Teorie delle comunicazioni di massa
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Teorie delle comunicazioni di massa

  1. 202 pagine
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Teorie delle comunicazioni di massa

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Il volume analizza i diversi approcci teorici che hanno segnato e accompagnato lo sviluppo e l'affermazione delle comunicazioni di massa nelle società moderne. Una illustrazione puntuale delle principali teorie fa emergere un quadro complessivo che si caratterizza per il riconoscimento del 'potere' del sistema dei media all'interno del mondo in cui viviamo. Un potere che si esercita sia riguardo ai singoli individui – nei processi di costruzione della realtà – sia rispetto ad altri sistemi che necessitano di accedere alle risorse del sistema mediale per poter conseguire determinati obiettivi (visibilità, pubblicizzazione, circolazione di informazioni, etc.).

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117620

1. Società e comunicazioni di massa

1.1. La società di massa

Al termine di un accurato e prezioso lavoro, Gili (1990) definisce la società di massa come una «società in cui le istituzioni relative ai diversi sottosistemi sociali (economico, politico-amministrativo, del diritto, dell’educazione, della comunicazione sociale, etc.) sono organizzate in modo tale da trattare con vasti insiemi di persone considerate come unità indifferenziate di un aggregato o “massa”» (p. 217). Specificando ulteriormente i tratti tipici della società di massa, essi vengono rintracciati nelle «società differenziate funzionalmente, cioè società composte “atomisticamente” di individui che non appartengono più integralmente ad un certo segmento o status sociale, ma dispongono dell’accesso ai diversi sistemi differenziati, anche se solo per funzioni specifiche, di volta in volta rilevanti nella loro vita» (p. 218). La differenziazione funzionale della società alla quale fa riferimento Gili è propria delle società moderne, vale a dire dell’organizzazione sociale nata con le profonde trasformazioni del tessuto economico, sociale e culturale avviate alla fine del XIX secolo. Ed è proprio da quel periodo che è necessario partire per comprendere la natura della società di massa e delle comunicazioni di massa che si affermeranno quasi contemporaneamente.
Di fronte alle profonde trasformazioni connesse all’industrializzazione, al fenomeno dell’urbanizzazione che segna l’abbandono delle campagne, all’indebolimento dei legami familiari, di comunità o di mestiere, gli strumenti interpretativi si mostrano inadeguati e tali da richiedere una profonda revisione. In realtà, è la società che lentamente sta cambiando e che necessita, quindi, di un approccio nuovo in grado di cogliere la complessità delle relazioni.
Tra i primi a interrogarsi sulla natura della società che si andava costituendo e a offrire una nuova chiave di lettura va citato Claude-Henri Saint-Simon (1760-1825), considerato il fondatore del socialismo moderno e della sociologia positivista. Nei suoi scritti, Saint-Simon elabora il concetto di «società organica», vale a dire di una società equiparata a un organismo all’interno del quale tutti i soggetti non sono che parti. All’interno di questo organismo regna l’armonia, frutto di uno sviluppo progressivo che coinvolge tutti i suoi elementi: infatti, qualora dovesse verificarsi un mutamento soltanto in uno di essi, si sarebbe di fronte a uno squilibrio. Perché possa affermarsi questo modello, è necessario che la riorganizzazione della società avvenga su basi scientifiche e sul lavoro industriale. La «fisiologia sociale» di Saint-Simon considera la differenziazione delle parti all’interno dell’organismo sociale come qualcosa di inevitabile, che può essere controllato e organizzato su basi scientifiche. La società deve essere basata sul lavoro e l’unico potere legittimo e giustificabile è quello economico. Con grande acutezza, i Mattelart (1995, trad. it. 1997), sostengono che
il sansimonismo esprime lo spirito imprenditoriale della seconda metà del XIX secolo. Incarnazione dei tempi, esso influenza inevitabilmente i romanzi d’appendice di Eugène Sue, con le loro idee di riconciliazione degli antagonismi sociali, come pure le opere fantascientifiche di Jules Verne, che precorrono l’avvento di mondi tecnologici (p. 15).
