimi artificiali, colori sintetici. L’utilizzazione, poi, del gas per illuminazione, introdotta per la prima volta a Londra nel 1807, cambiò rapidamente il volto notturno delle principali città europee. Il telegrafo, infine, già sperimentato in Francia da Claude Chappe negli anni della Rivoluzione, basandosi, però, sull’uso di specchi e dunque su princìpi ottici, fu perfezionato dall’americano Samuel Morse sul principio della utilizzazione dei segnali elettrici. Impiegato per la prima volta nel 1844, esso divenne rapidamente uno dei grandi simboli della modernità consentendo comunicazioni a grande distanza in un tempo incredibilmente breve.
La rivoluzione industriale non rimase, quindi, circoscritta all’Inghilterra. Si verificò, anzi, un effetto di trascinamento che si propagò ovunque in Europa, legando sempre più spesso la capacità di progresso produttivo alle forme della libertà economica e, in successione, alle forme delle libertà politiche. Si stabilì, anzi, un rapporto esplicito e visibile tra libertà e sviluppo economico, cosicché i due paesi più forti e a maggior sviluppo delle libertà politiche, cioè la Francia e l’Inghilterra, si affermarono come un modello di riferimento di quella che stava diventando la civiltà industriale europea o, più semplicemente, la civiltà europea.
3. Libertà e democrazia
In tema di libertà, e particolarmente di libertà politiche, il Settecento aveva lasciato in eredità al nuovo secolo, l’Ottocento, due fondamentali modelli di riferimento, sia sul piano teorico che su quello pratico: quello inglese e quello francese. Il primo prendeva origine dalle due rivoluzioni avvenute in Inghilterra nel corso del XVII secolo e, soprattutto, dalla vivace riflessione che su di essa si era svolta nel corso del XVIII secolo ad opera di autori come Locke, Hobbes, Bolingbroke. Il secondo si richiamava alle grandi figure dell’Illuminismo francese, Montesquieu, Voltaire, e ai valori che la Rivoluzione, nella sua primissima fase, nel 1789, aveva saputo esprimere. Attraverso queste due tradizioni la cultura politica europea aveva acquisito il principio irrinunciabile della sovranità quale espressione della volontà del popolo e non di una investitura divina.
Poste di fronte alla rigida opposizione dei governi della Restaurazione che ovunque in Europa, con l’eccezione ovviamente dell’Inghilterra e in parte della Francia, immaginavano, al contrario, di dover riprendere con forza, nell’esercizio del loro potere, l’idea di una legittimazione non legata al principio della sovranità popolare, le due tradizioni finirono, all’inizio del secolo XIX, con l’incontrarsi, con il mescolare le reciproche esperienze, dando vita ad un pensiero, il liberalismo, che accompagnò, nei decenni successivi, le trasformazioni politiche e sociali dell’Europa in via di industrializzazione. Questo incontro, oltre che dalla rigidità dei governi “legittimisti” dell’età della Restaurazione, fu anche determinato dalla riflessione sulla Rivoluzione francese e sulle sue conseguenze. A intervenire in questa riflessione furono soprattutto autori francesi come Madame de Staël, autrice di una importante opera intitolata, appunto, Considerazioni sulla Rivoluzione francese, o Benjamin Constant, al quale si deve un libro sugli Effetti del Terrore, che si riconoscevano pienamente nel pensiero liberale inglese e che si erano opposti anche al carattere autoritario assunto dall’impero di Napoleone. Sia Madame de Staël che Constant partivano da una critica rigorosa delle degenerazioni alle quali era andato incontro il principio di libertà proclamato dalla Rivoluzione nel momento in cui con Robespierre e con il Terrore, e poi con Napoleone, si era voluto, o dovuto, prescindere da un sistema di garanzie della libertà.
L’esperienza storica dimostrava, insomma, che la libertà non poteva esistere senza un chiaro sistema di regole che ne disciplinassero e ne tutelassero al tempo stesso l’esercizio. Ne scaturiva, di conseguenza, la necessità di documenti formali nei quali fossero fissati i diritti fondamentali degli individui e della collettività nel suo insieme e che nessun potere avrebbe potuto annullare. Quei documenti, chiamati costituzioni – usando un termine di origine medievale che dava, appunto, l’idea di qualcosa che stava alla base di tutta l’organizzazione della società – divennero l’obiettivo che il pensiero liberale e le forze politiche che ad esso si ispiravano cominciarono a chiedere con forza in tutta Europa, così come era accaduto, in precedenza, nella Rivoluzione americana, in quella francese e come stava accadendo nelle rivoluzioni dell’America meridionale.
Un obiettivo, dunque, e un movimento a scala anche più vasta di quella europea, che racchiudeva anche, come principio basilare di ogni Carta costituzionale in quanto attuazione dell’idea originaria di sovranità popolare, l’esigenza di una rappresentanza politica. In virtù di essa, infatti, ogni individuo avrebbe potuto esprimere e far valere la propria opinion...