Storia della storiografia italiana
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Storia della storiografia italiana

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Storia della storiografia italiana

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Dalle cronache alle più impegnative scritture storiche medievali, l'Italia si dimostra un laboratorio di innovazioni e riflessioni di grande spessore nel contesto europeo. La storiografia umanistica e storici come Machiavelli e Guicciardini non sorgono, quindi, come estemporanee novità, e neppure è casuale il magistero italiano nell'Europa del Rinascimento. Questo alto profilo viene in parte disperso nella 'decadenza' italiana, finché con Vico, Muratori, Giannone si riapre una nuova grande stagione. Dal Risorgimento alla Repubblica il corso della storiografia italiana si fa molteplice e differenziato, in collegamento crescente con i paralleli sviluppi europei. Nel '900 la storiografia italiana è poi sempre più ricca di voci e di esperienze, che ne fanno un documento notevole della cultura contemporanea, pur mantenendo sempre una sua originale cifra di interessi e di metodi.

Un ritratto d'autore del volto cangiante della storiografia italiana. Un profilo che definisce la fisionomia e la metodologia dello scrivere di storia nel nostro paese, sottolineandone l'organico rapporto con l'insieme della vita civile e culturale.

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858130575
Argomento
Storia
Categoria
Storiografia

Dalla tradizione
alla ricerca di altre dimensioni

Alla fine della guerra

Il profondo sconvolgimento politico segnato dalla seconda guerra mondiale e dai suoi esiti in tutta la realtà e la vita dell’Italia, come ovunque altrove, si riflesse immediatamente nella cultura e nella vita intellettuale del paese. Di tale sconvolgimento la storiografia fu, in un certo senso, la testimonianza più significativa. Né è da meravigliarsene, e non solo per le ragioni generali che possono giustificare una tale affermazione per qualsiasi grande sconvolgimento storico. In Italia, come in altri paesi (la Germania, innanzitutto), la guerra si concluse con un mutamento di regime che portò da un ordinamento a partito unico a un ordinamento a base pluripartitica. Si ristabiliva, così, l’ordinamento liberaldemocratico, che per circa venti anni il fascismo aveva o alterato in modo deformante o addirittura soppresso.
Si impose quindi con molto maggiore pregnanza la domanda che già prima di allora, e fin dai primi tempi del fascismo, ci si era posti con angoscia e sorpresa: come era stata possibile la caduta del regime liberaldemocratico, come l’imposizione di un regime quale quello fascista in un paese in cui era convinzione diffusa che, con lo Stato unitario e nazionale formatosi col Risorgimento, la libertà politica si fosse ormai saldamente radicata?
La particolare rilevanza degli esiti del conflitto conclusosi nel 1945 dipendeva, infatti, proprio dalla circostanza che con la guerra si era conclusa una pagina della vita nazionale, della quale si sentiva il bisogno di spiegare il senso e le ragioni di fronte a se stessi e di fronte al mondo, per la propria storia, per il presente e per il futuro. E non sorprende, quindi, che proprio su questo tema si siano subito delineati alcuni indirizzi dominanti nella storiografia italiana del dopoguerra. Più notevole è che – come non era ancora accaduto prima, se non in misura e in modi episodici, o soltanto rispetto a qualche particolare tema storico – gli indirizzi storiografici allora delineatisi furono subito designati con un’aggettivazione ideologica o politica: storiografia liberale o conservatrice, storiografia di sinistra, storiografia cattolica e simili.

Fascismo e «homo italicus»