Nonostante l’ingenuo ottimismo segnalato dai Mattelart, Saint-Simon apporta un contributo significativo allo sviluppo della sociologia con la sua elaborazione di una società composta da parti separate, che si ricompongono e trovano una loro armonia in uno sviluppo progressivo. D’altro canto, sarà proprio l’accentuazione della differenziazione tra le parti a costituire la base per l’elaborazione di una teoria della società di massa, della quale si parlerà nelle pagine successive. In questa sede, è sufficiente seguire il filo rosso che lega Saint-Simon a Comte, vale a dire a colui che viene concordemente definito come il padre della sociologia.
Nel suo Corso di filosofia positiva (1934, trad. it. 1967), Comte propone una concezione organica della società, cioè considera la società come un particolare tipo di organismo, sia pure un organismo collettivo. All’interno di questo organismo, come già sottolineato dal suo maestro Saint-Simon, è possibile individuare una molteplicità di parti che operano, tutte, in modo coordinato. L’organizzazione della società sulla falsariga di un organismo comporta l’esistenza di una divisione dei compiti tra i vari soggetti nell’obiettivo di mantenere un’armonia complessiva. In breve, comporta l’introduzione del concetto di specializzazione, che, secondo Comte, è rintracciabile anche nello stato
più imperfetto dell’associazione propria della nostra specie. La nostra semplice vita domestica, che, sotto ogni aspetto, contiene necessariamente il germe essenziale della vita sociale propriamente detta, ha dovuto sempre maggiormente manifestare lo sviluppo spontaneo d’una certa specializzazione individuale delle diverse funzioni comuni, senza la quale la famiglia umana non potrebbe sufficientemente realizzare il suo particolare scopo (p. 361).
La specializzazione alla base del funzionamento dell’organismo sociale comporta, tuttavia, il rischio di un eccesso di specializzazione tale da indebolire lo spirito d’insieme:
Se, infatti, da una parte la separazione delle funzioni sociali permette allo spirito di dettaglio un felice sviluppo impossibile in ogni altra maniera, essa tende spontaneamente, dall’altra, a soffocare lo spirito d’insieme, o almeno ad ostacolarlo profondamente (p. 368).
Così, può accadere che, in una società all’interno della quale la specializzazione delle funzioni è fortemente sviluppata, si assista a una scomposizione della stessa società «in una moltitudine di corporazioni incoerenti, che sembrano quasi o per niente appartenere alla stessa specie» (p. 369). Quanto più gli individui occupano posizioni diverse all’interno del sistema sociale sviluppando forti legami tra simili, tanto più si riduce la capacità di comprendere quei soggetti che occupano altre posizioni. La specializzazione, che pure garantisce l’armonia dell’organismo sociale, rischia di produrre distanza e incomunicabilità tra individui, dando vita a inattese forme di disorganizzazione. L’incomunicabilità e la distanza tra individui intesi come frutto dell’eccesso di specializzazione rappresenteranno, negli scritti successivi di altri sociologi, uno dei «punti di partenza fondamentali del dibattito sulle comunicazioni di “massa”» (DeFleur, Ball-Rokeach, 1989, trad. it. 1995, p. 165, corsivo degli autori). Sarà, infatti, l’isolamento sociale all’interno del quale gli individui saranno proiettati a costituire l’humus sul quale si svilupperà la teoria ipodermica.
Riprendendo l’ipotetico filo rosso che lega Saint-Simon a Comte, caratterizzato essenzialmente dall’attribuzione di una particolare forma organizzativa al sistema sociale (l’organismo sociale), con il corollario dell’inevitabile specializzazione che consegue a una tale organizzazione, ciò che ha iniziato a prender forma con il pensiero dei fondatori della sociologia è l’idea di una progressiva e inarrestabile atomizzazione della società. A fronte dell’indispensabilità della specializzazione delle funzioni, si colloca il rischio di una perdita insostituibile di una rete di relazioni sociali significative per gli individui, rappresentati sempre più come soli e isolati.
Sulla questione della profonda trasformazione della sfera relazionale dei soggetti, ulteriori elementi di conferma vengono forniti da Ferdinand Tönnies (1855-1936) nel suo famoso lavoro giovanile del 1887 dal titolo Comunità e società (1963). Per Tönnies, la Gemeinschaft (comunità) si riferisce a un modo di sentire comune, che fa sì che gli uomini si sentano parte di un tutto, che partecipino della realtà nella quale vivono immedesimandosi completamente con essa. Per converso, la Gesellschaft (società) è impersonale e anonima, basata sulla forma di relazione sociale tipica del contratto tra individui in vista di un tornaconto personale. Con grande chiarezza, il sociologo tedesco illustra le differenze tra comunità e società:
