Dizionario di archeologia
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Dizionario di archeologia

Temi, concetti e metodi

  1. 380 pagine
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Temi, concetti e metodi

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858130308
Categoria
Archeologia

S

Scavo archeologico

In linea generale, lo scavo archeologico può essere definito come una sequenza di operazioni e procedure metodologicamente controllate, volte allo smontaggio e all’indagine analitica di una porzione più o meno estesa della stratificazione naturale e antropica del terreno di un sito archeologico e finalizzate alla raccolta della maggior quantità possibile di dati e di elementi di conoscenza sull’aspetto del sito stesso nel passato, sulle sue fasi di frequentazione e di abbandono e sui diversi aspetti della vita degli uomini che quel sito occuparono, utilizzarono e trasformarono.
Da questo punto di vista, esso costituisce dunque uno dei momenti centrali dell’indagine archeologica nel suo complesso, anche se da tempo ormai ha cessato di essere inteso come occasione unica della «scoperta» archeologica. In una moderna concezione della ricerca archeologica come processo conoscitivo collettivo, che trova origine nella proposizione di una serie di questioni storico-antropologiche e conclusione solo nell’edizione definitiva dei risultati dell’indagine, lo scavo viene, infatti, a collocarsi nel novero di una serie di metodiche d’indagine del terreno, a carattere distruttivo e non, finalizzate a fornire dati archeologici da porre in relazione e a confronto con i dati provenienti da altri sistemi di fonti storiche (cfr. storia, archeologia e). L’indagine archeologica sul terreno si identifica quindi sempre meno esclusivamente con lo scavo, anche se esso rimane uno strumento conoscitivo fondamentale, capace per sua natura non solo di offrire risposte a quesiti posti, ma anche e soprattutto di fornire dati e materiali in grado di generare nuova domanda storica e nuovi paradigmi interpretativi.
Nell’ambito del processo d’indagine, lo scavo si qualifica dunque come un procedimento complesso che, proprio in virtù della sua natura di strumento analitico invasivo e distruttivo, dal costo relativamente alto in termini economici e sociali, deve essere sottoposto a regole precise, tanto dal punto di vista scientifico-metodologico, quanto da quello economico-culturale, quanto, infine ma non da ultimo, sotto il profilo giuridico-legale. Lo scavo archeologico è, infatti, connotato, nella sua concreta realizzazione, dall’assommare in sé numerosi aspetti diversi: quello della ricerca scientifica applicata, quello dell’attività di conoscenza e tutela di un patrimonio culturale collettivo (cfr. legislazione e tutela), quello di un lavoro edile in qualche caso relativamente complesso e quello di una impresa economico-culturale.
Sotto il profilo della ricerca applicata, il carattere più rilevante dello scavo archeologico è quello di qualificarsi come indagine analitica virtualmente irripetibile, giacché la sua esecuzione comporta necessariamente la distruzione definitiva della stratificazione indagata. Ciò comporta evidentemente una precisa assunzione di responsabilità da parte dell’archeologo e, di conseguenza, apre la delicata questione dei metodi e delle strategie che debbano presiedere alla conduzione dello scavo archeologico al fine di trarre da quest’operazione distruttiva il massimo possibile dei dati e delle informazioni.
Sottaciuta quand’anche non esplicitamente negata fino ad anni relativamente recenti – in particolare in Italia, fatte salve alcune significative eccezioni (Manacorda 1982) –, la questione del metodo di conduzione dello scavo archeologico ha trovato una sua definizione soprattutto nell’elaborazione teorica e nella pratica sul campo dell’archeologia britannica (Barker 1977; Harris 1979; Harris, Brown, Brown 1993) e una rielaborazione critica in Italia nei lavori di A. Carandini (19912) e della sua scuola. Sotto il profilo metodologico appare comunque oggi coscienza comune che lo scavo archeologico non possa che essere stratigrafico, vale a dire concepito come smontaggio ordinato e controllato di una stratificazione di origine naturale e/o antropica.
