Il riso
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Il riso

Saggio sul significato del comico

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Il riso

Saggio sul significato del comico

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«Uno stimolo per noi a cercare di comprendere la comicità nella sua psicogenesi si trova nell'affascinante e vitale volume di Bergson, Il riso» (Freud).

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858133552

II.
Del comico delle situazioni –
Del comico delle parole

I.

Abbiamo studiato il comico nelle forme, nelle abitudini, nei movimenti in generale; vediamolo ora nelle azioni e nelle situazioni. Certo, questo genere di comico si riscontra molto facilmente nella vita di tutti i giorni. Ma forse non è in essa che lo si può analizzare meglio: se è vero che il teatro è, a un tempo, una semplificazione ed una esagerazione della vita, la commedia potrà fornirci, sull’argomento, maggiori nozioni che non la vita reale. Può darsi anche che noi dovremo spingere la semplificazione più lontano ancora, rimontare ai nostri più antichi ricordi, cercare nei giochi che divertirono il fanciullo, il primo abbozzo delle combinazioni che fanno ridere l’uomo. Troppo spesso parliamo dei nostri sentimenti piacevoli e penosi come se nascessero già vecchi, come se ciascuno di essi non avesse la sua storia. Troppo spesso, soprattutto, disconosciamo ciò che v’è di infantile, per così dire, nella maggior parte delle nostre emozioni liete. Quanti piaceri presenti non si ridurrebbero, se li esaminassimo da vicino, a ricordi di piaceri passati! Che resterebbe di molte nostre emozioni se le riconducessimo a ciò che hanno di strettamente sentito, se sopprimessimo tutto ciò che è semplicemente ricordo? Chi sa pure se noi non diventiamo, ad una certa età, insensibili a tutto ciò che è gioia recente e nuova, e se le più care soddisfazioni dell’uomo maturo non siano tutta una cosa coi sentimenti della infanzia rivivificati – brezza profumata che ci invia, con soffi sempre più rari, un passato sempre più lontano? D’altronde, qualunque risposta si dia a questa domanda generica, un punto resta fuori dubbio: non si può avere soluzione di continuità fra il piacere del gioco nel ragazzo e lo stesso piacere nell’uomo. Ora la commedia è un gioco, un gioco che imita la vita. Nei giochi del fanciullo avviene che, quando esso fa muovere bambole e fantocci, lo fa con cordicelle; non sono forse queste stesse cordicelle che dobbiamo ritrovare, assottigliate dall’uso, nell’intreccio di una commedia? Cominciamo dunque dai giochi del fanciullo. Seguiamo il progresso insensibile col quale egli ingrandisce i suoi fantocci, li anima, e li porta allo stato finale in cui, senza cessare di essere fantocci, sono tuttavia divenuti uomini. Noi avremo di già i personaggi di commedia. E potremo verificare su loro la legge che tutte le nostre analisi precedenti ci lasciavano prevedere, legge mediante la quale definiremo così le situazioni comiche in generale: è comica qualunque disposizione di atti e d’avvenimenti, inseriti gli uni negli altri, che ci dia l’illusione della vita e la sensazione netta d’un dispositivo meccanico.
1. Il diavolo a molla. Noi tutti abbiamo giocato da fanciulli col diavolo che esce dalla sua scatola. Lo si schiaccia ed ecco si raddrizza; lo si ricaccia più in basso ed esso rimbalza più in alto, lo si schiaccia sotto il coperchio e spesso esso fa saltare tutto. Io non so se questo giocattolo sia molto antico, ma il genere di divertimento che gli si connette è certamente di ogni tempo. È il conflitto di due ostinazioni, di cui l’una puramente meccanica finisce ordinariamente per cedere all’altra, che se ne prende gioco. Il gatto che gioca col topo, che lo lascia fuggire come una molla per riprenderlo con un colpo netto di zampa, si dà un divertimento dello stesso genere.
