Scritture a perdere
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Scritture a perdere

La letteratura negli anni zero

  1. 116 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Scritture a perdere

La letteratura negli anni zero

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«Oggi assistiamo al paradosso di una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra, assediata dall'impero dei media, dalla vacuità della comunicazione, dalla degradazione del linguaggio e della vita civile.»Sottrarre anziché accumulare, ritrovare la passione e la bellezza dell'essenziale. Scrivere di meno, scrivere meglio. «Insieme ad una radicale ecologia dell'ambiente fisico abbiamo sempre più bisogno di un'ecologia della comunicazione, che agisca come ecologia della mente, che liberi le nostre menti dagli scarti infiniti che le tengono in ogni momento sotto assedio, con una variegata catena di manipolazioni a cui ben pochi arrivano a resistere. Ed è sempre più necessaria un'ecologia del libro e della letteratura, capace di operare distinzioni nell'immenso accumulo del materiale librario prodotto».

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102480

Qualche strada praticabile: dal racconto all’«autofiction»

In questa Italia di oggi ci sono certo romanzi migliori di quelli «di successo» di cui sopra si è parlato; ma è anche vero che è proprio la forma romanzo, trascinata nel disordinato vortice mediatico, presa come l’emblema più consumabile della letteratura contemporanea, a porsi come sempre più inessenziale, sempre più inadatta a corrodere criticamente il presente, a tracciare un segno intenso sulla confusione del mondo. A me sembra che la forma «breve» del racconto, guardato spesso con sospetto dagli editori, sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva: essa può costituire una risposta critica allo zapping interminabile della comunicazione e alla sua apparente continuità e scorrevolezza, all’aggressione sistematica della televisione e della pubblicità. La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato, i frammenti in cui ci viene incontro quella «complessità» che tutti evocano ma che nessuno riesce ad afferrare e a definire. Proprio nel suo proiettare a livelli diversi questi frantumi (citando La terra desolata di Eliot si dovrebbe dire: «This fragments I have shored against my ruins», «questi frammenti su cui ho puntellato le mie rovine»), il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica, cose che non hanno ormai più spazio nel romanzo, condotto dalla rapidità e scorrevolezza della scrittura informatica a dare immagini illusorie, fittizie, mistificatrici di una complessità che sfugge quanto più viene cercata e affermata. Alcuni dei risultati più essenziali degli ultimi decenni non vengono da vasti e voluminosi romanzi, ma dalla forma del racconto e semmai da romanzi di breve misura. Senza risalire indietro a Calvino e a Manganelli, basta pensare ad autori come Celati e Tabucchi, che hanno dato il meglio di sé proprio nella misura breve del racconto; come del resto ha fatto Pier Vittorio Tondelli (che non ha mai raggiunto il livello dei racconti di Altri libertini, 1980), o ancora Ermanno Cavazzoni (con Vite brevi di idioti, 1994, e Gli scrittori inutili, 2002), o Antonio Debenedetti (fino al più recente In due, 2008) e, sul fronte opposto, certi «cannibali» e affini, che non sono mai veramente usciti dalla misura breve, dal piccolo scatto aggressivo e deformante. Sarà forse che il racconto ci riconduce alla fonte primaria del narrare? che, al di là di una modernità ormai disgregata, può toccare più da vicino il senso della globalizzazione puntiforme in cui siamo catturati?
Recentemente Sebastiano Vassalli, autore di originali romanzi non «storici», ma di escavazione storica, introducendo il libro di racconti La morte di Marx (Einaudi, 2006) ha sostenuto proprio che non è più tempo di romanzi e che la misura per dire il presente può essere semmai quella del racconto. Ed è tornato al racconto con Dio, il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni (ancora Einaudi, 2008), dove i singoli pezzi si dispongono in una struttura à volets: tre parti in successione, con le storie in parte tra loro incastrate, collegate da un filo morale, ideologico ed ecologico. Si tratta di veri e propri frammenti della fine, che nelle prime due parti si rivolgono indietro, verso uno ieri abbastanza vicino a noi, in cui si esplica l’azione di Dio (questo è ormai Dio: il disporsi della vita sociale sotto il segno della stupidità, le pretese di assolutezza che assumono le cose più insulse, i desideri distorti, lo sciocchezzaio televisivo, il razzismo, i