Base di partenza della teoria e della pratica dello scavo stratigrafico è dunque il concetto di stratificazione archeologica, intesa come risultante fisica delle tracce lasciate nel terreno dalle attività umane e dall’azione degli agenti naturali nel passato. La moderna stratigrafia archeologica, che ha trovato la sua più puntuale elaborazione teorica nel lavoro di E.C. Harris (1977), si basa infatti sull’assunto che ogni attività umana e ogni fenomeno naturale modificano in misura maggiore o minore l’ambiente in cui si svolgono, aggiungendo o sottraendo nuovi elementi al paesaggio. Nel loro incessante susseguirsi nel corso del tempo, attività umane e agenti naturali determinano quindi un grandissimo numero di modificazioni più o meno significative e di buona parte di tali modificazioni rimane una traccia visibile nella stratificazione del terreno, che nel progressivo rialzarsi dei suoi livelli arriva così a configurarsi come una sorta di archivio dei paesaggi naturali e antropici succedutisi nel corso dei secoli su di un singolo sito.
Il terreno archeologico risulta dunque costituito da una sequenza di elementi di diversa natura, che possono essere schematicamente raggruppati in due categorie: Unità stratigrafiche positive, frutto di azioni di accumulo o costruzione, che determinano quindi un incremento di volume della stratificazione, e Unità stratigrafiche negative, frutto di azioni di erosione o distruzione, che determinano per contro un decremento nel volume della stratificazione. Ogni stratificazione archeologica risulterà quindi composta da una serie di unità stratigrafiche positive e negative, disposte in una sequenza fisica in cui più in basso si collocano le US più antiche, a partire dalla prima traccia di frequentazione umana sul terreno vergine, e progressivamente più in alto quelle via via più recenti, fino a giungere alle tracce riconoscibili come frutto delle attività umane o dei fenomeni naturali a noi contemporanei. L’analisi della sequenza deve peraltro tener conto anche delle trasformazioni che si verificano all’interno della stratificazione, prodotte da eventi meteorici e climatici, dalle attività di pedogenesi o da altri fenomeni di alterazione successivi alla formazione del deposito, che vanno appunto sotto il nome di fenomeni postdeposizionali (cfr. processi formativi).
Sulla base di queste premesse, lo scavo archeologico condotto secondo il metodo stratigrafico si propone dunque come uno smontaggio della stratificazione, eseguito procedendo nell’ordine inverso rispetto a quello con cui la stratificazione stessa si era formata e andando quindi a individuare, documentare e scavare per prima l’unità stratigrafica più recente, per procedere poi attraverso una sequenza ripetitiva di procedure standardizzate all’individuazione, alla documentazione e allo scavo di quelle via via più antiche (cfr. scavo, pratica e documentazione).
Più articolate appaiono invece le questioni connesse con la strategia della conduzione dello scavo archeologico, in considerazione della molteplicità delle varianti che possono contribuire a determinare le scelte operative di una équipe archeologica e che possono essere schematicamente riassunte in alcune categorie: tipologia dello scavo da eseguire, natura della stratificazione da indagare, qualità della domanda storico-antropologica che allo scavo presiede, vincoli ambientali, temporali ed economici, composizione del gruppo di ricerca.
Per quanto riguarda la tipologia dello scavo, si può far ricorso a una funzionale tripartizione in scavi di emergenza, scavi preventivi o di tutela e scavi programmati. Agli scavi di emergenza appartengono tutte quelle indagini sul terreno che si rendono necessarie e urgenti allorché porzioni significative di stratificazione archeologica vengono esposte in occasione di lavori non archeologici di scavo (per esempio, in occasione di scavi per la fondazione di strutture edilizie o per la messa in opera di reti di condutture); in questo caso l’équipe archeologica si trova a intervenire quando una parte significativa della stratificazione archeologica è già stata intaccata e lo scavo non può non assumere un carattere di salvataggio, attraverso una documentazione analitica, di dati e informazioni di natura archeologica altrimenti destinati ad andare irrimediabilmente perduti.
