Immigrazione e consumi culturali
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Immigrazione e consumi culturali

Un'interpretazione pedagogica

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Immigrazione e consumi culturali

Un'interpretazione pedagogica

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Musei e mostre, siti web dedicati alla trasmissione di eredità culturali, redazione di giornali, conferenze, readings, incontri e vissuti di socialità nei luoghi cittadini mostrano la possibilità della coesistenza di elementi delle culture migranti e delle culture native. Sono alcuni esempi dei consumi culturali prodotti e fruiti dai cittadini immigrati in Italia e da cittadini nativi che Mariangela Giusti indaga, a partire da una ricerca qualitativa condotta nel 2010.Le storie di giovani uomini e donne migranti, con figli bambini o adolescenti inseriti nel sistema scolastico italiano, e quelle delle seconde generazioni, in bilico fra cultura d'origine e quella del paese in cui vivono, permettono di comprendere quali sono i luoghi e le situazioni formative sparse sul territorio italiano dove la cultura si sta costruendo meticcia, incrociata, aperta all'altro. Sono luoghi e situazioni vitali e reali, che la scuola non può più ignorare e che devono entrare a far parte integrante della riflessione della pedagogia interculturale.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115886

Capitolo 1. Intercultura, educazione, consumi culturali

1. Coltivare il pensiero interculturale

Il pensiero interculturale in educazione ha tempi lunghi e va formato. Per certi versi (per la ricerca di senso, per la comprensione delle ragioni) è legato all’attualità, vive nell’oggi, nel presente, nella cronaca; per altri versi (per i riferimenti ai saperi, per i rimandi alle discipline, ai metodi) vive radicato nel passato e nella storia ed è proiettato nel futuro. Richiede che gli si dedichi attenzione e possibilità di crescere; ha necessità di espandersi anche al di fuori delle aule scolastiche, di trovare la sua ragion d’essere nei vissuti quotidiani dei minori e degli adulti. Il pensiero interculturale ha bisogno certo di una base epistemologica e di alcune radici fondative che solo la scuola può dare, ma oggi questo non basta più.
C’è la necessità di abituarsi e di abituare gli allievi all’idea di un’autoeducazione continua che si rispecchia nella società multiculturale e che non si accontenta di ciò che è stato trasmesso in classe, ma deve proseguire anche al di fuori delle aule scolastiche.
C’è la necessità di abituarsi e di abituare gli allievi a un atteggiamento autocritico che consenta a chi è nato in un territorio e lì vive da sempre di mettersi a confronto (senza partire da posizioni elitarie) con persone provenienti da mondi lontani talvolta sofisticati, talvolta arcaici, ma che devono condividere tutti i diritti che hanno gli autoctoni nelle scuole, nelle piazze, nei luoghi della formazione continua, negli spazi verdi delle città.
C’è la necessità di abituarsi e di abituare gli allievi ad assumere atteggiamenti di autocoscienza nei confronti della cultura, che si destruttura e si ricostruisce continuamente senza perdere niente di se stessa; che rimane uguale e si rinnova perché questa è la sua forza: trasformarsi e trasformare l’esistente.
Tutto ciò richiede un’intenzionalità personale, oltre che un punto di vista collettivo volto a utilizzare e a creare collegamenti proficui fra la scuola e altri luoghi esterni ad essa, dove l’offerta culturale e i consumi culturali possono essere in grado d’interpretare l’esistente più e meglio rispetto alla scuola e di far fronte alle sfide che i cambiamenti sempre più rapidi portano con sé. Con l’espressione consumi culturali s’intende l’insieme dei messaggi, informazioni, scambi comunicativi, attività, progetti che convivono nella società multiculturale e che determinano e creano un ambiente favorevole nel quale ciascuno di noi capisce un po’ di più le sue radici storiche e quanto c’è di nuovo, e riesce a integrarsi meglio con gli altri. Musei, biblioteche, cinema, sale da concerto e da ballo, giardini pubblici con spazi per la convivialità e per la libera espressione, mercati etnici: sono tutti luoghi che possono allargare la loro azione culturale di connessione al più ampio range possibile di gruppi etnici e subculture presenti nella società attuale estremamente variegata.
Partendo dalle convinzioni appena espresse, questo libro si muove verso la valorizzazione dei luoghi possibili dell’offerta culturale esterni alla scuola, su cui la scuola si può (si dovrebbe) appoggiare e che la scuola non può più ignorare. È un percorso di esplorazione, dunque, in senso letterale, attraverso il quale arricchire il bagaglio di esperienze e conoscenze nel campo dell’intercultura. Se siamo insegnanti, educatori, genitori o studenti universitari che si formano per le professioni educative dobbiamo avere fiducia nella possibilità che il nostro sistema dell’istruzione, orientato (sulla base delle «Linee guida»1) a una chiara prospettiva interculturale, possa realmente interagire con la società multiculturale nella quale viviamo, in un rapporto di reciproco e costante arricchimento.
Si tratta di una fiducia non cieca né apodittica, che nasce – in questo caso – da una ricerca sul campo che è andata avanti per molti mesi: è stata una ricerca qualitativa che ha utilizzato lo strumento dell’intervista in profondità con testimoni giovani e giovani-adulti, immigrati da diversi paesi europei ed extraeuropei almeno da cinque anni. Si è costruito un campione costituito da ragazze e ragazzi immigrati compresi nella fascia d’età che interessa l’ultimo anno del percorso formativo della scuola secondaria di secondo grado e i due anni successivi (durante i quali si sperimentano vari percorsi lavorativi e l’esperienza universitaria). Accanto a questi testimoni ci sono giovani uomini e donne che hanno vissuto la migrazione dal paese d’origine, attualmente con figli bambini o adolescenti inseriti nel sistema scolastico italiano (o da poco usciti)2. Le interviste hanno consentito di raccogliere storie di vita significative ai fini della conoscenza di tanti percorsi esistenziali caratterizzati dalla migrazione e di avvicinarsi al tema dei consumi culturali che formano all’intercultura; hanno consentito anche di conoscere tante situazioni legate al disagio scolastico, culturale, sociale di adolescenti e giovani immigrati, le cosiddette seconde generazioni. La ricerca ci ha portato a incontrare tante persone che vivono la migrazione e a visitare e contattare tanti luoghi e situazioni formative sparse sul territorio italiano dove la cultura si sta costruendo meticcia, incrociata, aperta all’alterità, viva.