Passiamo ora al teatro. Cominciamo da quello delle marionette. Quando il commissario s’avventura sulla scena, esso riceve subito, come è giusto, un colpo di bastone che lo tramortisce. Si raddrizza, un secondo colpo lo atterra. Torna ad alzarsi, nuovo castigo. Sotto il ritmo uniforme della molla che si tende e si raccorcia, il commissario cade e si rialza, mentre il riso dell’uditorio va sempre aumentando. Immaginiamo ora una molla di genere morale, un’idea che si esprima e che uno reprima, che si esprima ancora una volta; un fiotto di parole che venga fuori e sia arrestato e riparta alternatamente: noi avremo di nuovo la visione d’una forza che si ostini e d’un’altra che la costringa ostinatamente. Ma questa visione avrà perduto della sua materialità: non avremo più a che fare con le marionette, assisteremo ad una vera commedia.
Molte scene comiche si riattaccano a questo tipo originario. Così nella scena del Matrimonio per forza fra Sganarello e Pancrazio, tutto il comico deriva dal conflitto che si stabilisce fra l’idea di Sganarello che vuole costringere il filosofo ad ascoltarlo, e la ostinazione del filosofo, vera macchina parlante che funziona automaticamente. Di mano in mano che la scena si svolge, l’immagine del diavolo a molla si disegna sempre meglio, tanto che in fine i personaggi stessi ne adottano il movimento, Sganarello respingendo ogni volta Pancrazio tra le quinte, Pancrazio ritornando sempre sulla scena per parlare ancora. E quando Sganarello riesce a far entrare Pancrazio ed a chiuderlo nell’interno della casa (stavo per dire in fondo alla scatola) subito la testa di Pancrazio riappare pel vano d’una finestra che si apre, come se facesse saltare un coperchio.
Lo stesso gioco di scena nel Malato immaginario. La medicina offesa, minaccia, per bocca di Purgon, tutte le malattie ad Argan. Ed ogni volta che Argan si solleva dalla poltrona, come per chiudere la bocca a Purgon, vediamo questi scomparire un momento, come se qualcuno lo ricacciasse fra le quinte, poi, come mosso da una molla, riapparire da capo con una nuova maledizione; una medesima esclamazione, ripetuta sempre: «Signor Purgon!» interrompe ogni momento questa piccola scena.
Serriamo, ora, più da presso l’immagine della molla che si tende, si raccorcia e si ritende; ricaviamone l’essenza: otterremo uno dei procedimenti comuni della commedia classica, la ripetizione.
Donde deriva la comicità della ripetizione d’una frase a teatro? Io vanamente cerco una teoria del comico che risponda in maniera soddisfacente a questa domanda così semplice. E la questione resta in vero insolubile quando si voglia trovare la spiegazione d’una frase di spirito nella stessa frase, isolata da tutto quello che ci suggerisce; mai come in simile caso si fa tangibile l’insufficienza dei metodi usuali.
La verità si è che, se si lasciano da parte alcuni casi specialissimi sui quali ritorneremo più innanzi, la ripetizione di una parola non è mai ridicola di per sé stessa. Essa ci fa ridere in quanto simboleggia un certo gioco particolare d’elementi morali, simbolo esso stesso d’un gioco materiale. È il gioco del gatto che scherza col topo, il gioco del fanciullo che spinge e rispinge il diavolo in fondo alla scatola; ma fatto raffinato, spiritualizzato, trasportato in una sfera di sentimenti e d’idee. Enunciamo la legge che, secondo noi, definisce i principali effetti comici di ripetizioni di frasi a teatro: in una ripetizione comica di frasi vi sono generalmente di fronte due termini: un sentimento compresso che si ritira come una molla e un’idea che si diverte a comprimere di nuovo il sentimento.
