Vite di scarto
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Vite di scarto

  1. 182 pagine
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Chi un giorno vorrà studiare l'estinzione dell'uomo e della sua storia e il sorgere della nuova volatile specie che lo sta soppiantando, troverà nei libri di Bauman una guida illuminante. Paola Capriolo, "Corriere della Sera"

Ci piace produrre rifiuti. Senza capire che diventiamo noi stessi rifiuti. Bauman non dà tregua, smonta le nostre illusioni e le nostre perversioni, pagina dopo pagina. Un libro da leggere. Lelio Demichelis, "Tuttolibri"

Oggi il mondo è pieno. Non esistono più 'frontiere' verso cui convogliare la popolazione eccedente. L'analogia descritta da Zygmunt Bauman, tra i rifiuti materiali dei processi di produzione e consumo e i rifiuti umani generati dai processi storici, si rivela in questo saggio una potente chiave di interpretazione della storia. Guido Viale, "la Repubblica"

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858131404

1.
In principio fu il progetto.
Ovvero
i rifiuti della costruzione di ordine

Vero è che anche noi cinque non ci conoscevamo prima [...] non ci conosciamo nemmeno adesso, ma ciò che per noi è possibile
ed è tollerato, per quel sesto
non è possibile e non viene tollerato. Inoltre siamo in cinque e non vogliamo essere in sei [...] Lunghe spiegazioni sarebbero già quasi un accoglierlo nel nostro circolo; preferiamo non dare spiegazioni e non accoglierlo
Franz Kafka
Vita in comune, in Tutti i racconti, Milano 1979, p. 395
Secondo un recente rapporto della Joseph Rowntree Foundation,
il numero dei giovani alle prese con la depressione è raddoppiato in dodici anni, visto che centinaia di migliaia di essi si ritrovano esclusi dall’innalzamento dei livelli di istruzione e di benessere... Nel 1981, quando è stato chiesto ad alcuni giovani nati nel 1958 di completare un questionario sul loro stato di salute mentale, è emerso che il 7 per cento aveva una tendenza alla depressione non clinica. Per la classe del 1970, intervistata nel 1996, la cifra corrispondente è stata del 14 per cento. L’analisi di queste risultanze indica che quell’aumento era legato al fatto che il gruppo più giovane era cresciuto più esposto alla disoccupazione. I detentori di un titolo di studi pari alla laurea avevano il 30 per cento in meno di probabilità di essere depressi.1
La depressione è un disturbo mentale assai spiacevole, tormentoso e invalidante, ma, come indicano questo rapporto e numerosi altri, non è l’unico sintomo del malessere che pervade la nuova generazione nata nel mondo attuale, il mondo liquido-moderno, mentre, a quanto pare, non affliggeva – o almeno non nella stessa misura – la generazione immediatamente precedente. Una «maggiore esposizione alla disoccupazione», per quanto sia indubbiamente traumatica e penosa, non sembra essere l’unica causa del malessere.
La cosiddetta «Generazione X», cioè i giovani di ambo i sessi nati negli anni Settanta in Gran Bretagna o in altri paesi «sviluppati», conosce disturbi di cui le precedenti erano inconsapevoli. Non necessariamente disturbi più numerosi, o disturbi più acuti, penosi e mortificanti, ma disturbi distintamente diversi, dunque nuovi: si potrebbe dire malattie e afflizioni «specificamente liquido-moderne». Insomma, questa generazione ha i suoi motivi tutti nuovi (alcuni dei quali si sono sostituiti a quelli tradizionali, mentre altri vi si sono sommati) per sentirsi agitata, turbata e spesso danneggiata – anche se gli analisti e i guaritori di nomina ufficiale, seguendo le inclinazioni naturali che tutti condividiamo, ricorrono, con bel pragmatismo, alle diagnosi che meglio ricordano e alle cure più largamente in uso al tempo in cui sono stati formati a ricercarle e a raccomandarle.
Ebbene, una delle diagnosi più largamente disponibili è la disoccupazione, in particolare le scarse prospettive di impiego per chi finisce gli studi ed entra per la prima volta in un mercato che cerca di aumentare i profitti tagliando i costi della manodopera e smantellando gli assets, anziché attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro e la costruzione di nuovi assets. Una delle cure prese in esame più comunemente sono le sovvenzioni statali, che trasformino l’assunzione di giovani in un buon affare (finché durano le sovvenzioni). Uno dei consigli più comunemente dispensati ai giovani, nel frattempo, è di essere flessibili e non particolarmente schizzinosi, di non aspettarsi troppo dal loro lavoro, di prendere i lavori come vengono senza fare troppe domande e di viverli come un’occasione di cui approfittare nell’immediato finché dura, piuttosto che come capitolo introduttivo a un «progetto di vita», qualcosa che ha a che vedere con l’autostima e la definizione di sé, o una garanzia di sicurezza nel lungo periodo.
