Retrotopia
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Retrotopia

  1. 206 pagine
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Non siamo più capaci di immaginare il futuro e allora ci rivolgiamo al passato, alimentando nostalgie e rimpianti: sono gli anni della 'retrotopia', l'utopia dell'umanità in fuga dal presente. In queste pagine, dopo aver illustrato i rischi nefasti delle retrotopie, Bauman ci esorta con grande saggezza a mantenere vive speranze e utopie (e che queste valgano per tutti, non per pochi eletti).Maurizio Ferraris, "la Repubblica"

Un denso resoconto della fine di ogni fiducia nel progresso e nella sua capacità di migliorare la condizione umana.Stefania Rossini, "L'Espresso"

Ecco la 'retrotopia', altro geniale neologismo coniato da Bauman: la nostalgia di un passato che si sostituisce al futuro come luogo di sogni e speranze.Marco Ventura, "Il Messaggero"

Un ricco testamento intellettuale.Benedetto Vecchi, "il manifesto"

Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Persa ogni fiducia nell'idea di costruire nel futuro una società alternativa e migliore di quella in cui viviamo, molti si rivolgono indietro, alle grandi idee del passato, seppellite ma non ancora morte. Sono gli anni della retrotopia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858140949
Argomento
Economia

1.
Ritorno a Hobbes?

Che questa domanda sia un segno dei tempi lo si capisce dal numero crescente di prognosi (talvolta abbigliate o travestite da diagnosi) estrapolate – come spesso si fa con le previsioni – dai titoli più recenti e frequenti dei quotidiani. Fino a non molto tempo fa si credeva che il Leviatano di Hobbes avesse assolto a dovere la missione attribuitagli: domare la crudeltà innata degli esseri umani, dando così all’uomo la possibilità di vivere in compagnia di altri uomini una vita che altrimenti sarebbe «misera, ostile, animalesca e breve»1. Ma oggi invece si è sempre meno convinti che il Leviatano faccia bene il proprio lavoro, o, per meglio dire, che riesca a farlo fare. L’aggressività endemica dell’uomo, che ogni tanto sfocia nella propensione alla violenza, non sembra affatto diminuita, e tanto meno estinta: è invece ben viva, e sempre pronta a scattare con preavviso minimo, e a volte perfino senza.
Il «processo di civilizzazione» che avrebbe dovuto essere concepito, condotto e controllato dallo Stato moderno somiglia sempre più a quello illustrato, intenzionalmente o meno, da Norbert Elias: a una riforma delle buone maniere, non delle capacità, predisposizioni e pulsioni degli esseri umani. Nel corso di quel processo, gli atti di violenza dell’uomo sono stati celati alla vista, non eliminati dalla natura umana; oppure sono stati «esternalizzati», «appaltati» a professionisti (simili a sarti che confezionano la violenza come abito su misura), o «sussidiarizzati» a esseri umani inferiori, «immondi», schiavi, semi-schiavi in cattività o servi: capri espiatori sulle cui spalle scaricare i peccati infamanti dell’aggressione priva di remore, nel corso di un processo sostanzialmente non diverso da quello avvenuto molti secoli fa in India con il sistema delle caste, che confinò i lavori considerati impuri, degradanti e contaminanti – ad esempio la macellazione, la rimozione delle immondizie e lo smaltimento delle carogne e dei rifiuti prodotti dall’uomo – presso gli «intoccabili», una casta esterna al sistema stesso delle caste: la cosiddetta pañcama, la quinta casta, collocata al di fuori (al di «sotto») delle altre, senza alcuna possibilità di tornare a farne parte, e, cosa più importante, in un vuoto sociale dove sono sospese tutte le norme etiche e comportamentali che vigono, e in linea di massima vengono osservate, nella società vera e propria, la vara «quadripartita» in cui si assumeva fosse inquadrata la gran parte della società indiana. La stessa cosa accade alla più recente reincarnazione degli «intoccabili»: la «sottoclasse», una classe esterna al sistema delle classi, e quindi anche della società divisa in classi. La funzione «civilizzatrice» del «processo di civilizzazione» è consistita nel porre fine al supplizio, alla gogna o all’impiccagione sulla pubblica piazza, oppure nel trasferire gli squartamenti dei corpi degli animali grondanti sangue dalle sale da pranzo, dove venivano consumati, alle cucine, cui i commensali non accedevano mai o quasi; e nella simultanea celebrazione, nel rito annuale della caccia alla volpe, della naturale maestria dell’uomo e della sua innaturale superiorità morale sugli animali. A queste funzioni della civilizzazione Erving Goffman aggiunge l’«inattenzione civile», ossia l’arte di distogliere lo sguardo dagli estranei, sul marciapiede, sui mezzi di trasporto pubblici o in sala d’attesa dal dentista: comportamento che segnala l’intenzione di non farsi coinvolgere in un rapporto, per timore che un’interazione tra individui che non si conoscono porti alla perdita di controllo sugli istinti sgradevoli, e quindi alla scoperta imbarazzante dell’«animale nell’uomo», che va tenuto in gabbia, sotto chiave e al riparo da sguardi indiscreti.