Quando Dorina racconta ad Orgone la malattia della moglie e quando questi l’interrompe continuamente per chiedere notizie sulla salute di Tartufo, la domanda che ritorna sempre «E Tartufo?» ci dà la sensazione precisa d’una molla che scatti. Dorina si diverte a respingere codesta molla riprendendo ogni volta il racconto della malattia d’Elmira. E allorché Scapin annuncia al vecchio Geronte che il figlio è prigioniero sulla famosa galera e che bisogna riscattarlo subito, egli scherza con l’avarizia di Geronte proprio come Dorina con la cecità di Orgone. L’avarizia, appena toccata, vien fuori subito automaticamente e Molière ha voluto far notare questo automatismo con la ripetizione macchinale di una frase in cui v’è il dispiacere del dover sborsare i danari: «Ma che diavolo andava a fare su quella galera?». La stessa osservazione vale per la scena in cui Valerio ridice ad Arpagone che egli avrebbe torto a maritare sua figlia con un uomo che non ama; «senza dote!» interrompe sempre quell’avaro d’Arpagone. E noi intravediamo, dietro questa frase che ritorna automaticamente, tutto un meccanismo a ripetizione, montato dall’idea fissa.
Alcune volte, è vero, simile meccanismo è più difficile a trovare. E qui siamo di fronte ad una nuova difficoltà teorica del comico: vi sono casi in cui l’attrattiva d’una scena è un unico personaggio che si sdoppia, il suo interlocutore rappresentando per così dire la parte d’un semplice prisma, attraverso il quale si effettua lo sdoppiamento. Se noi cerchiamo il segreto dell’effetto prodotto in quello che vediamo e sentiamo nella scena esterna che si rappresenta fra i personaggi, e non nella commedia interna che questa scena riflette, rischiamo di seguire una falsa rotta. Per esempio quando Alceste risponde ostinatamente «Io non dico questo!» ad Oronte che gli domanda se trova cattivi i suoi versi, la ripetizione è comica e tuttavia è chiaro che qui Oronte non fa con Alceste il gioco che descrivevamo poco innanzi. Ma si faccia attenzione, giacché in realtà vi sono due uomini in Alceste: da un lato il «misantropo» che ha giurato di dire a ciascuno il fatto suo, e da un altro il gentiluomo che non può dimenticare d’un tratto le forme cortesi e che si ritrae al momento decisivo in cui dovrebbe passare dalla teoria all’azione, ferire un amor proprio, arrecare un dispiacere. La vera scena non è più allora fra Alceste ed Oronte, ma sì bene fra Alceste e Alceste. Di questi due Alceste ve n’è uno che vorrebbe prorompere e l’altro che gli chiude la bocca al momento che sta per dir tutto. Ciascuna esclamazione «Io non dico ciò!» ricorda uno sforzo crescente per ricacciare qualcosa che dà spinte e fa pressione per uscire. Il tono di «Io non dico ciò!» diviene di mano in mano più violento, irritandosi Alceste sempre più non contro Oronte, come egli crede, ma contro sé stesso. Così la tensione della molla va sempre rinnovandosi e rinforzandosi, fino allo scatto finale; il meccanismo della ripetizione è dunque, ancora, sempre lo stesso.
Che un uomo si decida a dire tutto quello che pensa, dovesse egli «avere contro tutto il genere umano», non sarà necessariamente comico, anzi obbedirà alla più alta legge della vita; che un altro, per dolcezza di carattere, per egoismo, per disprezzo preferisca dire alla gente ciò che la lusinga, non ha nulla che possa farci ridere. Riunite però due simili uomini in un solo, fate che il vostro personaggio esiti tra una franchezza che punge ed una cortesia che inganna; questa lotta di due contrari sentimenti non sarà ancora comica, sembrerà molto seria se i due sentimenti arrivino a fondersi nella loro stessa contrarietà, ad andare insieme, a creare uno stato d’animo complesso, infine ad adottare un modus vivendi che ci dia semplicemente l’impressione complessa della vita. Ma supponete in un uomo, e non in un personaggio, questi due sentimenti irriducibili o «rigidi», fate che l’uomo oscilli tra l’uno e l’altro, fate soprattutto che questa oscillazione diventi francamente meccanica, adottando la forma conosciuta di una disposizione comune, semplice, infantile: avrete allora l’immagine che noi fin qui abbiamo trovata in tutti gli oggetti risibili, avrete del meccanico nel vivente, voi otterrete il comico.
