Una «restaurazione del califfato»?
Parigi, 6 luglio
Allegri, dunque: nuntio vobis gaudium magnum. Anche il mondo musulmano, dal 30 giugno scorso, ha il suo principato di Seborga.
La notizia della «restaurazione del califfato» (o meglio, dell’elezione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujāhidīn – vale a dire «impegnati in uno sforzo gradito a Dio» – dell’area di confine tra Siria e Iraq, quelli che di solito i media definiscono i «jihadisti» di un autoproclamato Islamic State of Iraq and Levant (ISIL), pubblicata il 30 giugno scorso, è stata rapidamente diffusa, provocando commenti di ogni genere: nella stragrande maggioranza dei casi, ohimè, del tutto fuori luogo. L’ISIL, a sottolineare il carattere universalistico della sua scelta, ha contestualmente espunto dalla sigla che lo qualifica in lingua inglese le lettere I ed L, che indicano rispettivamente l’Iraq e il non troppo ben definito «Levante»: da oggi in poi è ISIS (Islamic State of Iraq and al-Shamm), oppure soltanto IS, Islamic State. Esso dovrebbe raccogliere, nelle intenzioni dei suoi promotori e sostenitori, tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire quindi l’umma, la comunità dei credenti nel suo complesso.
Il nuovo califfo porta il nome del primo khalifa («successore», «vicario», «rappresentante»: ovviamente del Rasul, il Missus, l’«Inviato» da Dio agli uomini per recare la Parola), il quale fu Abu Bakr, suocero del Profeta Muhammad in quanto padre della di lui prediletta moglie ‘A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al-Baghdadi, appunto leader dell’IS. Lo speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sottolineato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la «democrazia» (una parola che in arabo suona, accento a parte, come nelle lingue occidentali). Questo dato è estremamente importante: sono troppi gli «esperti» che, in buona o malafede giocando sull’equivoco lessicale, proclamano l’incompatibilità tra fede coranica e sistemi democratici (ferme restando l’incertezza, la varietà e se vogliamo l’imperfezione di quei sistemi che appunto tali si autoproclamano e si autoconsiderano) sostenendo di desumerla dalle affermazioni stesse dei musulmani. Quando nel mondo islamico si vogliono indicare i metodi e i valori attraverso i quali viene sostenuta la volontà popolare, si usano espressioni arabe ispirate ai concetti di majmu’at («comunità»), jumhūrīyyat («bene comune», res publica), ‘adalat («equità», «giustizia»), che hanno altresì corrispettivi nelle altre lingue usate dai musulmani non arabofoni, gli idiomi dei quali a loro volta sono in varia misura ricchi di espressioni dall’arabo derivanti. Il termine dimukratīyyat – evidente calco dall’inglese, dal francese, dallo spagnolo, e insomma dalle lingue europee storicamente più familiari al mondo arabo – è molto usato sì, ma in un’accezione e con sfumature ormai sempre più palesemente di segno negativo e polemico, sprezzanti e riferite a caratteri sentiti come corruttori, materialistici, subdoli, esclusivamente individualistici ed estranei pertanto all’etica e alle tradizioni islamiche: insomma, gli pseudovalori proclamati dall’Occidente moderno come alibi per la sua egemonia.
I soliti «esperti» hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo, dopo il fatidico 11 settembre 2001, del jihād (un termine che si usa declinare al femminile, in evidente rapporto con la fallace espressione «guerra santa» con la quale esso viene ordinariamente e con leggerezza tradotto). Si è affermato che il nuovo califfato potrebbe addirittura travolgere quel che resta dell’equilibrio vicinorientale e mediorientale, proponendosi come un’alternativa e addirittura un’effettiva minaccia per la leadership di al-Qaeda. Ciò appare in un certo senso plausibile, poiché al-Baghdadi («quello di Baghdad»: epiteto mistificante, perché il nuovo califfo è originario di un’altra città irakena, Samarra) è senza dubbio un avversario di al-Qaeda, da una costola della quale egli è pur derivato; e tuttavia è alquanto improbabile, se non surreale, dal momento che quella galassia di organizzazioni radicali che convivono sotto la denominazione di al-Qaeda, e che se ne disputano accanitamente una gestione unica e unitaria che in ultima analisi non esiste, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espressioni storico-politico-militari più coerenti e meno aleatorie. Il che non toglie che tra al-Qaeda e IS, entrambi usciti dal medesimo ceppo musulmano e salafita, sia in atto una forma di fitna che si aggiunge a quella combattuta tra sunniti e sciiti e a quella esistente tra i musulmani che noi definiamo «fondamentalisti» o «radicali» e quelli che consideriamo «moderati» (di solito alleati delle potenze occidentali e loro partner economici, finanziari e commerciali).
