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I processi non risolvono tutto
Troppi reati frenano la giustizia
Nel marzo 2017 la Corte di cassazione è intervenuta per stabilire che commette reato chi cucina un fritto misto di pesce il cui odore infastidisca i vicini e, nel giugno 2018, per confermare che commette reato chi abbandona spazzatura sulla pubblica via «così da imbrattarla e renderla sudicia». Sono solo due esempi, ma aiutano a spiegare qualcosa sui tempi lunghi della nostra giustizia.
La durata del processo penale è da anni al centro del dibattito pubblico, dopo che si sono dimostrate vane le grandi speranze suscitate dall’inserimento in Costituzione, con il nuovo articolo 111, del principio della ragionevole durata. Anche il Governo ha preannunciato una iniziativa legislativa e l’augurio di tutti è che si conseguano risultati concreti, anche facendo fronte alla carenza a volte drammatica di risorse.
Il nostro sistema processuale è estremamente complesso. Prevede, com’è noto, tre gradi di giudizio (primo grado e appello, che esaminano la causa nel merito, la Cassazione che rivaluta l’operato dei primi giudici). È quindi inutile ogni paragone tra i tempi della giustizia italiana e quelli di sistemi anche simili al nostro, ma nei quali le impugnazioni sono assai meno frequenti e limitate nell’oggetto. Basti pensare che la nostra Corte di cassazione pronuncia oltre 50.000 sentenze l’anno, mentre le corti supreme di Francia e Germania si fermano rispettivamente a circa 3.000 e 8.500 pronunce.
Nessuno pensa di abolire la possibilità del ricorso per cassazione, previsto dalla Costituzione, e nemmeno il grado di appello. Si dovrebbe, però, avviare una seria riflessione sulla eventuale esclusione dell’appello per un numero significativo di reati meno gravi o meno complessi. Lo stesso valga per le impugnazioni volte solo a guadagnare tempo, prevedendo la possibilità per il giudice di infliggere in questi casi una condanna più grave (la cosiddetta reformatio in pejus). Sono strumenti che in Italia destano proteste indignate, ma che sono adottati in Paesi di indiscutibile civiltà giuridica come la Francia.
Altra questione decisiva è la definizione del maggior numero di processi con i cosiddetti riti alternativi, quali il giudizio abbreviato e il patteggiamento, riducendo al minimo il numero di quelli che arrivano al dibattimento. Sin dalla emanazione del nuovo Codice di procedura penale nel 1989, era chiaro come questa fosse una condizione indispensabile per evitare il fallimento della riforma. Ma le cose non sono andate così.
In questo senso si muove la proposta – su cui concordano magistrati e avvocati penalisti – di ammettere il patteggiamento concordando una pena fino a dieci anni di reclusione, anziché cinque com’è attualmente. In questo modo, un numero significativo di processi verrebbe definito fuori dal percorso lungo, dispendioso (per lo Stato e per i cittadini) e spesso tortuoso dei tre gradi di giudizio e si darebbe una risposta certa e in tempi brevi alla richiesta di giustizia che ogni fatto criminoso fa sorgere.
Sui tempi dei processi incide inoltre la necessità di rinnovare l’esame di testimoni, periti e consulenti quando anche uno solo dei giudici debba essere sostituito, per malattia, trasferimento o qualsiasi altro impedimento. Si deve in sostanza ricominciare da capo, senza poter dare lettura – come è invece previsto per i reati di mafia (art. 190-bis c.p.p.) – dei verbali delle dichiarazioni rese dalle persone già esaminate, neanche se videoregistrate. Si è quindi proposto di ampliare, con le opportune cautele, i casi di lettura dei precedenti verbali. Gli avvocati penalisti sono però assolutamente contrari e ribadiscono la necessità che la prova si formi davanti al giudice, inteso come persona fisica, che poi dovrà decidere. Questo era nella sua originaria ispirazione accusatoria uno dei principi fondamentali del Codice, che però immaginava che il processo si potesse concludere in una sola udienza o in poche udienze tenute a brevi intervalli di tempo. L’esperienza di trent’anni ha dimostrato invece che la realtà è ben diversa. Spesso i testimoni vengono chiamati a ripetere le loro dichiarazioni a distanza di anni dai fatti, cosicché i loro ricordi sono inevitabilmente affievoliti se non annullati, tanto che in concreto si finisce per rileggere loro quello che hanno dichiarato anni prima, perché lo confermino o lo ripetano.