Per maturare in noi la fiducia che il sistema dell’istruzione possa realmente interagire in modo proficuo con la società multiculturale è necessario imparare a pensare in modo interculturale e dunque considerare la cultura come un sistema che aiuta a mettere in comunicazione le esperienze esistenziali coi saperi costituiti (e non che crea ostacoli a ciò) e anche come un sistema metabolico che permette e assicura gli scambi fra i soggetti e fra i soggetti e la società (e non che li impedisce creando delle barriere). Il pensiero interculturale in educazione è transdisciplinare nel senso che «rivendica il diritto all’apertura verso qualcosa di ineffabile e indefinibile» (Panikkar, 2002, 27)3, che interseca le varie discipline ma va anche oltre, s’interessa dell’esistenza dei soggetti, della realtà, delle culture.
L’intercultura non s’impara e non s’insegna in astratto. Muoversi con gli strumenti della ricerca qualitativa in educazione consente di creare e sperimentare situazioni interculturali: si raccolgono informazioni sulle storie di vita narrate; ci si conosce; si avviano e si conducono ampi colloqui; si rendono i testimoni partecipi degli scopi della ricerca. La stessa conduzione dell’intervista crea comunanza, partecipazione, empatia. Per avviare le interviste è necessario muoversi nei luoghi delle comunità; dopo le interviste si sono andate a conoscere direttamente le situazioni e le occasioni culturali rammentate dai soggetti/testimoni, dunque anche quei luoghi sono stati visitati, conosciuti, descritti con diari di ricerca e note di campo da chi scrive e dai partecipanti al gruppo di ricerca4. Si sono adottati più metodi, che richiedono di attivare rapporti sociali fra il gruppo di ricerca e i soggetti interessati e di stabilire un buon livello di cooperazione: l’intervista in profondità, la ricerca diretta di documentazioni, l’osservazione sul campo, la descrizione.
Come docenti, come educatori, come genitori, come studenti in formazione si può imparare a pensare in modo interculturale vivendo dentro alla società multiculturale, osservandone i cambiamenti, descrivendola, ascoltando le storie di vita di chi ha lasciato un paese per vivere in un altro, avvicinandosi alle realtà di coloro che hanno vissuto o vivono la migrazione, non chiudendosi ad essi, non cercando territori protetti.
È un possibile punto di partenza per imparare poi a insegnare nelle classi multiculturali, sapendo che occorrono atteggiamenti, metodologie e contenuti che si sappiano adattare alle diverse situazioni.
I due termini sono ricorrenti, come si vede, ma ovviamente non sono sovrapponibili.
Se si parla di pensiero interculturale in educazione l’aggettivo contempla nel suo campo semantico le idee di incontro, di scambio reciproco, di dinamicità e rimanda alla possibilità e all’auspicio di un approccio non statico né chiuso, di una reale mutua fecondazione fra le culture e deve essere connotato da implicazioni intenzionali di relazionalità e di reciprocità.
Se si parla di città o di classi multiculturali possiamo intendere l’aggettivo come un indicatore sociologico neutro, senza connotazioni valoriali, come un indicatore della compresenza di popolazioni o di allievi di varia provenienza geoculturale nello stesso ambito spaziale senza interazioni reciproche. Molto opportunamente Tassinari (in Tassinari et al. 1992, 175) ha parlato di «educazione interculturale nell’ambito di una società multiculturale», ponendo l’accento sul significato positivo della convivenza e dell’interazione fra le culture.
Le classi del sistema scolastico formale italiano dei primi decenni del Duemila (così come i gruppi di apprendimento dell’extrascuola e del sistema informale) sono multiculturali, plurietniche, emblemi veri della diversità di volti, di sguardi, di colori della pelle, di lingue. Al loro interno i rapporti educativi sono complessi. Esigono dai docenti e dagli educatori competenze professionali elevate e molteplici: abilità e conoscenze non statiche, che sappiano rinnovarsi. Richiedono di prestare una cura attenta alla dimensione linguistico-comunicativa e al contesto conversazionale; impongono scelte rapide di tipo cognitivo e affettivo, sociale e relazionale; manifestano l’opportunità di programmare le attività ponendo attenzione anche agli aspetti legati ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita dei singoli. Coltivare in sé il pensiero interculturale in educazione e comprendere la possibilità di fare scelte didattiche interculturali sono due compiti professionali collegati fra loro, di cui in Italia si è cominciato a parlare intorno alla fine degli anni Ottanta del Novecento e su cui si è riflettuto e sperimentato nei due decenni successivi.
Col procedere dell’esperienza, e con l’elaborazione di essa, molti docenti e molti educatori hanno imparato a pensare e ad agire professionalmente in una dimensione olistica in cui l’uguaglianza e la differenza, l’unità e il molteplice non sono visti in una relazione oppositiva ma con la possibilità di essere in correlazione. Il filosofo Edgar Morin (1995, 12) ha parlato di unitas multiplex per indicare «l’unità genetica, cerebrale, intellettuale, affettiva della nostra specie, che esprime le proprie innumerevoli virtualità attraverso l’eterogeneità delle culture». Morin intende significare che l’unità si accompagna al molteplice ed esprime una contraddittorietà che designa la caratteristica propria del genere umano.
L’affermazione di Morin è realistica e mette sull’avviso che esistono o possono esistere anche delle difficoltà nella convivenza delle diverse culture nella società e nella scuola, a maggior ragione oggi che il ruolo degli insegnanti e degli educatori dovrebbe essere sempre meno confinato nel chiuso delle istituzioni e sempre più in simbiosi con ciò che accade al di fuori di esse.