Anche le tesi interpretative si delinearono immediatamente nella loro polarizzata diversità. In ciò influì, peraltro, la circostanza che tentativi o nuclei interpretativi al riguardo erano già emersi fin dagli inizi del fascismo. Fu anzi, una delle maggiori personalità dell’Italia in cui il fascismo si affermò, Giustino Fortunato, a formulare felicemente l’antitesi valutativa che trovò pieno e completo svolgimento nella storiografia del dopoguerra: il fascismo era stato una rivoluzione o una rivelazione? Aveva sovvertito il corso della storia nazionale, che stava portando l’Italia a pieno titolo fra i maggiori paesi moderni e liberaldemocratici d’Europa? Oppure nel fascismo si era espressa una sostanziale negatività italiana? Per Fortunato questa negatività permeava strutturalmente l’Italia e tutta la sua storia. «No, ‘rivoluzione’, no, ma ‘rivelazione’ è stato, e rimane, il fascismo: rivelazione di quel che realmente è, di quel che realmente vale l’Italia», scriveva a Giovanni Ansaldo il 28 febbraio 1930. «Il fascismo – concludeva – è proprio l’Italia, di ieri e dell’altro ieri, così come sarà, indubitatamente, l’Italia di domani e di domani l’altro»1.
Come si vede, la condanna degli italiani e della loro storia era, per Fortunato, senza appello. Egli esprimeva così, peraltro, una convinzione che, già ricorrente in varie zone e momenti della cultura italiana, divenne molto comune e si espresse in non pochi saggi di globale valutazione storica negativa dell’Italia e del «carattere degli italiani». Questi saggi non furono, parlando in generale, di grande respiro storico, tranne pochissime eccezioni, di cui la maggiore fu, senz’altro, l’Antistoria d’Italia, di Fabio Cusin (Torino 1948). L’autore stesso non lo presentava «come un libro di documentazione storica». Egli partiva da un veloce, ma non superficiale esame (con relativo giudizio) della storia d’Italia dall’alto Medioevo alla vigilia dell’affermazione del fascismo, al quale sono, in effetti, dedicati tre quarti del libro. La sproporzione spaziale non nuoce, però, alla nettezza con la quale il fascismo viene qualificato come fenomeno che non affonda le sue radici nei travagli provocati dalla guerra del 1915-1918, e neppure nei problemi e nelle traversie del precedente cinquantennio di vita dell’Italia unita, bensì in tutta la storia degli italiani, profondamente connotata in senso negativo sul piano della sua ispirazione etica e politica, per non parlare della sua vita religiosa.
Così conformato, il fascismo poteva apparire come una sorta di vocazione storica dell’homo italicus. Sulla storiografia italiana del nuovo dopoguerra il saggio del Cusin non ebbe, comunque, una particolare influenza. Egli aveva, in effetti, congiunto in un nesso nuovo – rappresentato appunto dal fascismo – la filosofia del particulare guicciardiniano, intesa come filosofia all’italiana o dell’italiano, e i caratteri dell’Italia della «decadenza», fatta di Spagna e di Controriforma, così efficacemente delineati dal De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana. Di questa micidiale miscela il fascismo era stato una nuova e peggiorata edizione, che aveva profondamente aggravato le debolezze, originarie, dello Stato monarchico uscito dal Risorgimento nella scia, «giacobina», della Rivoluzione francese.

«Salvati» e «sommersi»

Nello svolgimento degli studi italiani l’urgenza assunta dal problema storico del fascismo non impedì, tuttavia, che gradualmente si giungesse al mutamento di prospettive metodologiche e interpretative che in un non lungo lasso di tempo si finì con l’avere. Le note di continuità furono segnate soprattutto dal fatto che la generazione degli studiosi che alla vigilia della guerra o durante il conflitto si erano già da tempo affermati e quella di coloro che avevano di recente raggiunto la maturità della loro figura di storici costituirono per vario tempo anche nel dopoguerra i punti di riferimento e di orientamento della storiografia italiana. Il ritorno alla pace non segnò, insomma, per la storiografia una catastrofe e una ripartenza da zero. Anzi, la continuità fu assicurata sia da vecchi che da giovani studiosi. L’impatto politico del dopoguerra si ebbe con il ritorno all’insegnamento di qualche professore che ne era stato allontanato dal fascismo, come accadde, in particolare, per quel grande storico dell’antichità che fu Gaetano De Sanctis. Non tornò, invece, al suo ruolo Ernesto Buonaiuti, che ne era stato privato per effetto del Concordato del 1929, in quanto ex sacerdote. Alcuni furono estromessi dall’università, per l’epurazione degli ex fascisti, ma poi vi furono riammessi, poiché nelle relative procedure furono «molti i ‘salvati’, pochissimi i ‘sommersi’»2.
Si pagavano allora, in effetti, tutti gli equivoci del rapporto di compromesso che si era stabilito tra fascismo e cultura italiana nel ventennio mussoliniano, ondeggiando fra «servitù volontaria» e «trasformismo politico e intellettuale»3, fra un opportunismo interessato e un certo buonsenso cui obbligavano le circostanze (si pensi al caso del giuramento dell’Omodeo, consigliato anche dal Croce): equivoci che, a parti invertite, si riproducevano dopo la caduta del fascismo, per cui Croce parlava nel 1947 di «cose nuove che son vecchie»4, senza che, peraltro, anche durante il fascismo, fosse mancato qualche «ricettacolo di giovani, di irregolari, di ‘sopravvissuti’, di perseguitati politici e religiosi»5.