Dal canto suo il governo ufficiale irakeno, guidato da Nuri al-Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta nell’orbita degli Stati Uniti, che ne hanno determinato la nascita con l’aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein, ma è espressione delle comunità irakene sciite che in quanto tali guardano con simpatia alla Siria di Assad e all’Iran –, è impegnato in una controffensiva tesa a recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con trecento «consiglieri militari» statunitensi; intanto però ha accettato dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS, mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raid contro gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere il governo di al-Maliki di alcuni droni. È ovvio che lo sciita al-Maliki, il quale non può né vuole certo rompere con gli americani, non sia però scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano che disturba d’altro canto turchi e israeliani; il quadro è – almeno sulla carta – chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito dell’IS, nel quale militano molti ex appartenenti al vecchio esercito di Saddam Hussein, tutti musulmani «laici», è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del Golfo, a loro volta alleati «sicuri» e di vecchia data degli Stati Uniti che peraltro non sono alieni da rapporti di fatto con al-Qaeda. Un bel puzzle.
In altri termini, da alcuni anni la vera novità in tutte le questioni che riguardano l’Islam in genere, i gruppi radicali e le cellule terroriste in particolare, è che – soprattutto dopo le cosiddette «primavere arabe» – alcuni emiri del Golfo, tutti ben forniti di petrodollari e tutti sunniti, hanno rinverdito con una violenza che non si vedeva forse dai tempi immediatamente successivi alla morte del Profeta (cioè da circa quattordici secoli) uno dei fenomeni più tipici dell’Islam: la fitna («discordia», «disordine»: guerra fratricida). Tale scelta è stata finora, forse inconsapevolmente, appoggiata da alcune potenze occidentali che pure si dicevano impegnate con decisione a combattere estremismo e terrorismo: ad esempio da Francia e Inghilterra, che con stupefacente leggerezza o con imperdonabile cinismo hanno appoggiato il rovesciamento di Gheddafi e la sollevazione e la guerriglia contro il legittimo governo siriano di Bashar Assad; laddove sia gli Stati Uniti d’America sia lo stesso Israele non hanno, nella fattispecie, dato prova né di lucidità né di decisione mentre la Turchia di Erdoğan e l’Egitto di Morsi ci stavano facendo ritenere che uno sviluppo ‘moderato’ del ‘fondamentalismo’ fosse possibile.
Risultato di questa nuova situazione: i nostri media, che ci avevano per anni abituati ad addossare al fantasma di al-Qaeda ogni responsabilità e qualunque male, d’improvviso l’hanno fatto scomparire dalla loro cronaca quotidiana o ne hanno comunque reso molto più evanescente la presenza, dal 2001 fino a tempi recentissimi invece incombente e ossessiva. Ma noi, che caduti nella trappola ci eravamo adagiati sulla falsa convinzione di un problema del tutto o quasi risolto dopo la morte di Bin Lāden, siamo stati vittime di un brusco risveglio.
Ebbene: in questo ingarbugliato contesto, che valore ha il califfato attribuito ad al-Baghdadi? Per rispondere, siamo obbligati a spiegare brevemente che cosa sia un califfo.
Nel 632, alla morte del Profeta che per un decennio aveva retto gli arabi convertiti all’Islam secondo modalità di capo di un consiglio federale di tribù in termini che ricordano molto quelli del governo di Mosè descritto nell’Esodo, i suoi compagni stabilirono di eleggere un khalīfa, cioè un successore alla guida dell’umma, la comunità musulmana. Il califfo assommava in sé i poteri esecutivi e giudiziari: non quelli legislativi, dal momento che la legge nell’Islam riposa sull’insegnamento coranico. I primi quattro califfi, detti rāshidūn («ben guidati»), furono scelti per elezione dai maggiorenti della comunità: non si poté però, fino da allora (siamo nel trentennio 632-661), impedire l’insorgere della fitna (i quattro caddero tutti uccisi, l’uno dopo l’altro), culminata nella scissione guidata da Ali, cugino e genero del Profeta, che fondò appunto la shī‘a, il «partito», e che nella battaglia di Siffin del 658 si oppose al rivale Mu‘āwiya. Nacque così lo sciismo, la confessione dell’Islam che si oppose a quella ortodossa, detta «sunnita» (da sunna, «regola», condotta», «cammino segnato»). In sintesi, mentre i sunniti (distinti sul piano dottrinale in quattro scuole giuridiche) riconoscevano come fonti canoniche della fede sia il Corano sia la somma dei detti e dei fatti del Profeta tramandati in raccolte detti hadith, gli sciiti accettarono solo il Corano cui andarono aggiungendo più tardi gli insegnamenti dei loro imām («guide» dotate di particolare carisma), da Ali stesso in poi.
Gli sciiti respinsero l’istituzione califfale (nella storia dell’Islam c’è stato per la verità un regno considerato un «grande califfato» sciita, quello dei fatimidi nell’Egitto tra XI e XII secolo, che però si considerarono sempre come imām); da loro si distaccarono però quasi subito i kharigiti, estremamente rigoristi, i quali pur ammettendo il califfato non accettavano la regola sunnita secondo la quale il califfo doveva obbligatoriamente appartenere alla tribù del Profeta, vale a dire ai Bani Quraysh, ma pretendevano che a tale ufficio dovesse ascendere quello che la comunità ritenesse a maggioranza il migliore, senza distinzione di tribù o di razza o di condizione. Sunniti, sciiti e kharigiti costituiscono ancor oggi le tre confessioni fondamentali dell’Islam: ma, su un miliardo e mezzo circa di fedeli, i primi sono la netta maggioranza, mentre i secondi s’identificano principalmente con gli iraniani; arabi sciiti sono però presenti in Siria, Libano, Iraq, nell’area del Golfo Persico, nel Maghreb; esistono, ancora, gruppi sciiti in Asia centrale, nel subcontinente indiano e in Africa, mentre la diaspora sciita ha raggiunto anche l’Europa e l’America.