Noi ci siamo fermati a lungo su questa prima immagine, cioè su quella del «diavolo a molla», per fare comprendere come la fantasia comica trasformi a poco a poco un meccanismo materiale in un meccanismo morale. Esamineremo uno o due altri giochi; limitandoci, per ora, ad alcune indicazioni sommarie.
2. Il fantoccio con le cordicelle. Sono innumerevoli le scene di commedia in cui un personaggio crede di parlare ed agire liberamente in una parte essenziale della vita, allorché considerato sotto un certo lato, appare invece semplice giocattolo fra le mani d’un altro che se ne prende trastullo. Dal fantoccio che il fanciullo muove con una cordicella, a Geronte e Argante che Scapin fa agire a suo piacere, la distanza è facile a superarsi. Ascoltate piuttosto Scapin: «La macchina è trovata», ed ancora: «È il cielo che li fa cadere nella mia rete», ecc. Per un istinto naturale e perché si preferisce, almeno col pensiero, essere gabbamondo anziché gabbato, lo spettatore si mette dalla parte dei furbi; parteggia per loro e, simile a fanciullo che abbia prestata una bambola dal compagno, fa, a sua volta, andar e venir sulla scena il fantoccio teatrale di cui tiene ormai i fili. Noi possiamo anche rimanere estranei a ciò che succede, purché conserviamo la sensazione molto netta di una realizzata disposizione meccanica. Ciò accade in tutti i casi in cui un personaggio oscilla a prendere posizione fra due opposte parti, giacché ciascuna di queste parti volta a volta lo tira a sé; così per esempio Panurgo quando domanda a Pietro e Paolo se si deve ammogliare. Rileviamo che allora l’autore comico ha sempre cura di personificare le due parti contrarie; in mancanza dello spettatore, occorrono almeno degli attori che tengano le cordicelle.
Tutto ciò che v’ha di serio nella vita deriva dalla nostra libertà. I sentimenti che abbiamo maturati, le passioni che abbiamo alimentate, le azioni che abbiamo deliberate, eseguite, infine ciò che deriva da noi e che è nostro, e ciò che dà alla vita il suo andamento alcune volte drammatico e generalmente grave. Che cosa occorre per trasformare tutto questo in commedia? Basta immaginare che la libertà apparente ricopra un gioco di cordicelle e che noi siamo sulla terra come dice il poeta:
umili marionette
i cui fili sono in mano della necessità.
Non vi son dunque scene reali, serie, drammatiche anche, che la fantasia non possa spingere verso il comico con l’evocazione di tale semplice immagine. Non esiste passo al quale sia aperto un campo più vasto.