fondamentalismi religiosi) e del Diavolo (qui è il Diavolo stesso a raccontare la storia di uno dei dirottamenti dell’11 settembre e delle persone che vi sono coinvolte). La terza parte invece si rivolge a un domani, in cui l’ecosistema è al collasso e l’umanità è arroccata in mostruosi ambienti artificiali e protetti (che sono in realtà varianti estreme di luoghi e ambienti ben attuali): vi si svolgono sette storie in cui l’azione di una misteriosa Mosca porta morte e distruzione e che tutte approdano ad una catastrofe che segna per sempre la fine del rovinoso cammino dell’umanità verso il progresso. Come sta ormai facendo da alcuni anni, Vassalli misura qui il polso del mondo, sembra come voler dare un’accorata radiografia delle minacce che ci sovrastano, con una scrittura che sa mostrare la dimessa e velenosa normalità dell’assurdo sociale e ambientale.
Sull’onda di questo interesse per il racconto, gli editori negli ultimi mesi si sono messi a pubblicare molte raccolte collettive, sollecitando la collaborazione di autori diversi, talvolta legati da un’ottica comune, o sollecitati da qualche tema d’attualità, o senza nessun vincolo particolare: dai sette testi di Padre dell’editore Elliot (maggio 2009), possiamo risalire indietro agli undici di Lavoro da morire (Einaudi, febbraio 2009), ai dodici di Questo terribile intricato mondo (Einaudi, novembre 2008), ai dodici di A occhi aperti (Mondadori, settembre 2008), ai dieci de I confini della realtà (Mondadori, marzo 2008), ai dieci di Ho visto cose... (BUR, gennaio 2008), e così via.
Ma può essere interessante uno sguardo più diretto ad alcune raccolte di singoli autori, che possono essere prese come significativi campioni di questa nuova vitalità del racconto: quelle di Giovanni Martini, di Francesco Pecoraro, di Silvana Grasso, di Andrea Carraro e di Giorgio Falco.
La nostra presenza di Giovanni Martini (Fazi, 2006) contiene otto racconti segnati da una densità di dolore che sprigiona da ogni movimento e da ogni gesto, come qualcosa che non può venir fuori fino in fondo: la scrittura estrae dalla più normale quotidianità improvvise sfasature, deformazioni, gesti eccessivi che però rientrano, sfumano, si sospendono in una sorta di nebbia senza conforto. Si può pensare a certo Carver, ma con un di più di fuga dalla resa diretta della realtà, con un senso di sfuggente opacità, che appunto sembra velare sia la più dimessa normalità che improvvisi scarti e deviazioni. Tutto si svolge sullo sfondo di una Roma allucinata, tra esistenze in perpetua attesa, non realizzate, involte in un agire per non agire: come se la vita fosse prigioniera di un’adolescenza bloccata, nell’impossibilità di uscire da un cumulo indistricabile di affetti e di oppressioni familiari (emblematico nel racconto Al Vicolo Cieco quello che una donna dice del personaggio di Giò, scrittore che non scrive: «Fa molte cose buone, ma non capisce quello che fa»; suggestiva, dolorante, affettuosa, l’immagine della passione adolescente per il calcio nel racconto che dà titolo al libro).
I sette racconti di Francesco Pecoraro, Dove credi di andare (Mondadori, 2007), guardano invece alla degradazione e alla violenza del mondo con una sorta di aggressiva presa d’atto, che sembra come indurire la parola, farne uno strumento di rocciosa e dolente resistenza. Sono voci di una solida identità maschile, piena di passione e di gusto per la vita e per la bellezza, che si sente come schiacciata da un universo debordante, da volgarità e irrazionalità che accerchiano il soggetto, da errori e calcoli sbagliati, da una ostinata fedeltà a se stesso. C’è sempre un protagonista in stato d’assedio: pur sicuro del proprio modello di vita e del proprio equilibrio, subisce la minaccia e l’ostilità di un mondo volgare ed ottuso, tra malintesi e tranelli, che nel loro eccesso sembrano poter sfiorare il comico, senza mai toccarlo fino in fondo: figura di «perdente» che viene così a dare un’immagine duramente critica, piena di risentimento, dell’ottusità di tanti nostri concittadini, degli egoismi, delle abitudini distorte, della rapacità rivestita talvolta di maschere culturali. Così il primo racconto, Camere e stanze, segue un crescendo di violazioni che la casa del protagonista, maturo professore universitario di scarso rilievo accademico, subisce da un’invasione di sconosciuti durante una festa organizzata a malincuore per compiacere la giovane convivente. Di Pecoraro va ricordato anche il successivo Questa e altre preistorie (Le Lettere, 2008), tra aforismi, notazioni, frammenti, riflessioni, scatti personali sul senso sempre più sfuggente del mondo.
