La danza classica
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La danza classica

Le origini

  1. 224 pagine
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La danza classica raggiunge il massimo fulgore con il balletto ottocentesco, in cui tocca i più alti livelli di originalità contenutistica, di complessità compositiva e di perfezione formale. Questi risultati sono il frutto di una lenta maturazione avvenuta nel corso del Settecento, quando la danza acquista piena dignità artistica. Dalla fondazione dell'Académie Royale de Danse, alla corte del Re Sole, alla creazione del balletto a struttura narrativa fino alle innovazioni d'età napoleonica, Flavia Pappacena traccia la storia di una forma d'arte capace di imporsi sui palcoscenici di tutto il mondo, indagandone le problematiche e le tensioni intellettuali e creative alla luce di un suggestivo confronto con i mutamenti del gusto, con gli orientamenti della cultura visiva e teatrale e con le nuove prospettive estetiche.

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Capitolo quarto. La riforma di Jean-Georges Noverre

Jean-Georges Noverre è storicamente riconosciuto come il riformatore del teatro di danza e l’autore del primo balletto a struttura narrativa. Come si è visto, altri coreografi – segnatamente Franz Anton Hilverding e Gaspero Angiolini – fecero esperienze analoghe, ma è tuttavia incontestabile l’originalità del percorso di ricerca dell’artista francese che non partì, come quelli, dal mondo classico, bensì da ciò che gli si opponeva: il pittoresco, l’asimmetria, il «bel disordine» della cultura visiva moderna, le posizioni più avanzate nell’ambito del teatro drammatico e musicale francese, e le trasgressive sperimentazioni dei teatri parigini delle Foires. La peculiarità stessa della forma da lui creata, con cui riuscì a dare funzione drammatica alla danse d’école ampliandone gli orizzonti espressivi, non è confondibile con alcun precedente, come non ha eguali la portata della sua copiosissima produzione che, attraverso i suoi discepoli, diffuse il balletto d’azione francese in tutta Europa e lo traghettò nel secolo XIX. Le innovazioni d’età napoleonica e l’estetica romantica finirono con l’archiviare la produzione noverriana conservando la memoria solo dei soggetti tragici, ma i tratti più profondi e autentici del suo stile – il gusto per il pittoresco e la libertà fantastica, il gesto carico di un’autentica emozione, la raffinata eleganza, la sensibilità cromatica e la preminenza tecnica assegnata alle interpreti femminili – furono il vero lascito ai suoi allievi, soprattutto al suo discepolo prediletto Dauberval, che riuscì a portare avanti in modo originale la lezione del maestro arrivando a compenetrare le due forme espressive – la mimica e la danza – in un linguaggio nuovo, coerente e omogeneo, e in un nuovo equilibrio tra edonismo ed emozione.
L’attività di Noverre si dispiega nell’arco di oltre cinquant’anni e conta, tra balletti e divertissements del teatro d’opera, circa centocinquanta creazioni rappresentate presso le più importanti corti europee. Nei soggiorni londinesi e in quelli a Stoccarda, a Vienna, Milano e Parigi, ebbe fecondi rapporti con le personalità di maggior rilievo della cultura letteraria, teatrale e visiva europea – Préville, David Garrick, Voltaire, Charles-Simon Favart, Niccolò Jommelli, Christoph Willibald Gluck, Mozart, Joshua Reynolds –, e considerazione e protezione dei regnanti che lo ebbero per molti anni come maître de ballets: il duca Karl Eugen von Württemberg, l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e la figlia Maria Antonietta che, divenuta regina dei francesi, lo volle a Parigi all’Opéra.
Il grande merito di Noverre fu non solo quello di portare ad una forma compiuta un modello francese di balletto a struttura narrativa ma anche, grazie alla sua stimata produzione teorica, di restituire alla danza quella dignità di arte e quel peso culturale che le erano riconosciuti nell’antichità classica e che recentemente filosofi quali Charles Batteux avevano riportato all’attenzione dell’ambiente culturale settecentesco nel corso dei dibattiti sul paragone tra le arti imitative.