Grazie a questi e ad altri accorgimenti ed espedienti, l’animale hobbesiano nell’uomo è emerso dalla moderna riforma delle buone maniere indomito e integro, nella sua forma primitiva e potente, violenta, rude, rozza/incivile, che il processo di civilizzazione è riuscito sì a camuffare e/o a «esternalizzare» (per esempio trasferendo le manifestazioni di aggressività dai campi di battaglia ai campi di calcio), ma non a correggere, e tanto meno a esorcizzare. Quell’animale resta in agguato, pronto a spazzare via quella patina terribilmente sottile di convenzioni garbate che serve a nascondere ciò che risulta poco attraente, più che a reprimere e limitare cattiveria e violenza.
Riconsiderando l’esperienza terribile e funesta dell’Olocausto (e, in particolare, il fatto che il male fu commesso da molti, mentre pochi diedero prova di «istinto morale» e «bontà umana»), Timothy Snyder ha scritto:
Forse immaginiamo che in una futura catastrofe noi faremmo la parte dei salvatori. Ma se gli Stati venissero distrutti, le istituzioni locali sprofondassero nella corruzione e l’omicidio incentivato economicamente, pochi di noi si comporterebbero bene. Non ci sono molte ragioni per pensare che siamo moralmente superiori rispetto agli europei degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, o che siamo meno vulnerabili al genere di idee tanto efficacemente propagandate e attuate da Hitler2.
Quello che in modo autoconsolatorio pensavamo fosse – se non negli effetti tangibili, almeno nelle intenzioni – uno sforzo d’ingegneria sociale volto a estirpare e bandire una volta per tutte il signor Hyde dalle viscere del dottor Jekyll, assume sempre più le fattezze di un’operazione di chirurgia estetica alla Dorian Gray, volta a scambiare di posto la realtà e la sua rappresentazione. Nella vita reale, interventi di questo tipo devono essere ripetuti con una certa regolarità, poiché i loro effetti normalmente hanno vita breve. Ci rendiamo conto che, anziché puntare allo scontro finale e risolutivo in cui tranquillità/cortesia/distacco sconfiggeranno per sempre la violenza, dobbiamo prepararci a una serie infinitamente lunga di contromisure «proattive». Sembriamo rassegnati alla prospettiva di una guerra di logoramento, costante e mai risolutiva, tra «violenza buona» e «violenza cattiva»: la prima al servizio della legge e dell’ordine (come che siano definiti); la seconda perpetrata allo scopo di minare, distruggere e mettere fuori causa quella legge e quell’ordine – «cattiva» anche in quanto ha la tentazione strisciante di costringere le forze di quella «buona» ad adottare gli stessi strumenti e le stesse strategie della rivale. Dobbiamo riporre nel cassetto l’idea di un mondo senza violenza, una delle utopie forse più belle – ma anche, purtroppo, più irraggiungibili.
Come spiegare questa svolta – che ci ha colti alla sprovvista, ma non per questo è meno radicale e rilevante – nel modo di pensare al fenomeno della violenza? Forse si deve all’esplosione improvvisa di atti di violenza che gli onnipresenti e infaticabili mezzi d’informazione impongono – letteralmente – alla nostra attenzione in base alla ricetta di William Randolph Hearst, secondo cui «le notizie vanno servite bollenti, come il caffè». E quello scoppio di violenza così visibile, quasi palpabile, non si potrebbe ricondurre al fatto che i confini, immaginati un tempo come bastioni insuperabili, sono ormai, sotto l’azione sferzante delle onde sempre più alte create dai processi di globalizzazione in corso, estremamente porosi e osmotici?
Forse questi nuovi atteggiamenti sono riconducibili a un analogo cambiamento nella prassi degli Stati, che abbandonano nei fatti, più che a parole, la loro antica aspirazione al monopolio dei mezzi e dell’esercizio della coercizione? O magari il diritto di tracciare la linea che divide la coercizione legittima (in quanto serve a mantenere l’ordine) da quella illegittima (in quanto perturba o minaccia quell’ordine), che si credeva fosse prerogativa di attori ben selezionati e inequivocabilmente definiti, è andato ad aggiungersi all’elenco, che non smette più di allungarsi, delle idee «essenzialmente contestate» – come le chiama Alfred North Whitehead – e che perciò ormai si ritiene resteranno per sempre contestate? Traendo spunto dal quadro concettuale tracciato da Snyder, possiamo dire che gli Stati contemporanei oggi si collocano in qualche punto intermedio lungo l’asse che collega i due estremi dello Stato idealtipico di Weber, che esercita il monopolio dei mezzi di coercizione, e dello Stato «fallito» (o caduto, o abbattuto) di cui parla Snyder, che in pratica equivale a un «territorio senza Stato».