Dieci sono le storie raccontate da Silvana Grasso in Pazza è la luna (Einaudi, 2007), ambientate nella esuberante e aggrovigliata Sicilia dei suoi romanzi, una Sicilia periferica in cui si dipanano piccole esistenze corrose, sotto il segno della «pazza» luna, tra stramberie e paradossi, beffarde combinazioni del caso, fissazioni in abitudini ostinatamente maniacali, esiti in cui l’artificio diventa normalità. Sulla condizione periferica agiscono i riflessi e gli echi del mondo globale, di modi di vita, di segni culturali, di aspirazioni e desideri che creano un singolare corto circuito dentro quelle vite. Vengono in mente i paradossi e gli scambi grotteschi delle novelle siciliane di Pirandello, con le loro «beffe della morte e della vita»: quello di Silvana Grasso è un umorismo corrosivo, che fa leva (ma qui in grande distanza da Pirandello) sulla luminescenza di un linguaggio punteggiato di scaglie di densa espressività dialettale, che gioca sempre su di una combinazione di «alto» e «basso», lontanissimo dalla riduzione comica e facilitante a cui il siciliano è condotto da Camilleri. Sono spesso amori esclusivi, rapaci, distorti, narcisistici, messe in scena maturate e bruciate sotto la «vampariglia della luna», che perlopiù hanno per protagoniste donne solitarie, dalle passioni deviate o incongrue. Ecco Manitta, nata senza una mano e arrivata a metter su un fortunato laboratorio e negozio di cappelleria, che vuole tenere tutto per sé, chiuso in casa e ignaro del mondo, il figlio che finirà per ucciderla. Ecco in Manca solo la domenica la donna che, in assenza del marito emigrato in Australia senza dare più segni di sé, recita la parte di vedova visitando tutti i giorni, salvo la domenica, nei paesi limitrofi, le tombe di sconosciuti mariti, vedova di tutti e di nessuno, fino al ritorno e alla vera morte del marito. Ecco in Zagara la vicenda di Nicolino e della maestra di piano che lo chiude in un mondo protetto, sotto lo stordimento del profumo dei fiori d’arancio: il giovane ha la passione della poesia e muore senza vedere la lettera dell’editore che finalmente accetta di pubblicare le sue poesie e che la maestra ormai cieca usa come fondo di una gabbia di canarini. È una realtà intempestiva e senza conciliazione, che non coincide con modelli già dati.
I due libri più recenti di Andrea Carraro e di Giorgio Falco scavano dentro la vita del nostro paese, nel suo tessuto quotidiano, concentrandosi sui due poli nevralgici delle sue contraddizioni, Roma e l’area milanese: mettono in luce con piglio fermo e sicuro la lacerazione del nostro tessuto ambientale e antropologico; rappresentano ciò che sta accadendo in profondità, ciò che il romanzo (e tanto meno i romanzi di successo) non sembra riuscire a toccare in nessun modo.
Il gioco della verità di Andrea Carraro (Hacca editore, 2009) ci presenta movimenti e gesti che si svolgono perlopiù a Roma o nelle sue vicinanze: una Roma frammentata, una Roma che non ha nulla di colorato e splendente, ma è come sommersa da una cappa di grigia ostilità e indifferenza, dove tutto ciò che succede è segnato da una sorda estraneità, dove ciascuno è concentrato dentro di sé, senza mai cercare di confrontarsi col mondo e con gli altri: e ciò può avere esiti diversi ed opposti, dalla violenza più torva al rifiuto di vedere la sofferenza altrui, alle proiezioni sugli altri dei propri desideri e dei propri appetiti, al sentimentalismo più ottuso e superficiale, alle ostinazioni insensate con cui si reagisce ad eventi imprevisti, alla cieca subalternità a quello che viene proposto dai più spregiudicati e cinici manipolatori. Carraro ci mostra come il tempo della comunicazione conduca paradossalmente al risolversi di ogni rapporto e scambio tra gli esseri umani in deviazione ostile, in estraneità disgregante (ben peggiore della sofferente «incomunicabilità» di tempi andati): e ne rende conto in un linguaggio fermo ed essenziale, che nega recisamente ogni «aura» e ogni compiacimento, davvero grado zero della lingua, della realtà, di una Roma incarognita, pur riconoscibile nella sua concretezza. Ricordo soltanto il tremendo La madre, dramma della sciocchezza di una madre che da Latina conduce la figlia in un locale di Torvaianica ad una selezione per piccole cantanti: crudele come la Bellissima di Visconti, ma senza nessuna catarsi, questo racconto può essere preso come emblema di un’Italia nel cui corpo profondo si agita una piccola borghesia (m...

Indice dei contenuti

  1. Il tempo dell’eccesso
  2. Evaporazione di una cultura «critica»
  3. Scrittori di successo
  4. Frammenti del bestiario italiano
  5. Qualche strada praticabile: dal racconto all’«autofiction»
  6. Responsabilità e destino