Gli esordi e le sperimentazioni coreografiche degli anni cinquanta

La sua avventura nel mondo della danza inizia con l’aiuto del padre che, per quanto lo avesse inizialmente destinato alla carriera militare, asseconda la sua vocazione artistica mandandolo a studiare con due artisti di pura formazione accademica, Jean-Denis Dupré e Louis Dupré, che lo avviano ad una professionalizzazione altamente qualificata1. Il debutto ufficiale avviene all’età di sedici anni, il 31 agosto 1743, all’Opéra-Comique, nell’impresa di Jean Monnet, in L’Ambigu de la folie, ou le Ballet des Dindons, una divertente parodia (o travestissement come lo chiamò Desboulmiers) del commediografo Charles-Simon Favart del famoso opéra-ballet di Jean-Philippe Rameau Les Indes galantes che qualche mese prima era stato riprodotto all’Opéra. Il balletto dell’Acte des Fleurs che chiudeva lo spettacolo, riproponeva la seconda versione dell’Opéra del 17362, ma invece di due uomini (Zefiro e Borea) con una donna (La Rosa), il pas de trois portava in scena due giovanissime esordienti – la Puvignée di otto anni, nel ruolo della Rosa, e Louise-Madeleine Lany, di dieci anni, nel ruolo di Zefiro –, alle quali faceva da cavaliere Noverre nella parte di Borea. Maîtres de ballets erano i «grandi» dell’Opéra: Louis Dupré, Jean-Barthélemy Lany e Marie Sallé. Questa esibizione gli guadagnò l’entratura alla corte di Fontainebleau dove poté godere di un’esperienza didattica e artistica esemplare e profondamente formativa, interpretando insieme alla piccola Puvignée il Minuetto Les Jeunes Mariés appositamente composto e diretto dal celebre François Marcel.
I successivi ingaggi accrescono la sua preparazione e gli offrono occasioni molto stimolanti che lo introdurranno in ambienti altolocati e a frequentazioni che lasceranno un segno sulla sua maturazione artistica e culturale, come l’incontro con Voltaire a Berlino, nel 1745, dove Noverre si trova a danzare nella compagnia di Lany3. Gli impegni successivi4 aumentano via via la sua competenza professionale per cui all’attività di primo ballerino affianca quella di coreografo allora definito maître de ballets. A Lione, dove è invitato dal famoso attore comico Préville per ricoprire entrambi gli incarichi5, compone Les Fêtes chinoises che ripropone a Parigi nel 1754, all’Opéra-Comique, quando viene ingaggiato nuovamente dall’impresario Jean Monnet nella sua seconda, e questa volta più fortunata, gestione dei teatri delle fiere di Saint-Germain e Saint-Laurent. L’esito della ripresa del balletto cinese è significativamente illustrato da Desboulmiers, nel secondo volume di Histoire du théâtre de l’Opéra comique6 in cui offre una descrizione dettagliata condita di accenti entusiastici e commenti sul sontuoso allestimento7. Métamorphoses chinoises, come Noverre chiamò il balletto nelle Lettres del 1760, ebbe un effetto dirompente sul pubblico parigino. Nel Journal historique ou Mémoires littéraires, si legge che il drammaturgo e chansonnier Charles Collé, avverso ai balletti per principio ma soprattutto per l’abuso che se ne stava facendo ovunque, rimase stupefatto per la novità offerta da quel «giovane di 27 o 28 anni», che aveva richiamato alla fiera di Saint-Laurent una moltitudine di gente senza precedenti.
Differentemente dalle prassi codificate, il balletto non era composto da una serie di entrées susseguentesi senza una linea drammatica unitaria e costruite su disegni simmetrici e con passi di danza convenzionali, ma si svolgeva in un atto, tratteggiando con pennellate rapide scene ispirate alla quotidianità di una Cina immaginaria che alla fine, per effetto di una prodigiosa metamorfosi in vasi cinesi dei trentadue personaggi, si tramuta in uno di quei cabinets de porcelaine (salottini di porcellana) di cui la moda delle cineserie aveva impreziosito molte residenze nobiliari. Il balletto era composto di quattro parti incentrate su un susseguirsi incalzante di situazioni di forte impatto visivo, come il movimento ascendente e discendente di trentadue cinesi – mandarini e schiavi – sugli scalini di un anfiteatro paragonato al «movimento dei flutti di un mare agitato», oppure il passeggio a tempo di musica – definito «marche caractérisée» – di personaggi diversi in situazioni apparentemente casuali. In tutti Noverre sperimenta un uso dinamico e tridimensionale dello spazio e applica innovativamente «crescendo» e «contrasti», che saranno tra i principali strumenti del suo stile compositivo. Le ricercate asimmetrie, i rapidi cambi di scena e le metamorfosi inaspettate destinate, come ricorderà in seguito, «al piacere e al divertimento degli occhi», servivano a creare un’impressione di estemporaneità e ad introdurre la tecnica compositiva dell’asimmetria temporale.