Nell’Islam sunnita si affermò comunque il principio del califfato ereditario all’interno dei due gruppi che costituivano la tribù quraishita del Profeta, vale a dire gli hashemiti e gli shamshiti: si ebbero tra 661 e 1258 due distinte dinastie califfali, gli umayyadi (661-750) che scelsero come loro capitale Damasco e trasformarono la compagine musulmana in un impero sul modello bizantino, e gli abbasidi che spostarono la capitale a Baghdad e assunsero sistemi di governo e costumi ispirati alla tradizione persiana. Un gruppo di dissidenti che preferì sottrarsi al nascente potere abbaside emigrò ad ovest attraverso l’Africa approdando insieme con alcune tribù berbere nella penisola iberica, dove tra X e XI secolo fu fondato un califfato di tipo neoumayyade di splendida, raffinatissima cultura, con capitale Córdoba. I califfi abbasidi di Baghdad si comportarono tra VIII e XI secolo come sovrani assoluti, secondo il modello dei «Gran Re» persiani, la corte dei quali avevano in qualche modo ricostituito – e in qualche misura mettendo quindi da parte il significato originario della loro funzione, che rimase comunque la sostanza della loro dignità –, con un’auctoritas considerata superiore a quella dei vari principi musulmani di stirpe iranica o uraloaltaica che dominavano il dar al-Islam a est del Tigri fino all’Hindu Kush e presto anche oltre tale linea, fino a giungere al Sud-Est asiatico; mentre ad ovest il loro potere giungeva più o meno sino all’antico limes Arabicus romano, confinando con Bisanzio e quindi con l’imamato fatimide egiziano che contendeva loro la Palestina e il Hijaz. Essi intrattennero anche rapporti diplomatici sostanzialmente amichevoli con i basileis, gli imperatori romani d’Oriente la compagine dei quali gli arabi chiamavano Rum, «Roma» (con lo stesso termine essi indicavano peraltro sia i bizantini come insieme di popolazioni soggette al basileus di Costantinopoli, sia la sua stessa capitale, la «Nuova Roma»).
È noto che Carlomagno, il quale aveva rapporti diplomatici complessi con gli emiri arabo-berberi della penisola iberica – di alleanza con alcuni, di lotta contro altri – e a un certo momento della sua vita d’imperatore aspirò in modo abbastanza concreto perfino alla mano di una potente sovrana bizantina, la basilissa Irene, con grande lungimiranza geopolitica concepì un’alleanza con il califfo abbaside Hārūn al-Rashīd, a noi ben noto anche in quanto protagonista della raccolta di fiabe Alf Laila wa-Laila (Le mille e una notte). Il potente dinasta arabo-persiano rispose con interesse e benevolenza alle profferte che gli giungevano da quel lontano re faranj («franco», termine ancora usato in arabo per indicare gli occidentali in genere, mentre gli euro-orientali e gli ortodossi non arabi sono indicati appunto con il termine rum) e gli inviò un dono prestigioso, l’elefante Abu Abbas («il Padre di Abbas»), così chiamato in quanto quasi totem della sua dinastia, che però non resisté alle asperità del viaggio marittimo e terrestre e morì ad Aquisgrana (i buoni abitanti della capitale carolingia attesero a lungo che le ossa del povero bestione scarnificato si trasformassero, secondo la leggenda, in puro avorio). L’alleanza carolingio-abbaside, con la sua logica a scacchiera che ‘imprigionava’ Bisanzio e rispondeva alla compagine emirale iberica – il califfato cordobano ancora non esisteva –, non sortì pratici effetti, a parte forse un certo riconoscimento dell’autorità di Carlo sui Luoghi Santi di Gerusalemme, che al califfo era appunto soggetta. Sotto il profilo concettuale, comunque, era ben pensata.
Un secolo più tardi, nell’Italia dell’inizio del X secolo, l’idea dell’imperatore franco venne ripresa da una sua lontana discendente, la principessa Berta, figlia di Lotario II, che verso l’890 aveva sposato Adalberto II il Ricco marchese di Toscana ed era madre di un principe destinato a rivestire una certa importanza nella storia del tempo, Ugo di Provenza. A quell’epoca il litorale era battuto spesso dalle incursioni dei corsari saraceni: ma già si stava profilando il sorgere della futura potenza marittima di Pisa. Dalla sua bella capitale toscana, Lucca, la marchesa Berta redasse un enigmatico documento affidato poi a un diplomatico dell’emiro aghlabide di Kairouan, in Tunisia (l’Ifrīqiya degli arabi), formalmente vassallo del califfo di Baghdad: una lettera, diretta appunto al califfo abb...