Tutte le lodi della vita di campagna hanno sempre messo in evidenza che qui la comunità tra gli uomini è più forte e più viva: la comunità è la convivenza durevole e genuina, la società è soltanto una convivenza passeggera e apparente. È quindi coerente che la comunità debba essere intesa come un organismo vivente, e la società, invece, come un aggregato e prodotto meccanico (p. 47).
Pur non mancando di manifestare il suo personale apprezzamento per la comunità, al punto da far rintracciare «una evidente simpatia per il patriarcalismo» (Izzo, 1977, p. 26), lo stesso Tönnies è consapevole dell’inevitabile affermazione della società a danno della comunità a seguito del processo di industrializzazione. Con grande chiarezza, quindi, prevede che nella società industriale scompariranno «gli insiemi di sentimenti comuni e reciproci» in virtù dei quali gli individui rimangono uniti, mentre si affermeranno modalità di relazione basate sulla forma del contratto. Gli individui continuano, così, a essere descritti come sempre più soli e immersi in relazioni sociali sempre meno condivise fino al punto da arrivare, in casi estremi, a dar vita a ciò che Émile Durkheim ha chiamato «anomia», vale a dire mancanza di norme.
Il concetto di anomia elaborato da Durkheim nell’opera La divisione del lavoro sociale (1893, trad. it. 1971) si inscrive all’interno di una più ampia riflessione sul fondamento morale che deve avere la società. Mediante le categorie della solidarietà meccanica e della solidarietà organica, Durkheim ricostruisce il complesso delle relazioni che si stabiliscono all’interno di una società. La solidarietà meccanica deriva dalle somiglianze tra gli individui, si accompagna a una divisione del lavoro elementare e si caratterizza per dare vita a un essere collettivo. La solidarietà organica, invece, trae origine dalla eterogeneità tra gli individui, si traduce in una divisione del lavoro molto sviluppata e vive a seguito dell’introduzione di numerose relazioni formali e frammentate.
Mentre la precedente [la solidarietà meccanica] implica una somiglianza tra gli individui, questa [la solidarietà organica] presuppone la loro differenza. La prima è possibile soltanto nella misura in cui la personalità individuale è assorbita dalla personalità collettiva; la seconda è possibile soltanto se ognuno ha un proprio campo di azione, e di conseguenza una personalità (p. 145).
L’eterogeneità tra individui e la marcata divisione del lavoro tipici della solidarietà organica possono, in casi estremi, dare vita a una situazione caratterizzata da anomia, rintracciabile laddove la società non si configura più come un potere in grado di regolare e porre limiti all’agire degli individui. Privi di un’autorità morale che ponga regole e freni, gli individui esasperano il tratto individuale e si mostrano incapaci di autoregolarsi, alla perenne ricerca di nuove mete e di nuove soddisfazioni.
La costruzione ideale (Tönnies, 1887, trad. it. 1963) degli individui operata dai padri della sociologia si definisce in relazione a un diffuso senso di isolamento, un rischio di anomia, una vita relazionale regolamentata dalla forma del contratto, una separatezza frutto di un eccesso di specializzazione. In breve, ciò che viene meno è la capacità di sentirsi parte di una comunità e di stabilire relazioni significative con gli altri membri. In una società così caratterizzata, ne discende che:
a) gli individui vivano in una condizione di isolamento, vale a dire al di fuori di una rete di relazioni per essi significativa come quella che caratterizzava la Gemeinschaft;
b) sia dato loro modo di vivere quasi esclusivamente relazioni basate sull’impersonalità (ad esempio il contratto), tratto caratterizzante della Gesellschaft;
c) siano relativamente liberi da pressioni sociali vincolanti, al punto da rischiare di dar vita a situazioni di anomia.
Queste categorie analitiche elaborate a cavallo del XX secolo continuarono a essere utilizzate per interpretare il modello di società che si andava allora affermando e per sostenere indirettamente l’elaborazione della teoria della società di massa, prima, e della teoria ipodermica, poi. Fino a tutti gli anni Trenta, infatti, l’idea di società alla quale si faceva riferimento si declinava nei termini di un crescente isolamento ed eterogeneità degli individui, una diffusa incapacità a identificare forme efficaci di coesione da parte della società, una netta prevalenza di relazioni formali, una crescente perdita della capacità di entrare in relazioni significative con altri soggetti.