È qui evidente l’influenza della cultura visiva moderna e del «bel disordine»8 della pittura rococò, che egli cita ad apertura e chiusura delle Lettres sur la danse et sur le ballets, come si avverte anche l’eco degli spettacolari artifici scenici presentati nella Salle des Machines delle Tuileries da Giovanni Niccolò Servandoni9. Non v’è dubbio, dunque, che gli interessi di questa prima fase sperimentale di Noverre non possano essere ricondotti alla tensione intellettuale di coloro che affermavano la necessità di restituire al gesto la sua originaria funzione comunicativa ed espressiva, o di quelli – come John Weaver e più tardi Franz Anton Hilverding – che, rievocando il mondo antico, propugnavano il ritorno della pantomima greca e romana. Né può essere avanzata l’ipotesi di un legame tra queste prime aspirazioni artistiche di Noverre e la tensione creativa di Marie Sallé che aveva deliberatamente sfumato i confini tra rappresentazione attorica e coreografica. Non bisogna dimenticare che Noverre portava con sé un proprio vissuto di educazione familiare e cultura europea e che era stato profondamente segnato dalla frequentazione, nel 1743, dell’Opéra-Comique, un ambiente fino a poco tempo prima ai margini della cultura ufficiale e che, proprio per il suo statuto di teatro di rango inferiore, consentiva atteggiamenti spregiudicati, al di fuori delle convenzioni e in continuo mutamento. All’Opéra-Comique Noverre aveva assistito alle innovazioni strutturali del nuovo teatro della fiera di Saint-Laurent10 che avevano aumentato la distanza tra spazio scenico e pubblico ma, soprattutto, era stato testimone della coesione tra le diverse professionalità sperimentata da Monnet e Favart, come era rimasto affascinato dal tocco stravagante e intenso dell’inimitabile – come lo definirà egli stesso – François Boucher, responsabile della decorazione del nuovo teatro e poi ideatore delle sontuose scene del suo balletto cinese11. Non c’è da sorprendersi, quindi, se l’intraprendente artista abbia voluto ispirarsi alla splendida Tenture chinoise (Paramento cinese) del geniale pittore rococò per iniziare la sua avventura di ricerca e irrompere sulle scene parigine in modo così audace e trasgressivo.
La notizia del successo del balletto cinese non solo invase Parigi, ma varcò anche la Manica solleticando la curiosità del famoso attore David Garrick, allora impresario del teatro Drury Lane di Londra. Dopo quasi un anno di trattative avviate da contatti tra Jean Monnet e l’attore inglese, il balletto riuscì ad essere messo in scena a Londra l’8 novembre 1755. Ma di fatto la presenza di Noverre non sortì, in questo primo soggiorno, il risultato atteso a causa del sentimento antifrancese che serpeggiava ovunque e che la sera della prima del costoso balletto il pubblico manifestò con tale violenza che «la sala fu quasi demolita, i vetri infranti, i sedili lacerati e gettati sul palcoscenico e il teatro fu messo fuori uso per una quindicina di giorni»12. I divertissements realizzati appositamente per il teatro inglese – La Provençale e The Lilliputian Sailors – non sembrano aver accresciuto la fama internazionale di Noverre o lasciato un’impronta sulla coreografia oltre Manica. Dalla frequentazione degli spettacoli pantomimici inglesi con le loro dissacranti situazioni e i loro stravaganti artifici scenici e, soprattutto, dall’illuminante incontro con David Garrick, Noverre ricevette invece stimoli e idee per accostarsi con una nuova sensibilità ai fermenti e alle mutazioni che si stavano manifestando nel mondo teatrale e, quindi, per intraprendere un nuovo percorso creativo.
