Il corrotto
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Il corrotto

Un'inchiesta di Marco Tullio Cicerone

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Il corrotto

Un'inchiesta di Marco Tullio Cicerone

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Da più di duemila anni leVerrine, cioè le orazioni con cui Cicerone riuscì a inchiodare Gaio Verre alle sue malversazioni in Sicilia, sono state presentate come un modello in tutte le storie della letteratura latina. Da quel 70 a.C. mai si è avuta una denuncia per casi di corruzione in cui l'accusatore non abbia provato a riprodurne argomenti e stile incalzante. L'imputato fu descritto come un maiale incapace di porre limiti alla propria voracità. Ma adesso Luca Fezzi in questo straordinario libro cambia registro e in merito a quella vicenda esprime espliciti dubbi. Paolo Mieli, "Corriere della Sera"

Concussione, peculato, appropriazione indebita, furto, vendita di sentenze, manipolazione di appalti, corruzione elettorale, sequestro di persona, frode, intimidazione, tortura, omicidio: l'accusatore Marco Tullio Cicerone lancia una fulminante requisitoria, seguita da una tempesta di testimonianze e prove contro l'imputato, Gaio Verre, ex governatore della Sicilia. Di fronte, una giuria sempre più attonita. Attorno, un pubblico sempre più infiammato. Cicerone attacca Verre. Quale lavoro d'inchiesta aveva reso possibile un'accusa così spettacolare da intrattenere il popolo romano per giorni? Seguiamo passo dopo passo Cicerone, tenace ma non certo candido raccoglitore di prove e orchestratore di testimonianze.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858134405
Argomento
Historia

IV.
Il quadro dell’accusa

... questa imputazione relativa all’associazione per le decime
non è nata a Roma, non è stata inventata dall’accusatore, non è
(come talvolta siamo soliti dire nei discorsi di difesa)
un’accusa fabbricata tra le pareti di casa,
non ha preso forma, Verre, dopo la tua incriminazione, ma è vecchia,
già avanzata e spesso lanciata contro di te durante il tuo governo,
un’accusa che non è stata escogitata a Roma dai tuoi avversari,
ma portata a Roma dalla provincia.
Verrine, II, 3,141

16. L’organizzazione delle prove sul governo della Sicilia e la ‘vertigine della lista’

Si è già osservato come nell’organizzazione del materiale, soprattutto quello raccolto in Sicilia, Cicerone abbia dovuto affrontare e superare una serie di difficoltà.
Se il libro I dell’actio II è ordinato cronologicamente, abbiamo ricordato, i libri II-V lo sono solo tematicamente. Possiamo tentare, seguendo il loro svolgimento, di farci un’idea del quadro che, nel lungo periodo tra l’inizio dell’inchiesta e la pubblicazione delle Verrine, Cicerone elaborò, prima per la giuria e poi – con variazioni a noi inconoscibili – per i lettori, contemporanei e posteri. La ‘vertigine della lista’, che coinvolge tutta l’actio II, è particolarmente forte nei libri III-IV. Abbiamo cercato di ridurla, anche riportando alcuni particolari solo nella ricostruzione in Appendice80. Bisogna però ricordare che tale effetto era fortemente cercato dall’accusatore.
Il ‘martellamento’ di questo capitolo – da noi attenuato il più possibile – può solo lontanamente ricordare quello che la giuria dovette allora subire. Cercheremo piuttosto di prestare attenzione – come sempre – alla data e alle modalità di acquisizione del materiale probatorio.