3. La palla di neve. Di mano in mano che ci inoltriamo in questo studio dei procedimenti della commedia, comprendiamo sempre meglio quanta importanza vi abbiano le reminescenze dell’infanzia. La reminescenza riguarda, più che questo o quell’altro gioco, il meccanismo di cui il gioco è un’applicazione. D’altronde, la stessa disposizione meccanica può ritrovarsi in giochi differentissimi (come la stessa aria di un’opera in molte fantasie musicali). Ciò che importa, ciò che lo spirito ritiene, ciò che passa per gradazioni insensibili dai giochi del fanciullo a quelli dell’uomo è lo schema o, se volete, la formula astratta di cui questi giochi sono delle applicazioni particolari. Ecco, per esempio, la palla di neve che rotola e che s’ingrandisce rotolando. Noi potremmo pensare a soldati di piombo allineati in fila: se uno spinge il primo questo cade sul secondo il quale fa cadere il terzo, e la situazione va aggravandosi fino a che tutti siano a terra. Ovvero sarà un castello di carte laboriosamente costruito: la prima carta toccata esita a scompigliarsi, la vicina, scossa, si decide più presto ed il lavoro di distruzione, accelerandosi per via, corre vertiginosamente alla catastrofe finale. Tutti questi accidenti sono molto differenti, ma ci suggeriscono la medesima visione astratta, cioè quella d’un effetto che si propaghi aggiungendosi a sé stesso, per modo che la causa, insignificante in origine, termini, per un progresso necessario, in un risultato tanto importante quanto inatteso. Apriamo ora un libro d’immagini per fanciulli: vedremo questo schema incamminarsi già verso la forma d’una scena comica. Ecco, per esempio, un visitatore che entra in una sala precipitosamente, urta una signora che versa la sua tazza di thè su un vecchio signore, il quale sdrucciola contro un vetro che cade nella via sulla testa di un agente il quale, alla sua volta, fa accorrere tutta la polizia, ecc. La stessa disposizione è in molte immagini per persone adulte. Nelle «storie senza parole» che i disegnatori comici creano, molto spesso v’è un oggetto che si sposta e persone che anche esse si spostano: allora di scena in scena il cambiamento di posizione dell’oggetto porta meccanicamente dei cambiamenti sempre più sensibili fra le persone. Passiamo ora alla commedia. Quante scene buffe, quante commedie si riallacciano a questa semplice origine! Si rilegga il racconto di Chincanneau nei Litiganti: sono processi che s’ingranano in processi ed il meccanismo funziona sempre più presto (Racine ci dà questa sensazione di una accelerazione crescente serrando sempre più i termini di procedura gli uni contro gli altri) fino a che la lite fatta per un fastello di fieno costa al litigante la parte maggiore della sua ricchezza. La stessa disposizione è in certe scene del Don Chisciotte; per esempio nella scena dell’osteria, in cui una singolare serie di circostanze spingono il mulattiere a battere Sancho che percuote Maritorne, sulla quale cade l’oste, ecc. Arriviamo infine al vaudeville contemporaneo. Occorre ricordare tutte le forme sotto le quali una stessa combinazione si presenta? Ve ne è una di cui si fa uso molto spesso: la quale consiste nel fare che un oggetto materiale (una lettera, per esempio) sia di capitale importanza per certi personaggi e che bisogni ritrovarlo ad ogni costo. Questo oggetto che sfugge ogni qualvolta si crede di averlo trovato, procede nella commedia accumulando sulla sua strada incidenti sempre più gravi, sempre più inattesi... E tutto ciò somiglia molto più di quel che non si crederebbe a prima vista ad un gioco di fanciulli: è sempre la «palla di neve».
La peculiarità d’una combinazione meccanica è di essere generalmente reversibile. Il fanciullo si diverte a vedere una palla lanciata contro i birilli che si riversano tutti al suo passaggio moltiplicando il danno: egli ride ancora di più allorquando la palla, dopo giri e rigiri, deviazioni di ogni genere, ritorna al suo punto di partenza. In altri termini, il meccanismo che descrivevamo poco innanzi è già comico quando è rettilineo: lo è maggiormente quando diventa circolare e quando tutti gli sforzi del personaggio tendono, per un fatale ingranaggio di cause ed effetti, a ricondurlo puramente e semplicemente al punto d’origine. Vedremo che un buon numero di vaudevilles gravitano attorno a questa idea. Un cappello di paglia è stato mangiato da un cavallo; ora a Parigi esiste quel solo cappello del genere, bisogna trovarlo a qualunque costo. Questo cappello, che sfugge ogni qualvolta lo si sta per afferrare, fa correre il personaggio principale, il quale fa correre tutti gli altri che si attaccano a lui: è ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. Del comico in generale – Il comico delle forme ed il comico dei movimenti – Forza d’espansione del comico
  3. II. Del comico delle situazioni – Del comico delle parole
  4. III. Il carattere comico