Nelle coreografie prodotte al suo ritorno in Francia tra il 1757 e il 1759 Noverre è impegnato a sviluppare e approfondire le esperienze pantomimiche e di articolazione drammatica già timidamente tentate all’Opéra-Comique con La Fontaine de Jouvence (1754) e Les Réjouissances flamandes (1755), anche se queste ultime, come il balletto cinese, erano state piuttosto un tributo alle mode imposte dal gusto dominante. La produzione di questo periodo, totalmente dedicata all’Opéra di Lione, è intensa e variegata e, per quanto ancora influenzata dal gusto rococò, reca i segni della lezione di David Garrick e delle prospettive estetiche di Denis Diderot, per cui è definitivamente impegnata nella sperimentazione del «ballet en action» recentemente propugnato da Louis de Cahusac13. I temi trattati sono i più disparati e vanno da soggetti eroici e anacreontici appartenenti alla cultura condivisa14 a quelli in cui aleggiano suggestioni del suo soggiorno inglese15 ai soggetti avventurosi ispirati ad un immaginario e pittoresco mondo esotico16.
I Capricci di Galatea e La Toeletta di Venere – entrambi del 1758 – furono i primi esperimenti di adattamento al genere sérieux della pantomima graziosa fino ad allora utilizzata dai comici dell’Opéra-Comique e alla Comédie-Italienne, e furono i balletti in cui per la prima volta Noverre eliminò le parrucche e le maschere per restituire al corpo le sue proporzioni e al volto la sua funzione espressiva. Nel secondo balletto, inoltre, seguendo la riforma del costume recentemente tentata dalla famosa attrice Mlle Clairon, ridusse drasticamente l’ampiezza delle gonne delle Ninfe e delle Grazie, eliminando il panier, e tolse, come già gli attori Chassé e Lekain, i convenzionali tonnelets ai Fauni, sostituendoli con un abbigliamento consono al personaggio, ancorché compatibile con il gusto del tempo e le esigenze di spettacolarità del balletto.
Riguardo alla struttura, se si paragona La Toeletta di Venere con il balletto di tre anni prima, Le Feste fiamminghe, si nota che, sebbene entrambi ispirati a quadri famosi, essi divergono nella concezione. Nelle Feste fiamminghe Noverre riproduce meticolosamente l’ambientazione e i personaggi dell’omonimo quadro del rinomato pittore fiammingo David Teniers17, animandone la scena con azioni elementari intonate all’occasione e al contesto sociale, e improntando la mimica ad una gestualità ispirata alla quotidianità. In La Toeletta di Venere il quadro (probabilmente una delle versioni, del 1746 o 1751, dell’omonimo dipinto di Boucher) è solo un pretesto per condurre lo spettatore, con un sorprendente coup de théâtre, ad un piccolo balletto (terza scena) ambientato in una foresta «grande e oscura», in cui ha luogo un corteggiamento accanito e morboso di dodici furiosi Fauni alle leggiadre e impaurite Ninfe di Venere. Questo darà luogo ad un’incalzante alternanza di contrasti drammatici, ma poi si scioglierà in un lieto fine coronato da una gioiosa Contredanse. Proprio perché fondata su una vera e propria trama, La Toeletta di Venere offre a Noverre la possibilità di sviluppare lo studio delle situazioni drammatiche e delle espressioni facciali e corporee iniziato con I Capricci di Galatea, e di iniziare ad organizzare un vero e proprio vocabolario di base gestuale e cinetico. Nella Toeletta di Venere i movimenti e gli atteggiamenti che rivelano tutti i «sentimenti dai quali l’anima può essere agita...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Capitolo primo. La danza accademica alla corte del Re Sole
  3. Capitolo secondo. La danza accademica sotto Luigi XV
  4. Capitolo terzo. Verso la danza espressiva. Il balletto come spettacolo autonomo
  5. Capitolo quarto. La riforma di Jean-Georges Noverre
  6. Capitolo quinto. Il tramonto dell’«Ancien régime» e la nuova linea estetica
  7. Capitolo sesto. L’inizio della nuova era tra tradizione e innovazione
  8. Bibliografia