1.2. La teoria della società di massa

Il sipario che si apre sul XX secolo offre un palcoscenico occupato da un nuovo soggetto: la massa. Nella ricostruzione di Statera (1993),
Il primo affacciarsi delle «masse» sulla scena delle società europee del secolo scorso produsse reazioni diverse e contrastanti fra gli intellettuali in generale, e gli studiosi dei fatti sociali in particolare. Il termine «massa» fu inizialmente associato ad alcunché di amorfo, magmatico, imprevedibile, pericolosamente instabile; «massa» era essenzialmente la «massa bruta», soggetta alle più svariate sollecitazioni, pronta a seguire intriganti demagoghi, a piegarsi istintivamente alle parole d’ordine abilmente diffuse da questi (p. 3).
Con la sola eccezione di chiavi di lettura ispirate al marxismo – che vedevano nella presenza di masse organizzate l’occasione per accelerare il processo rivoluzionario – prevaleva una concezione della massa manipolabile e portatrice di una sorta di istinto di sottomissione, come teorizzato dalla cosiddetta «psicologia delle folle» che vede in Le Bon (1895, trad. it. 1946) uno dei massimi esponenti.
Tra impossibili sogni di ritorno al passato e preoccupazioni circa la profonda crisi che attraversava la società e la cultura tradizionale, il concetto di massa assume centralità e rilevanza euristica nelle riflessioni di studiosi e intellettuali. Sul fronte degli studi di sociologia politica, un contributo significativo alla creazione di un clima di preoccupazione circa la massa proviene dai teorici dell’«élitismo», vale a dire Mosca, Pareto e Michels. Pur con alcune differenze, gli studiosi citati condividevano l’idea secondo la quale, in tutte le forme di società, la massa non è altro che uno strumento di manovra a disposizione delle élite. L’inevitabilità di tale situazione deriva dalla forza dell’organizzazione propria delle élite – in grado di costituirsi come un gruppo omogeneo – contrapposta alla dispersione e disorganizzazione propria delle masse. Non è sufficiente essere numerosi per poter avanzare rivendicazioni e proporsi come alternativa al governo della società; è necessario, piuttosto, dotarsi di una struttura organizzativa. D’altro canto, se «la democrazia non è concepibile senza organizzazione» (Michels, 1911, trad. it. 1966, p. 55), ne discende inevitabilmente l’accettazione di una minoranza organizzata che governa una maggioranza disorganizzata:
Il meccanismo ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Società e comunicazioni di massa
  3. 2. Lo sviluppo della ricerca empirica: dalla manipolazione alla «comunicazione persuasoria»
  4. 3. Gli effetti limitati dei media
  5. 4. La teoria del funzionalismo e l’approccio degli usi e delle gratificazioni
  6. 5. Teoria critica e teoria culturologica, ovvero l’industria culturale come oggetto di studio
  7. 6. I «cultural studies» e il contributo dell’approccio comunicativo
  8. 7. La teoria dell’«agenda setting»
  9. 8. La spirale del silenzio
  10. 9. La teoria della coltivazione
  11. 10. Gli scarti di conoscenza
  12. 11. La teoria della dipendenza
  13. Commiato
  14. Riferimenti bibliografici