In una prospettiva di gestione più attenta del patrimonio archeologico – soprattutto, ma non esclusivamente, nei centri storici – si collocano invece gli scavi preventivi o di tutela, in cui l’intervento archeologico è preliminare alla realizzazione di lavori edili di altra natura che comportino uno scavo del terreno. Dal punto di vista della strategia di conduzione dell’indagine, questa tipologia di scavi è caratterizzata dalla presenza di pesanti vincoli di natura spaziale (i limiti dello scavo coincidono di norma con quelli dell’opera edilizia progettata), di natura temporale (i tempi di conduzione dell’indagine archeologica debbono risultare compatibili con quelli, perlopiù assai serrati, della realizzazione dell’opera edilizia) ed economica, ma va sottolineato come essi costituiscano uno strumento fondamentale per la conoscenza, la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico e uno dei campi in cui con maggiore rilievo può esplicarsi il ruolo sociale della professione archeologica.
Vincoli esterni assai più limitati propongono invece gli scavi programmati – realizzati per lo più in siti abbandonati o in porzioni dei centri urbani temporaneamente non utilizzate – in cui gli elementi determinanti nella scelta del sito da scavare, dell’ubicazione e dell’estensione dei saggi di scavo, dei tempi di esecuzione e del livello di analiticità dei procedimenti di documentazione e scavo delle singole unità stratigrafiche sono rappresentati quasi esclusivamente dalla natura della stratificazione da indagare e dalla qualità della domanda storico-antropologica che ha originato la programmazione dello scavo. Anche in questo caso particolarmente fortunato, in cui l’attività di scavo può esprimere tutto il proprio potenziale culturale, sia in termini di acquisizioni di nuove conoscenze sia in termini di accrescimento, consolidamento e sviluppo delle professionalità (gli scavi programmati, spesso condotti dalle università o da istituzioni di ricerca, sono il terreno privilegiato per la formazione sul campo dei giovani archeologi), alla équipe archeologica si propongono comunque problemi non irrilevanti di scelte strategiche. Tali scelte riguardano: l’estensione, la forma e la suddivisione funzionale dell’area da indagare, le dimensioni del gruppo di ricerca, la sua articolazione e le competenze specifiche che debbono essere previste, dalla stima dei tempi di esecuzione del lavoro e dei costi dell’operazione fino a giungere alla necessità di prevedere, almeno nelle linee generali, le soluzioni per il riallestimento dell’area dopo lo scavo.
Per quel che concerne la «forma» dello scavo, è ormai assunta come prassi prevalente di riferimento quella dello scavo in estensione e per grandi aree, il cui principio ispiratore consiste nel mettere in luce contemporaneamente la maggior estensione possibile della superficie da indagare, al fine di «cogliere sistemi di strutture e di strati terrosi il più possibile complessi e continui» (Carandini 19912, p. 48). Ciò pone il problema prioritario di determinare le dimensioni e i limiti del saggio (o dei saggi) di scavo. A questo fine risultano indispensabili una serie di indagini preliminari non distruttive, ricerche sulle fonti storico-archivistiche (laddove queste siano disponibili) e, comunque, una scortecciatura estensiva dell’area al fine di avere un quadro il più possibile chiaro della natura del deposito archeologico per poter operare una scelta che rispetti, fin dove ciò sia possibile, la conformazione orizzontale della stratificazione.
Solo in un secondo momento sarà quindi possibile passare alla scelta strategica definitiva relativa al cosa, al quanto e al dove scavare. Dato che qualsiasi scavo, per quanto esso sia esteso, non può che indagare una frazione della stratificazione realmente esistente, e fatto evidentemente salvo il principio che alla maggiore estensione dello scavo corrisponde in termini assoluti una maggiore quantità di evidenza archeologica, occorre riflettere sulla circostanza che non necessariamente il rapporto proporzionale tra superficie scavata e dato recuperato può essere assunto come costante: per esempio, nel caso di strutture modulari o speculari rispetto a un asse (un horreum, un quadriportico ecc.), lo scavo di una porzione relativamente limitata (per esempio, la metà o anche un quarto dell’intera estensione) potrà restituire, almeno per quel che riguarda le strutture edilizie, una quantità di evidenza archeologica di poco inferiore, se non addirittura pari, a quella di uno scavo integrale. Per contro, nel caso dello stesso tipo di strutture, uno scavo solo parziale si espone al rischio di non cogliere adeguatamente o di ignorare del tutto fenomeni anche assai significativi ma che interessino solo una parte della struttura indagata (per esempio, nel caso di un portico, il riuso di una sua porzione in una fase in cui il resto della struttura è abbandonato). Quella del campionamento e della forma del saggio o dei saggi di scavo da aprire su un sito emerge dunque come la più problematica tra le scelte strategiche che occorre operare, a proposito della quale non esiste evidentemente una soluzione precostituita che possa essere applicata indifferentemente a ogni situazione reale. Tale scelta va compiuta di volta in volta tenendo conto almeno della natura della stratificazione, della qualità della domanda storico-antropologica che si intende porre, della disponibilità di tempo e di risorse economiche (umane e finanziarie), delle previsioni di destinazione e utilizzo dell’area dopo lo scavo e, non da ultimo, soprattutto in caso di contesti particolarmente complessi, della disponibilità all’interno della équipe di tutti quei saperi individuali e di tutte quelle strumentazioni e tecniche analitiche in grado di assicurare una ricognizione ragionevolmente completa del potenziale informativo del sito.
