1.
Gli anni perduti
1. L’AIDS in Africa
L’AIDS viene per la prima volta riconosciuto come malattia a sé stante il 5 giugno 1981 negli Stati Uniti sulla rivista dei CDC (Centers for Disease Control and Prevention) di Atlanta, massime autorità della sanità pubblica degli USA. Più precisamente, viene descritto nelle manifestazioni cliniche, perché la sua causa al momento è ignota. Ad intuire che si tratta di una patologia nuova, e a pubblicare il relativo articolo, è un immunologo dell’Università della California, Michael Gottlieb, che osserva l’incapacità di alcuni pazienti omosessuali a fronteggiare con le loro difese immunitarie una forma di polmonite solitamente benigna. Il principale focolaio epidemico è nelle comunità gay di San Francisco e Los Angeles ma quasi subito si evidenziano altri ambienti specifici: immigrati haitiani, emofilici, eroinomani. Non c’è ancora un nome ufficiale della malattia, anche se qualcuno la chiama GRID (Gay-Related Immune Deficiency). L’acronimo AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome) è coniato nel luglio 1982, senza che ancora si sappiano spiegare origini e meccanismi della patologia. Il virus che la provoca sarà identificato e poi certificato quale causa della malattia tra 1983 e 1984, generando la nota contesa di primogenitura scientifica tra il francese Luc Montagnier e lo statunitense Robert Gallo. L’appellativo HIV (Human Immunodeficiency Virus) gli sarà attribuito nel 1986 da un comitato internazionale di esperti.
Dal 1981, per quindici anni, l’HIV/AIDS domina la scena medica in Occidente. I numeri non sono enormi. Nel 1984 si valutava esservi 4000 persone affette da AIDS in tutto il mondo, di cui 600 nella sola San Francisco. Tra nuovi contagi e decessi, Nord America ed Europa occidentale passeranno dalle prime migliaia di sieropositivi accertati a un tetto massimo non superiore, negli anni Novanta, al milione e mezzo di unità. Basse o alte che siano le cifre, l’impossibilità di curare la malattia suscita terrore. Lottare per vivere esige speranza: non sono tanto le forme clinicamente devastanti e fisicamente dolorose dell’AIDS conclamato a spaventare quanto l’inesorabilità dell’esito finale, in certo senso anticipato dallo stigma e dalla solitudine che avvolgono il malato. Non è la “solitudine del morente” nella civiltà moderna resa celebre da Norbert Elias. È piuttosto una censura morale e sociale che rende molto difficile sperimentare ciò che, nel linguaggio antico, era definito come ars moriendi. Tra 1981 e 1996 l’AIDS è considerato la peste dei tempi moderni. Chi sa di essere sieropositivo non vede ragionevolmente scampo, anche se la morte per AIDS conclamato giunge dopo parecchi anni – in media, una decina dal momento del contagio. Il lungo periodo d’incubazione del virus si conclude con lo sgretolamento del sistema immunitario e l’irrompere di malattie di vario genere non più respinte dalle difese dell’organismo. L’AIDS non fa sconti a nessuno. Personaggi famosi come Freddie Mercury, Rock Hudson, Arthur Ashe, Rudolf Nureyev soccombono, dimostrando all’opinione pubblica l’implacabilità del virus. A differenza di altre epidemie moderne, come la tubercolosi o il vaiolo, l’AIDS presenta una letalità del 100%. E tutti ne sentono la minaccia, acuita dal fatto che per anni i sieropositivi non presentano sintomi, non hanno lesioni organiche, appaiono in salute, e propagano il virus, se possibile, all’insaputa di se stessi e delle loro vittime. Sgomenta la maniera invisibile del diffondersi dell’HIV attraverso portatori apparentemente sani. Il decorso dell’HIV/AIDS è molto diverso da quello di malattie epidemiche come il vaiolo in passato oppure Ebola ai nostri giorni, al cui contagio segue immediatamente il manifestarsi della patologia, se non una rapida morte.