17. Una giustizia disastrosa e la vendita degli incarichi pubblici

Il libro II dell’actio II si apre con la descrizione dell’opera giudiziaria del governatore. A tale proposito, materiale giunse a Cicerone a più riprese; nostra impressione è che anche prima del viaggio in Sicilia il quadro fosse già abbastanza chiaro. Del resto, che Verre avesse una concezione opinabile della giustizia era emerso dalle rimostranze di coloro che, come Eraclio ed Epicrate, nel corso del triennio precedente si erano rifugiati a Roma o là avevano cercato aiuto. Vi erano poi le delegazioni ufficiali e i privati. Ciò non toglie comunque che il viaggio possa avere permesso all’accusatore di completare l’opera e, naturalmente, di sollecitare e organizzare testimoni.
Dopo una serie di riflessioni di vario tipo sull’importanza dell’isola, sugli ostacoli incontrati durante l’inchiesta, sulla scarsa credibilità dell’ambasciata messinese, sull’ancora più scarsa attendibilità dell’elogio siracusano, sull’alto numero di testimoni romani escussi nell’actio I e sulla premeditazione dei furti del governatore, viene riportata una serie di casi. In apertura, quello di Dione di Alesa, già noto a Roma, almeno in alcune cerchie81. A confermarlo, le «testimonianze di molti personaggi di primo piano e i registri di parecchie persone» (II, 2,20). Tra essi, addirittura, anche Marco Terenzio Varrone Lucullo, console del 73, al tempo dei fatti in Macedonia ma «venuto a conoscenza della disgrazia di Dione, per il rapporto di ospitalità che lo legava a lui» (II, 2,23). Non sappiamo quindi se la sosta dell’accusatore ad Alesa abbia apportato, su tale imputazione, nuovi elementi.
Segue quello, simile, di due fratelli di Agira (altra località dove Cicerone pare essersi fermato). Chiamati a giudizio per un’eredità ricevuta vent’anni prima, per poterla mantenere dovettero pagare una grossa somma. L’accusa avrebbe sostenuto il tutto con «deposizioni di molti testimoni» (II, 2,25). Questa potrebbe essere stata una ‘scoperta’ siciliana.
Seguono i casi di Eraclio ed Epicrate, rimasti a Roma per due anni abbigliati a lutto e che Cicerone frequentò anche durante il soggiorno siracusano82. La vicenda della spartizione dell’eredità di Eraclio, in particolare, aveva fatto scalpore. Si legge che essa divenne subito «nota a tutto il distretto di Siracusa» (II, 2,48). Non solo: come già ricordato, allontanò dall’isola il genero di Verre e forse altri collaboratori. Alcuni di essi, a nostro avviso, potrebbero avere fornito dettagli, anche se cuore dell’accusa è che Metello annullò le decisioni del predecessore. Né a Eraclio né a Epicrate tuttavia il nuovo governatore, pur avendoli riportati nell’isola, permise – almeno secondo l’accusa – di tornare a Roma per testimoniare.
Segue il caso del giovane Eraclio di Centuripe (altro luogo toccato da Cicerone). Il propretore gli estorse, per ragioni non esplicitate, una grossa somma, perseguitando anche uno sfortunato giudice che in precedenza aveva deciso diversamente. Potrebbe essere stata, questa, una ‘scoperta’ siciliana; testimone del tutto, lo stesso Eraclio.
Si passa poi ai processi capitali. In apertura, quello di Sopatro di Alicie, cui fu rinnovata, all’insediamento di Verre, un’accusa che un anno prima era andata a vuoto. Per far confermare quella precedente sentenza, il liberto Timarchide riuscì a estorcergli denaro ma, a un’ulteriore richiesta, l’interessato rifiutò di pagare. Il governatore allora sostituì il giudice, un cavaliere romano. Per protesta il difensore, altro cavaliere romano, abbandonò l’aula. Ciononostante, l’imputato fu costretto a difendersi da solo e condannato dopo l’audizione di due soli testimoni. Secondo il mancato difensore, «Timarchide disse che gli accusatori pagavano di più; e lo affermeranno molti siciliani, lo affermeranno tutti gli abitanti di Alicie, lo affermerà anche il figlio di Sopatro» (II, 2,80). Anche questa potrebbe essere stata una ‘scoperta’ siciliana, non necessariamente avvenuta ad Alicie (che non sappiamo se l’accusatore abbia toccato). I fatti processuali si erano infatti svolti nella lontana Siracusa, «al cospetto e sotto gli occhi della provincia» (II, 2,81).
Segue il caso di Stenio di Terme (località che non sappiamo se Cicerone abbia toccato), rifugiatosi da tempo a Roma, vicenda così nota che si fatica a credere che dal viaggio in Sicilia fosse emerso altro83. In tale occasione, invece, potrebbe essere stata recuperata la tavola bronzea che ne riportava le benemerenze, fatta staccare da Verre. Potrebbero essersi invece aggiunti altri testimoni. Tra costoro, Sesto Pompeo Cloro e Gneo Pompeo Teodoro – evidentemente siciliani divenuti romani grazie a Pompeo – e Poside Macrone di Solunto. Essi affermarono di avere udito Verre dichiarare dal seggio che era lecito e consueto ricevere denunzie contro assenti. La cosa, aggiunge Cicerone, fu anche udita da senatori romani e da altri, presenti quando fu accolta la denunzia nei confronti di Stenio assente. Si trattava di conferme a qualcosa di noto: lo avevano già dichiarato a Roma amici e padre di Verre, sostenendone l’operato, così come i siciliani che si erano rivolti ai consoli per vietare la pratica. La loro richiesta, come avrebbe testimoniato Gneo Cornelio Lentulo Marcellino, loro patrono, era stata innescata proprio dalla vicenda di Stenio; a provare il tutto, infine, i registri falsificati del governatore, condotti in tribunale84.