Nel contrasto tra le due tesi, una indicazione preziosa è venuta da una sentenza della Corte costituzionale (la numero 132/2019) che, richiamando anche la giurisprudenza europea, invita il legislatore a «introdurre ragionevoli eccezioni» al principio dell’identità tra il giudice che raccoglie la prova e il giudice che decide «in funzione dell’esigenza, costituzionalmente rilevante, di salvaguardare l’efficienza della giustizia penale», e di tutelare proprio la ragionevole durata dei processi.
Queste (e molte altre) modifiche normative possibili per alleviare l’affanno del sistema processuale non incidono tuttavia su un ulteriore elemento decisivo: l’enorme numero di nuovi procedimenti – oltre un milione contro autori noti e molti di più contro ignoti – che gli uffici di procura devono iniziare ogni anno. Questo semplice dato ci dice chiaramente che nessun progresso significativo potrà essere conseguito se non si riduce il numero dei reati, cioè delle condotte che prevedono la sanzione penale, la quale dovrebbe, al contrario, costituire l’extrema ratio cui ricorrere solo quando le sanzioni civili o amministrative si rivelano inadeguate e insufficienti.
Invece il nostro legislatore, specie negli ultimi tempi, si affanna a introdurre sempre nuove figure di reato, magari sull’onda delle mutevoli sensibilità dell’opinione pubblica. Nel 2016 sono stati depenalizzati alcuni reati, ma molto resta ancora da fare, e non dovrebbe essere impossibile immaginare per fatti come quelli citati all’inizio soluzioni di contrasto diverse, che non comportino una sanzione penale.
Ma nemmeno una nuova depenalizzazione che si limitasse ai casi eclatanti sarebbe sufficiente; bisognerebbe incidere su un numero molto più ampio di casi, superando le proteste di parte dell’opinione pubblica e dei tanti che, per motivi diversi, hanno interesse a che nulla cambi. Bisognerebbe, soprattutto, abbandonare il convincimento – meglio: l’illusione – di poter risolvere qualsivoglia problema con l’intervento, quasi miracolistico, del giudice penale e affermare, invece, le responsabilità di altri protagonisti della vita economica e sociale: in primo luogo della politica, cui competono le scelte di carattere generale.
Nella situazione attuale, e non da oggi, il sistema penale viene chiamato a compiti non suoi, che vanno oltre i suoi limiti strutturali, correndo il rischio costante – al di là di episodici successi e della gratificazione di singoli protagonisti – di dover rispondere degli inevitabili insuccessi, giacché mancano i provvedimenti necessari a risolvere i problemi in radice. Intanto, però, nello sforzo di rispondere a tali improprie sollecitazioni, tutti noi rischiamo di pagare prezzi assai alti in termini di tutela della libertà e dei diritti delle persone, di proporzionalità delle pene rispetto alla effettiva gravità del reato, di considerazione del carcere come unica risposta possibile ed efficace, con la progressiva esclusione del ricorso alle pene alternative. È così che prende corpo quel “populismo penale” che – per la verità – non è un fenomeno solo italiano.
Lo stesso papa Francesco ne ha denunciato i rischi, nel discorso tenuto il 23 ottobre 2014 all’Associazione internazionale di Diritto penale. Un’analisi puntuale, con la quale il Santo Padre evidenziava anche la difficoltà per molti giudici e operatori del sistema penale di contrastare tali tendenze, dovendo svolgere il loro compito «sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società».
Parole rivolte sette anni fa ai giuristi di tutto il mondo, ma che credo conservano la loro validità anche per noi, ancora oggi.
Politica e magistratura. Un rapporto che viene da lontano
Spesso si argomenta che il rapporto tra politica e magistratura sarebbe cambiato una trentina di anni fa con il passaggio dalla Prima Repubblica, la Repubblica dei partiti, in cui l’ordine giudiziario sarebbe stato subordinato al potere politico, all’attuale Repubblica “giudiziaria” che vedrebbe la situazione capovolta.