Sulle prime inteso come un flagello di ambienti circoscritti – omosessuali, tossicodipendenti, emofilici – l’AIDS diventa un incubo generale non appena crescono le percentuali di contagiati attraverso i rapporti eterosessuali. Il contrasto dispiegato dai sistemi sanitari occidentali è molteplice: educazione sanitaria sulla malattia e sulle forme di trasmissione; screening delle categorie a rischio; pratiche di prevenzione centrate su profilattici; distribuzioni gratuite di siringhe; controlli sulle trasfusioni di sangue. In particolare viene molto ben finanziata la sperimentazione scientifica. Pur non individuando mai un vaccino, le ricerche dedicate all’AIDS giungeranno a produrre dei farmaci, detti antiretrovirali, che dal 1996 consentiranno sopravvivenza e buona qualità di vita ai sieropositivi pur senza guarirli. Il nome di antiretrovirali è dovuto al fatto che il virus conosciuto come HIV appartiene al gruppo dei cosiddetti retrovirus. Gli antiretrovirali contrastano la replicazione dell’HIV nelle cellule umane, ovvero in quei linfociti essenziali per il sistema immunitario di cui altrimenti l’HIV s’impadronisce. Sono validi solo in combinazione multipla, se assunti singolarmente hanno un’efficacia di brevissima durata, dal momento che il virus, dotato di estrema capacità di mutazione, non tarda a produrre varianti resistenti. Nello specifico la cura consiste in un cocktail di tre farmaci antiretrovirali, la cosiddetta tri-terapia, detta anche HAART (Highly Active Antiretroviral Therapy). I componenti del cocktail possono variare in base alla tollerabilità da parte dei pazienti e allo sviluppo di resistenze. Grazie agli antiretrovirali l’AIDS non è più una sentenza di morte.
Dopo il 1996 il grande allarme delle sanità pubbliche occidentali rientra, seppure l’AIDS rimane una preoccupazione prioritaria. Da malattia acuta mortale si trasforma in malattia cronica compatibile con una vita normale, ferma restando una scrupolosa aderenza al regime terapeutico prescritto. L’assunzione di farmaci antiretrovirali riduce rapidamente la carica virale nei liquidi corporei sicché scompare quasi del tutto la contagiosità. Ossia la cura rappresenta anche un’efficace prevenzione dell’espandersi dell’epidemia: questa tende a contrarsi nella misura in cui aumenta l’accesso terapeutico. Ogni anno si celebra, il 1° dicembre, la Giornata mondiale contro l’AIDS per tener desta la sensibilità sociale sulla malattia e impedire che il suo sussistere venga dimenticato, specie dai giovani che non hanno conosciuto la fase emergenziale della pandemia, quella ante 1996, con la conseguenza di comportamenti sessuali imprudenti. Per un giorno all’anno in cui l’AIDS viene doverosamente rammemorato, altri 364 trascorrono con ormai poche parole al riguardo. Segno di leggerezza e distrazione ma anche di una battaglia considerata sostanzialmente vinta.
Il lettore attento lo avrà già capito: quanto detto finora corrisponde alla storia dell’AIDS nella mente dell’uomo occidentale. Lo stesso 1996 è anno di svolta solo nella narrazione occidentale dell’AIDS. Che è parziale. Le prime opere storiche sull’AIDS, a fine anni Ottanta, si occupano scarsamente del mondo extra-occidentale. Non si percepisce come l’AIDS possa essere, per i paesi a risorse limitate, una minaccia maggiore che nei paesi ricchi. È anche un problema di raccolta dati. In Africa, con l’eccezione primigenia dell’Uganda, siti sentinella sulla malattia sono pressoché inesistenti. Né sono disponibili i test per l’accertamento della sieropositività. Si muore di AIDS senza saperlo, non essendo diagnosticato. La gente pensa di morire per diarrea, tubercolosi, polmonite, tumore o altre patologie senza immaginare trattarsi di malattie opportunistiche causate dall’AIDS. Tanto che il WHO (World Health Organization) presenta nel 1989 la stima, piuttosto inverosimile, di soli 23.000 casi di AIDS in tutta l’Africa. In quest’epoca una decina di paesi africani è già attestata su una prevalenza intorno al 10% degli abitanti, se non superiore come in Uganda, Zambia, Zimbabwe.
L’Occidente ha avuto la capacità scientifica di individuare l’AIDS e poi di forgiare le armi farmacologiche per bloccare l’epidemia e salvare i contagiati. Ma per origine e sviluppo, prevalenza e incidenza, morbosità e mortalità, l’AIDS è in larga misura una vicenda africana e di paesi a risorse limitate, il Terzo Mondo di una volta. Beninteso, l’AIDS non è una “colpa” africana o terzomondiale. È però un fatto che in quel 1996 indicato come spartiacque sul piano terapeutico c’erano nel mondo 22,6 milioni di persone infettate dal virus HIV il 64% delle quali, ovvero i due terzi, vivevano in Africa subsahariana mentre l’Occidente ne contava meno del 5%. Ed è pure un fatto che nello stesso anno, degli 8,4 milioni di casi di AIDS conclamato nel mondo, il 74% ossia i tre quarti erano in Africa subsahariana. Quella dell’AIDS è dunque, in maniera preponderante, una storia africana. Gli occidentali, finché nel 1996 non sono in qualche modo riusciti a mettere sotto controllo l’epidemia nei loro paesi, hanno teso a ignorarne l’epicentro mondiale. Flessi sulle loro traversie, hanno assecondato il loro etnocentrismo. Al contrario, nella vicenda dell’AIDS, le periferie sono state molto più coinvolte del presunto centro costituito dall’Occidente. E del resto una marcata differenza tra l’AIDS...