Il viaggio aggiunse forse al tutto una nota di colore. Cicerone sostiene di avere visto l’offerta che Verre, impadronitosi del patrimonio dell’uomo, fece a Venere: un Cupido d’argento con fiaccola e la scritta «stenio di terme». Ciò gli permette tra l’altro di giocare sull’equivoco tra venerazione per la dea e amore per la figlia di Agatino, «a causa della quale aveva violato le leggi dell’ospitalità, e non gli bastava che la cosa fosse allora di dominio pubblico, voleva pure che imperituro ne fosse il ricordo», e di osservare che il dono avrebbe dovuto avvenire non dai beni di Stenio ma dai propri, in quanto recente erede di Chelidone (II, 2,116).
Durante il viaggio dell’accusatore potrebbero essersi aggiunte testimonianze sulle richieste di denaro per la regolare amministrazione: quella di Quinto Vario (confermata da Sacerdote), quella di due cavalieri e quelle di «centinaia di cittadini romani e di molti siciliani» (II, 2,119); i primi però si riferivano, probabilmente, anche alla pretura urbana.
Il viaggio potrebbe avere invece portato molte nuove testimonianze sulla vendita degli incarichi pubblici locali e dell’accesso ai senati cittadini. I privati si aggiunsero alle molte delegazioni, tra cui quelle di Centuripe e Alesa (località sicuramente toccate da Cicerone), Catania e Palermo.
In apertura si ha il caso di Alesa. Per entrare nel senato locale erano richiesti almeno 30 anni di età e stringenti qualifiche di occupazione e censo. Ciononostante, per denaro, il governatore vi ammise un banditore – mestiere non tra i più qualificanti – e ragazzi di 16 e 17 anni. Segue quello di Agrigento. Là bisognava rispettare un preciso equilibrio nel corpo civico, obbligo anch’esso infranto per denaro, nonostante le proteste ufficiali. Segue il caso simile di Eraclea, con minori particolari. Tutte e tre le località furono toccate da Cicerone durante il viaggio.
Si passa poi a Siracusa. Là il sommo sacerdote, di Giove, avrebbe dovuto essere sorteggiato fra tre candidati, scelti da ciascuno dei settori della popolazione; Verre riuscì però a trasformare la procedura in farsa.
Costui ordina che gli venga letta la legge. Gli viene letta; stava scritto che nell’urna dovevano essere inserite tante tavolette quanti erano stati proclamati eletti; e che doveva ricoprire quella carica sacerdotale colui il cui nome fosse stato estratto a sorte. Costui, uomo ricco d’ingegno e assai acuto: ‘Benissimo’ dice ‘sta proprio scritto così: quanti saranno stati proclamati eletti. Quanti dunque’ prosegue ‘sono stati proclamati eletti?’. ‘Tre’, gli rispondono. ‘Che altro dunque occorre fare, se non gettare nell’urna tre tavolette, ed estrarne una?’ ‘Niente’. Ordina dunque che si gettino tre tavolette, recanti tutte scritto il nome di Teomnasto.
(Verrine, II, 2,127)
Il soggiorno siracusano e qualche notizia passata dal sacerdote in carica, Eraclio, potrebbero avere aiutato l’accusatore a chiarire la vicenda.
Segue il quasi incredibile caso di Cefalù. Il favorito alle elezioni per il sommo sacerdozio si trovava a Roma. Il calendario locale – per le stesse ragioni di sincronizzazione tra mese lunare e anno solare che affliggevano quello romano – contemplava l’aggiunta o la sottrazione di qualche giorno a singoli mesi. Verre fece invece togliere all’improvviso ben un mese e mezzo; in una data così anticipata e falsificata fu quindi eletto il rivale, che aveva pagato. Il danneggiato, evidentemente, con l’Urbe aveva stretti rapporti, ciò che non ci fa considerare questa una ‘scoperta’ necessariamente avvenuta durante il viaggio nell’isola.
Segue una sezione molto particolareggiata sugli uffici di censore, funzione fondamentale ai fini della tassazione locale. Come a Roma, in ogni centro dell’isola i due magistrati addetti, a scadenze fisse, determinavano i patrimoni dei concittadini. Poiché la carica era molto ambita, il propretore dichiarò che, per evitare la corruzione – e, secondo qualche voce della critica, non a torto –, avrebbe scelto di persona. La descrizione di quanto avvenuto presuppone notizie ‘di prima mano’, forse di origine siracusana.
L’annunzio che il governatore aveva aperto un così importante mercato fa accorrere presso di lui a Siracusa gente da ogni parte; tutta la dimora del governatore bruciava di passioni e brame ardenti; nulla di strano, giacché si erano concentrati in una sola casa tutti i comizi elettorali di tante città, e in una sola stanza da letto era stata rinchiusa l’accanita contesa politica dell’intera provincia. Dopo che ci si era pubblicamente informati dei prezzi, ed erano state fatte le offerte, Timarchide assegnava i censori, due per ogni città.
(Verrine, II, 2,133)
Ben visibili furono gli effetti a catena. A ognuno dei 130 nominati fu chiesto di versare altri 300 sesterzi per le statue che sarebbe stato tenuto a erigere, al termine del proprio incarico, al propretore. Tutti, a caccia di denaro, iniziarono quindi ad abbassare il censo dei ricchi (previo pagamento di tangenti, s’intende) e ad alzare quello dei poveri (per non far scendere le...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Gli attori e la scena
  3. II. Verso un processo epocale
  4. III. L’inchiesta
  5. IV. Il quadro dell’accusa
  6. V. Una condanna «in extremis»
  7. Conclusione. Luci spente e riabilitazioni postume
  8. Appendice
  9. Bibliografia, interpretazioni e approfondimenti