L’idea-pacchetto di «disoccupazione» contiene quindi (e ciò è rassicurante) una diagnosi del problema, completa della miglior cura disponibile e di un elenco di procedure lineari e banali in modo consolante da seguire sulla via della convalescenza. Il prefisso «dis-» indica un’anomalia: «disoccupazione» è il nome di una condizione manifestamente temporanea e anormale, quindi la natura del disturbo è palesemente passeggera e curabile. Il concetto di disoccupazione eredita il suo carico semantico dall’autoconsapevolezza di una società che un tempo proponeva i suoi membri soprattutto come produttori e che credeva anche nella piena occupazione non soltanto come condizione sociale desiderabile e raggiungibile, ma come propria destinazione ultima; una società che può quindi proporre l’occupazione come una chiave – la chiave – alla soluzione simultanea di problemi come quello di un’identità personale socialmente accettabile, di una posizione sociale sicura, della sopravvivenza individuale e collettiva, dell’ordine sociale e della riproduzione del sistema.
Il mondo umano, secondo la calzante espressione di Siegfried Kracauer, è saturo di Sollen («dover essere»), cioè di quelle idee che «vogliono diventare esse stesse realtà»: idee che «hanno un impulso connaturato a realizzarsi». Tali idee «assumono un significato sociologico» non appena «cominciano ad avere un effetto sul mondo sociale»2: per ottenere questo effetto, esse lottano aspramente, sebbene con esiti mutevoli. La storia moderna è emersa dai periodi precedenti della vicenda umana esponendo i suoi «dover essere», rendendoli espliciti e decidendo di «vivere per realizzarli». La modernità, per dirla ancora con Kracauer, ha condotto una «duplice esistenza», orientandosi «verso l’Oltre in cui tutto ciò che era nel Qui avrebbe trovato il proprio senso e la propria conclusione»3.
Di questi «dover essere» non v’è mai stata penuria: la storia moderna è stata una fabbrica prolifica di modelli di «buona società». Le battaglie più ideologicamente ispirate di cui è punteggiata la storia moderna furono combattute proprio sul fronte del Sollen, fra «dover essere» in furiosa competizione fra loro. Ma tutti i «dover essere», di qualsiasi tipo, concordavano che il banco di prova di una «buona società» era costituito dalla disponibilità di posti di lavoro per tutti e di un ruolo produttivo per ciascuno. La storia moderna – endemicamente critica verso ogni presente, che accusa di fermarsi troppo prima del «dovrebbe» – nel suo svolgersi ha combattuto molti mali e molti malvagi, ma si riteneva che la battaglia decisiva fosse quella contro la penuria di posti di lavoro e l’insufficiente disponibilità di ruoli produttivi o della volontà di occuparli.
Quant’è diversa l’idea di «esubero» balzata in primo piano durante l’arco della vita della «Generazione X»! Mentre il prefisso «dis-» di «disoccupazione» indicava un distacco dalla norma – come il «mal-» in «malsano» o in «malato» – tale connotazione manca del tutto nel concetto di «esubero». Non vi è nessun accenno all’anormalità, all’anomalia, nessuna indisposizione e nessuno scivolone momentaneo. «Esubero» suggerisce un’idea di permanenza e allude alla normalità di questa condizione. Denota cioè una condizione senza offrire un concetto opposto pronto all’uso. Suggerisce una forma nuova della normalità attuale e la forma delle cose che sono imminenti e destinate a restare come sono.
Essere «in esubero» significa essere in soprannumero, non necessari, inutili, indipendentemente dai bisogni e dagli usi che fissano lo standard di ciò che è utile e indispensabile. Gli altri non hanno bisogno di te, possono stare senza di te e cavarsela altrettanto bene, anzi meglio. Non v’è motivo evidente che tu ci sia e nessuna giustificazione ovvia alla tua rivendicazione del diritto di esserci. Venire dichiarato «in esubero» significa essere stato eliminato per il fatto stesso di essere eliminabile: proprio come la bottiglia di plastica vuota e non rimborsabile o la siringa monouso, un bene privo di attrattiva e senza acquirenti, o un prodotto imperfetto o difettoso, inutilizzabile, che gli addetti al controllo qualità scartano dalla catena di montaggio. «Esubero» divide il suo spazio semantico con «scarti», «prodotti di risulta», «immondizie», «pattume»: con rifiuti. La destinazione dei disoccupati, dell’«esercito di riserva del lavoro», era quella di venire richiamati in servizio attivo. La destinazione dei rifiuti è la discarica, l’immondezzaio.