*
Il diritto di tracciare (e ritracciare a discrezione, se necessario) la linea di demarcazione fra coercizione legittima e illegittima, ammessa e vietata, legale e criminale, tollerata e intollerabile, è la principale posta in palio nella lotta per il potere. La titolarità di questo diritto è l’attributo definitorio del potere, mentre la capacità di esercitarlo e renderlo vincolante per altri è il tratto definitorio dell’autorità. Sin dai tempi del Leviatano, quel diritto è stato affermato e perfezionato nell’ambito della politica, tra le prerogative e i compiti del governo in rappresentanza del corpo politico. In tempi più vicini a noi, questa idea è stata ampiamente argomentata e solennemente ribadita da Max Weber (attraverso una definizione politica dello Stato che si fonda sul monopolio dei mezzi di coercizione – e, presumibilmente, sul loro utilizzo), assumendo così uno status quasi canonico negli studi sociopolitici. Tuttavia, come Leo Strauss osservava lucidamente, agli albori della nostra era liquido-moderna, a proposito dei precetti dell’approccio storicistico alla condizione umana:
Ci sono sempre stati, e sempre ci saranno, mutamenti subitanei e inattesi nella concezione del mondo che modificano radicalmente il senso di tutte le conoscenze acquisite in precedenza. Non v’è concezione onnicomprensiva, e più specificamente non v’è concezione onnicomprensiva della vita umana, la quale possa pretendere di essere definitiva o universalmente valida. Qualsiasi dottrina, per decisiva che possa sembrare, prima o poi verrà soppiantata da un’altra.
Ogni pensiero umano dipende dal destino, da qualcosa che il pensiero non riesce a sottomettere e di cui non riesce ad anticipare le mosse.
Il destino ha voluto che si scoprisse oggi quello che mai prima si era scoperto, cioè che il pensiero è suo servo3.
Vengono subito in mente due precedenti molto autorevoli di intuizioni o avvertimenti che hanno posto le basi del ragionamento poi sviluppato da Strauss: il concetto hegeliano della nottola di Minerva che spicca il volo al crepuscolo, e l’idea di Marx per cui sono gli uomini a fare la storia, ma a condizioni che non sono loro a scegliere. Si tratta di tre avvertimenti/raccomandazioni che nell’insieme giustificano una completa revisione della visione hobbesiana dello Stato come garante della sicurezza dei propri protetti e come loro unica possibilità di difendersi dall’aggressività istintiva e impulsiva insita nell’uomo e quindi di essere efficacemente protetti dall’incontrollabile violenza altrui. E addirittura segnalano, sia pure indirettamente, la possibilità che lo Stato – in precedenza considerato la principale o addirittura la sola garanzia di sicurezza degli uomini, e l’unica assicurazione contro la violenza – in realtà debba essere ricollocato tra i principali fattori/cause/promotori dell’attuale clima di non sicurezza e di vulnerabilità alla violenza.
Uno dei critici più apprezzati, acuti e schietti della cultura e della società attuali, Henry Giroux, in un saggio uscito sulla «Monthly Review», America’s Addiction to Terrorism, arriva alla conclusione che
incorporata nel nostro sistema c’è una specie di violenza sistemica che va distruggendo il pianeta e qualunque senso di bene pubblico e di democrazia – e non si autocontrolla più per via ideologica, ma con l’avvento di uno Stato punitivo. Tutto è sempre più criminalizzato, in quanto rappresenta una minaccia per l’élite finanziaria e per il suo controllo sul paese [...]. Il neoliberismo inietta nelle nostre vite la violenza e nella nostra politica la paura4.
E viceversa: il neoliberismo inietta anche la violenza nella politica e la paura nelle nostre vite. E quando scrivo «nostre» voglio sottolineare che – in un mondo attraversato in lungo e in largo dalle autostrade dell’informazione – è impossibile tenersi alla larga dalle sorti orribili di altri: altri che vivono tra le macerie di Stati falliti, nella diabolica fascia delimitata dai tropici del Cancro e del Capricorno, con il corpo e l’anima impastati di orrore e violenza, maledizioni che ora ricadono sulle nostre teste. La loro presenza tanto visibile, invadente, assillante e infinitamente imbarazzante, cos...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. L’età della nostalgia
  2. 1. Ritorno a Hobbes?
  3. 2. Ritorno alle tribù
  4. 3. Ritorno alla disuguaglianza
  5. 4. Ritorno al grembo materno
  6. Epilogo Guardare avanti, per cambiare