Il caso Volpe

Gioacchino Volpe, la cui posizione accademica era stata di assoluto rilievo, fu tra i «sommersi». Egli continuò, tuttavia, i suoi studi, e mantenne sulla scena storiografica italiana una presenza tutt’altro che trascurabile. Soprattutto, portò a termine, fra vari travagli editoriali, Italia moderna, una storia d’Italia dal 1815 al 1914, nata come una revisione dell’Italia in cammino del 1927 e via via allargatasi nelle dimensioni e nella tematica. Nell’estate del 1943 l’Istituto per gli studi di politica internazionale ne aveva pubblicato il primo volume, che andava dal 1815 al 1898 e che, per le vicende del paese, non cominciò neppure a circolare. Dopo la guerra, il volume passò all’editore Sansoni (la casa editrice della famiglia Gentile) e vide davvero la luce nel 1946. L’autore diceva di aver già pronto nella stessa estate del 1943 il secondo volume, che proseguiva l’opera, molto più analiticamente, dal 1898 al 1910 e che apparve nel 1949, seguito dal terzo (1910-1914), il più ampio dei tre, nel 1952.
Nella struttura che ne risultò, il primo volume finì col costituire quasi una lunga introduzione alle altre due parti dell’opera. Non si tratta, però, soltanto di una diversità quantitativa. Il secondo e soprattutto il terzo appaiono molto più ricchi, complessi e dettagliati del primo volume. La realtà italiana vi campeggia in una grande varietà di componenti e di espressioni, per cui si può considerare qui più che altrove realizzata la tendenza del Volpe a una polifonica, piena rappresentazione del processo storico trattato; e si comprende che quel che fu il canto del cigno dello storico possa apparire il suo vero capolavoro.
Il modo di tale rappresentazione è, tuttavia, sempre quello consueto dell’autore, e, forse, per Italia moderna vale ancora di più il giudizio di Omodeo, per cui era proprio di Volpe offrire nelle sue pagine più il quadro di un «fascio di fattori storici» che una reale e unitaria sintesi storiografica6: un rilievo perfettamente in linea con l’osservazione del Croce, che abbiamo a suo luogo riferita, circa l’assenza in Volpe di una partecipe e unitaria rappresentazione del dramma della storia. Più dubbio è che vi si possa vedere uno sforzo consapevole di «eclettismo» fra vari «modelli sociologici» nel costruire quel «fascio di fattori storici», anche se proprio la varietà eclettica e la vivacità e convinzione con cui questi «fattori» erano sentiti e rappresentati davano alle pagine del Volpe il loro innegabile fascino e una forza e ricchezza storiografica tanto pregnante da costituire una punta della storiografia italiana del suo tempo.
Pur nelle traversie del dopoguerra, Volpe mantenne, comunque, in gran parte, l’autorevolezza così a lungo riconosciutagli. Ne è, del resto, una chiara prova l’omaggio che al Volpe – malgrado rotture e dissensi avutisi nel frattempo7 – presero l’iniziativa di rendere, per i suoi 80 anni, otto studiosi dei molti che intorno a lui avevano gravitato (Chabod, Dal Pane, Dupré Theseider, Ghisalberti, Maturi, Moscati, Sestan, Valsecchi). Ne vennero fuori due volumi con oltre cinquanta contributi dovuti a studiosi anziani e giovani o giovanissimi, che costituiscono, tra l’altro, una interessante specola sulla maggiore e più consolidata parte della storiografia italiana di allora. Di più, considerata la precedente, sostanziale immedesimazione di Volpe col regime, era difficile attendersi.

Una «insurrezione polemica»

Il giudizio storico sul fascismo evolse, comunque, rapidamente concentrandosi, in effetti, sul nesso tra natura ed esiti del Risorgimento e dello Stato nazionale che ne era uscito. Il «processo al Risorgimento» era già iniziato da tempo nella cultura italiana, e non solo in chiave storica, bensì anche – e, anzi, ancor prima – in chiave politica. Negli anni Venti e Trenta questo «processo» era stato acuito dall’avvento del fascismo, che aveva portato a critiche radicali (come quella svolta da Piero Gobetti in un saggio famoso, Risorgimento senza eroi, del 1926). All’indomani della guerra si ebbe quella che apparve «come una sorta di insurrezione polemica contro la storiografia tradizionale del Risorgimento»8. La storiografia dell’Italia unita non aveva ancora avuto uno sviluppo paragonabile a quella sul Risorgimento. I suoi testi di riferimento più autorevoli erano rimasti la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del Croce (1928) e l’Italia in cammino del Volpe (1927). I suoi temi erano polarizzati sulla portata, sviluppo e positività dello Stato unitario e della sua azione all’interno e all’esterno, sul rapporto tra popolo e nazione in quello Stato, sul rapporto tra Italia ed Europa da questi punti di vista.

Cattaneo e nuove influenze

Con la fine della guerra la discussione si fece subito più serrata, e comportò la considerazione di altri elementi e problemi. Venne, ad esempio, ripresa in più approfondita considerazione la possibilità di una soluzione federalista anziché unitaria e accentrata dell’unificazione italiana. Si ebbe,...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Una tradizione di quindici secoli
  3. Dalla tradizione alla ricerca di altre dimensioni