Molto spesso, anzi di solito, le persone dichiarate «in esubero» sono viste soprattutto come un problema finanziario. Occorre «provvedere a loro», vale a dire sfamarle, vestirle e dar loro un alloggio. Da sole non sopravvivrebbero. Gli mancano infatti i «mezzi di sopravvivenza» (intesa per lo più in senso biologico, l’opposto della morte per malnutrizione o esposizione alle intemperie). La risposta all’esubero è finanziaria, tanto quanto la definizione del problema: sovvenzioni fornite dallo Stato, decretate per legge dallo Stato, avallate dallo Stato o promosse dallo Stato e soggette alla verifica delle condizioni economiche (sovvenzioni variamente, ma sempre eufemisticamente, denominate sussidi previdenziali, crediti d’imposta, aiuti, sovvenzioni a fondo perduto, indennità). Chi non ha simpatia per questo genere di rimedi tende a contestarli in termini anch’essi economici (sotto la voce «possiamo permetterceli?»), per via dell’«onere finanziario» che tutti questi rimedi impongono ai contribuenti.
In ogni caso, l’esigenza di dare un sostegno alla sopravvivenza di persone dichiarate «in esubero», e forse di mantenerla in modo permanente (cioè, per dirla senza mezzi termini, l’esigenza di accettare che una porzione permanentemente e incurabilmente sovrabbondante della popolazione ha diritto a un livello di ricchezza che non contribuisce a produrre, né è necessaria a produrre), non è che un aspetto del problema che i disoccupati presentano per se stessi e per gli altri. Un altro aspetto, più essenziale – benché tutt’altro che riconosciuto e affrontato in modo adeguato –, è che, in quella porzione di mondo che l’idea di «società» comunemente comprende, manca un compartimento riservato agli «scarti umani» (o, più precisamente, agli esseri umani scartati). Anche se la minaccia che incombe sulla sopravvivenza biologica è affrontata e rintuzzata in modo efficace, questa non piccola impresa non significherebbe neanche lontanamente la garanzia della sopravvivenza sociale. Non basterà a riammettere gli «esuberi» nella società da cui sono stati esclusi, così come immagazzinare i rifiuti industriali in containers refrigerati difficilmente basterebbe a trasformarli in un bene commerciabile.
Il sentimento che l’esubero possa segnalare questa «mancanza di fissa dimora sociale» – con tutta la perdita di autostima e di scopo nella vita che comporta – o il sospetto che questa possa essere la loro sorte in qualsiasi istante, anche se non lo è ancora, rappresenta quella parte dell’esperienza di vita della «Generazione X» che essa non condivide con le generazioni che l’hanno preceduta, per quanto oppresse da un’infelicità acuta e cariche di risentimento. In effetti, la «Generazione X» ha ottime ragioni per essere depressa. Indesiderata, tutt’al più sopportata, condannata a restare la destinataria delle iniziative socialmente consigliate o tollerate, trattata, nel migliore dei casi, come oggetto di benevolenza, di beneficenza e di compassione (criticate come immeritate, tanto per spargere sale sulle piaghe) ma non di aiuto fraterno, accusata di indolenza e sospettata di intenti malvagi e propensioni criminali, ha ben pochi motivi per trattare la «società» come una casa cui si debba fedeltà e sollecitudine. Come suggerisce Danièle Linhart, co-autrice di Perte d’emploi, perte de soi4, «questi uomini e donne perdono non soltanto il lavoro, i progetti, i punti di riferimento, la fiducia di avere il controllo sulle loro vite, ma per giunta si ritrovano spogliati della propria dignità di lavoratori, dell’autostima, del senso di essere utili e di avere un ruolo nella società»5. Perché mai, allora, i dipendenti che si ritrovano improvvisamente squalificati dovrebbero rispettare le regole del gioco politico democratico, se quelle del mondo del lavoro sono sfacciatamente ignorate?
Nella società dei produttori (compresi quelli temporaneamente «esclusi dalla produzione»), i disoccupati saranno anche stati dei poveri disgraziati, ma il loro posto nella società era sicuro e fuori discussione. Sul fronte di battaglia della produzione, chi avrebbe negato la necessità di disporre di valide unità di riserva, pronte alla mischia qualora se ne fosse presentata l’esigenza? I consumatori insod...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. Introduzione
  3. 1. In principio fu il progetto. Ovvero i rifiuti della costruzione di ordine
  4. 2. Loro sono troppi? Ovvero i rifiuti del progresso economico
  5. 3. A ciascun rifiuto la sua discarica. Ovvero i rifiuti della globalizzazione
  6. 4. Cultura dei rifiuti
  7. Excursus. Del raccontare storie
  8. Excursus. Sulla natura dei poteri umani
  9. Excursus. Cultura ed eternità