1.1. Avvenimenti della storia e della cronaca

Nell’ultimo decennio sulla scena del mondo ci sono stati tanti cambiamenti di grande portata che hanno inciso e incidono sulla formazione all’intercultura. Facciamo una riflessione semplice, legata al tempo e alle figure che operano attualmente e opereranno negli anni futuri nel nostro sistema educativo. Coloro che oggi sono giovani insegnanti (nelle scuole dei vari ordini) e giovani educatori (nelle cooperative socioeducative, nei cag – centri di aggregazione giovanili –, nei ctp – centri territoriali permanenti –, nei doposcuola, nei centri estivi) che iniziano a svolgere la loro professione o la stanno svolgendo da pochi anni (dunque indicativamente persone con meno di trent’anni d’età) avevano circa 15/18 anni quando è avvenuta la tragedia dell’11 settembre 2001. Analogamente, gli studenti che oggi siedono nelle aule universitarie delle facoltà che preparano a svolgere professioni educative e che hanno 20/23 anni, quando è accaduta quella tragedia erano ragazzi di 10/13 anni, dunque in grado di ricordarla. Chi si occupa di formazione al pensiero interculturale in educazione non deve dimenticare questo tratto biografico che ha interessato direttamente la crescita e il diventare adulti di almeno due generazioni e che interesserà (certo meno direttamente) sul piano della memoria collettiva, dell’eredità simbolica, della ricostruzione della storia recente anche le biografie di crescita di almeno altre due generazioni (cioè quelle che attualmente frequentano le scuole medie e le scuole secondarie di secondo grado).
La tragedia di New York, vista in diretta e mantenuta viva dai media per anni col contorno inevitabile di rivisitazioni, immagini, interpretazioni, non ha indirizzato certo verso l’apertura all’Altro che l’intercultura richiede, e non ha creato certo una buona disposizione verso la formazione al pensiero interculturale nei ragazzi di quella generazione.
Anche le ragazze e i ragazzi figli di genitori arabi immigrati in Italia hanno vissuto e vivono le contraddizioni che quell’avvenimento ha provocato. Diversi di loro hanno la possibilità di esprimere le loro opinioni in maniera anticonvenzionale e spiritosa, utilizzando autocritica e ironia attraverso le pagine della rivist...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Parte prima. Consumi culturali e pedagogia: una prima ricerca
  3. Capitolo 1. Intercultura, educazione, consumi culturali
  4. Capitolo 2. Luoghi di offerta e consumo culturale condiviso: i musei
  5. Capitolo 3. Consumi culturali che legano tradizione e attualità: il web
  6. Capitolo 4. Mappe della coesione: luoghi dei consumi, luoghi di parola
  7. Parte seconda. Laboratori di formazione per i docenti e gli educatori
  8. Riferimenti bibliografici