Questa analisi, ormai ampiamente diffusa, costituisce anche la base per le frequenti accuse mosse alla magistratura nel suo insieme – in particolare a procure e singoli magistrati – di avere ampliato a dismisura il proprio campo di azione e di abusare del potere conferitole sia per acquisire vantaggi personali e di categoria sia, ipotesi ben più grave, per condizionare aspetti fondamentali della vita del Paese.
Va detto subito, con onestà, che di abusi ce ne sono. E sono proprio le cronache giudiziarie a darne conferma (il che indica, comunque, lo sforzo della stessa magistratura per fare pulizia al suo interno).
Credo, però, che ricondurre a banali smanie di protagonismo o, peggio, a un raffinato disegno strategico protratto per decenni, un fenomeno rilevante come l’eccesso di intervento dei magistrati nella vita politica, economica e sociale del Paese, sia un eccesso di semplificazione dettato da esigenze polemiche. E, quel che più importa, una tesi errata nella sostanza.
Innanzitutto il fenomeno non è solo italiano, ma caratterizza il mondo occidentale nel suo complesso. L’espressione «democrazia giurisdizionale» fu coniata dal ministro francese della Giustizia Robert Badinter già nel 1981 e tutti ricordiamo esempi clamorosi come l’esito delle elezioni presidenziali americane del 2000, decise dalla Corte suprema, o la sentenza con cui la magistratura inglese ha annullato la sospensione dei lavori del Parlamento di Westminster decisa dalla Regina su richiesta del premier Boris Johnson.
In realtà, le cause profonde della dilatazione dell’intervento giurisdizionale sono comuni a tutte le democrazie avanzate perché le risorse disponibili non sono sufficienti a far fronte alla richiesta crescente per il soddisfacimento di esigenze, individuali e collettive, percepite ormai come diritti che giustificano il ricorso al giudice. Nella stessa direzione spinge la diminuzione del senso di appartenenza a una comunità in cui ai diritti degli uni corrispondono i diritti degli altri, che li limitano creando dei doveri. In queste condizioni la politica, spesso molto debole per un insieme di ragioni, non riesce più a dettare regole chiare, ma si limita a dare indicazioni di massima, non di rado incerte e tra loro contraddittorie, per non scontentare nessuno degli attori e degli interessi in gioco.
In definitiva, il potere legislativo lascia l’interpretazione e l’applicazione concreta al giudice. Il quale, peraltro, si trova ormai prigioniero nel «labirinto delle leggi» – come lo ha definito il giurista Vittorio Manes – perché alle norme statali si aggiungono e sovrappongono, non sempre coerentemente, quelle locali, quelle europee e quelle che derivano da convenzioni internazionali. La vicenda dell’Ilva di Taranto, nella sua drammaticità, è emblematica di questo “labirinto”, così come lo sono le questioni relative ai cosiddetti nuovi diritti in materia di bioetica.
In questo contesto, la certezza e la prevedibilità delle decisioni diventa un mito e diventa facile – ma anche ingiusto e mistificante – riversare sempre e per ogni caso la colpa sui magistrati.
Sulla dilatazione del ruolo del giudice incide poi la convinzione che attraverso la sanzione penale, che dovrebbe essere l’extrema ratio, si possano risolvere i problemi sociali, evitando alla politica di assumere decisioni scomode, con il conseguente rischio di perdere consensi. Il legislatore, spesso inseguendo o addirittura favorendo l’emotività sociale, aumenta le pene e moltiplica le figure di reato, creando così ulteriori spazi di intervento della magistratura. Ma nemmeno questo è un fenomeno recente né solo italiano.
In questo quadro, si inseriscono le peculiarità della situazione italiana, con particolare riferimento alla giustizia penale.
Non si può, infatti, dimenticare il ruolo che la magistratura – investita da questa sorta di delega implicita – ha svolto nel combattere i grandi fenomeni criminali del Paese, che sono spesso anche fenomeni sociali, a cominciare dal terrorismo (contro il quale però, almeno da un certo punto, si sono impegnate in modo decisivo anche le forze politiche e sociali). Ma la questione che ritengo decisiva è quella del contrasto a mafia e corruzione. La fase cruciale inizia nella seconda metà degli anni Ottanta, con il maxiprocesso di Palermo, e il momento decisivo è il 1992, l’anno di Mani pulite, ma anche delle stragi.
Nel contrasto a mafia e corruzione, la delega è stata, io credo, più ampia. Nonché forte la sensazione che la classe politica rest...