Dal punto di vista della ricerca applicata, lo scavo archeologico può essere concepito come una interazione tra due entità distinte, la stratificazione archeologica di un sito e l’équipe di archeologi che quella stratificazione si propone di analizzare e interpretare: il dato archeologico, presente nella stratificazione come semplice potenzialità informativa, diviene tale solo nel momento in cui esso viene letto e decodificato nel corso dello scavo. Tutt’altro che irrilevante appare dunque il problema della strutturazione e del funzionamento del gruppo di ricerca, che deve prevedere al suo interno gerarchie scientifiche e operative riconosciute e competenze spesso assai diversificate. Figura centrale dell’équipe non può che essere il direttore dello scavo, su cui gravano le maggiori responsabilità in ordine all’impostazione della ricerca, alla progettazione e conduzione dello scavo e alla edizione dei suoi risultati, al mantenimento delle pubbliche relazioni, al controllo sugli aspetti economici, amministrativi e logistici, che, soprattutto in cantieri urbani di grandi dimensioni, possono divenire anche assai rilevanti (cfr. urbana, archeologia). Al direttore si affianca una serie di specialisti portatori di competenze diverse, cui è demandato il compito di organizzare e condurre nella pratica quotidiana il lavoro sul campo. Si tratta in primo luogo di specialisti esperti nelle procedure di individuazione, documentazione e scavo delle unità stratigrafiche, cui spetta il ruolo di organizzare e tenere sotto controllo il procedere del lavoro nel saggio o settore che è stato loro affidato, in particolare per quel che riguarda il rispetto delle regole del «gioco» stratigrafico e l’accuratezza della documentazione di ciò che è stato scavato; i responsabili di saggio o di settore occupano dunque un ruolo chiave nella conduzione di uno scavo, costituendo i più stretti collaboratori del direttore in tutti i momenti della ricerca (dall’ideazione all’edizione), svolgendo una fondamentale funzione didattica nei confronti degli archeologi più giovani che loro si affiancano ed essendo essi stessi oggetto di formazione in vista di una successiva assunzione di autonoma responsabilità nella direzione di uno scavo.
Altre distinte responsabilità specifiche di assistenza al direttore dello scavo possono riguardare gli aspetti amministrativi, la gestione del magazzino dei reperti, la documentazione grafica, la documentazione fotografica, la conservazione e il restauro (cfr. ) dei reperti, le indagini paleoecologiche (cfr. ambientale, archeologia) e le indagini topografiche sul territorio (cfr. ricognizione archeologica) (o le indagini archivistico-documentarie nel caso di scavi in ambiente urbano). Va da sé che nel caso di scavi di dimensioni più modeste alcune o molte di queste competenze e responsabilità possono essere riunite in una sola persona, così come nel caso di indagini di scavo a più vasta scala a ciascuna di tali figure professionali possono corrispondere più persone in rapporto gerarchico t...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. A
  3. B
  4. C
  5. D
  6. E
  7. F
  8. G
  9. I
  10. L
  11. M
  12. N
  13. P
  14. Q
  15. R
  16. S
  17. T
  18. U
  19. V
  20. Elenco dei collaboratori