Archeologie del trauma
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Archeologie del trauma

Un'antropologia del sottosuolo

  1. 256 pagine
  2. Italian
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Archeologie del trauma

Un'antropologia del sottosuolo

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È possibile pensare ai richiedenti asilo, ai corpi occupati dei palestinesi, ai tanti immigrati che fuggono da miseria e mancanza di giustizia senza distogliere lo sguardo dalla 'violenza dell'umanitario'? Le matrici sociali e politiche della sofferenza, della memoria e del lutto possono essere pensate senza ridurre il loro dolore entro il perimetro di un meccanismo già scritto, di un solo concetto: 'trauma'? Roberto Beneduce interroga modelli e categorie che, all'ombra del sapere psichiatrico, ignorano spesso le economie dell'incertezza e la diversità delle esperienze, e lasciano irrisolta la questione dell'impunità di chi si è reso colpevole di arbitri e umiliazioni. In questa nuova edizione l'autore guarda al presente, dilaniato da razzismo, violenza di Stato e nuove guerre, ma anche alla volontà ostinata di quanti resistono alla tirannia della burocrazia e ritrovano, percorrendo sentieri di cura, il diritto a esistere.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858138588
Categoria
Antropologia

1.
«La questione»

Se il passato può dar forma al presente, la memoria permette di strutturare il passato rispetto all’oggi.
Ciò non significa però che si possa modellare
il passato a nostro piacimento. Al contrario,
proprio il fatto che non possiamo più avervi accesso
in maniera referenziale e diretta una volta che è stato vissuto, ha come conseguenza che il passato
può esercitare su di noi un’influenza che sfugge
ai normali meccanismi del ricordo,
dell’oggettivazione e dell’oblio.
Nicolas Argenti, Ute Röschentaler
(2006: 33)
1. Scrivere sul ‘trauma’ è diventato consueto e insieme difficile, a tratti fastidioso. Da questa tensione, alla quale non intendo sottrarmi, derivano particolari effetti. L’attenzione nei confronti della nozione di trauma ha conosciuto negli ultimi anni una considerevole espansione anche all’interno della letteratura medico-antropologica, interessata a indagare le politiche del trauma che hanno contraddistinto il recente dibat­tito clinico. Psicologico e politico sono, nei recenti lavori medico-an­tropologici, sistematicamente intrecciati e diretti a rivelare particolari configurazioni della soggettività in contesti caratterizzati dalla violenza e dall’arbitrio, espressioni occulte del legame sociale e del potere, ma soprattutto ciò che rimane indicibile della memoria di passati conflitti1. Si può essere d’accordo con chi sostiene che, se oggi si parla così tanto di trauma, è anche perché la nostra è un’epoca – propriamente parlando – traumatizzata. La diffusione di questo termine, apparso nelle scienze psicologiche nella seconda metà del secolo Diciannovesimo, ha avuto però anche come conseguenza una sua crescente banalizzazione, bisognosa anch’essa di analisi, effetto sia della propensione a considerare universale il significato del termine sia della destoricizzazione delle esperienze definite ‘traumatiche’. Penetrata nel linguaggio comune, la nozione di trauma vi costituisce ormai un ritornello, eco eloquente – sebbene inavvertita – di altri processi:
L’eccezionale crescita del ‘trauma’, sia come idioma culturale sia come categoria psichiatrica, può essere messa in rapporto sia con l’emergere di una particolare versione della nozione di ‘persona’, concepita in modo individualistico, sia con le paure e le speranze della vita moderna. Viviamo in un tempo d’incertezza [...], e cresce la distanza fra coloro che hanno successo e coloro che sono sconfitti [...]. Questo clima nutre un sentimento di danno personale e d’ingiustizia, e una domanda di risarcimento anche in situazioni che un tempo sarebbero state concepite come conseguenza di sfortuna o come il normale corso della vita (Summerfield 2004: 237).
Dall’ambito dell’intervento umanitario alle azioni dirette ad aiutare le vittime di catastrofi naturali, dalle più comuni esperienze della vita quotidiana alla sofferenza di drammi indicibili, sembra diventato impossibile sfuggire al suo uso, e l’osservazione di Summerfield sull’emergere parallelo di una nozione di persona essenzialmente individualistica e il crescere dell’incertezza sociale riassume buona parte dei problemi che saranno qui indagati.
L’uso crescente di questo concetto è andato di pari passo con lo sviluppo di una letteratura elefantiaca e di un impressionante numero di riviste specialistiche. È in riferimento a questi aspetti, nel tentativo di analizzare i meccanismi che presiedono alla produzione sociale della vittima e alle politiche della memoria veicolate da talune categorie diagnostiche, che alcuni autori hanno parlato di «impero del trauma» (Fassin e Rechtman 2007).
Nello scrivere su questo tema mi sono posto non poche domande su come pensare l’uso della nozione di ‘trauma’ e, ad un medesimo tempo, su come trattare le esperienze che essa intende denotare. I rinvii e gli incroci epistemologici sono d’altronde talmente numerosi da imporre dei limiti alla nostra analisi, se solo si pensa che questo concetto sta sospeso fra questioni innumerevoli, contigue o sovrapposte2. Articolare tutto questo non è facile per chi, oltre a muoversi sul terreno della riflessione antropologica, deve incontrare i testimoni del male in carne e ossa, ascoltarne i racconti e curarne il dolore. Qualunque sia l’ambito che s’intende esplorare, c’è una questione spesso elusa che sta, ostinata, al centro delle scienze del trauma. Si tratta di un profilo che trasforma assai spesso la cura di quest’ultimo in una vera e propria sfida logica: penso alle conseguenze derivanti dal fatto che si tratta, in molti casi, di curare una ‘malattia’ che è stata provocata intenzionalmente da altri uomini, di un disturbo derivante da una violenza inferta intenzionalmente con lo scopo precipuo di nuocere, annichilire, dominare. Il trauma è prima di tutto questo.
Non credo ci si possa accontentare di ricondurre la violenza ad un tratto caratteristico della specie umana, come non hanno mancato di sostenere in questi anni numerose teorie o discipline (la sociobiologia, fra le altre). Sebbene esse sembrano placare per un istante le nostre domande sul senso della violenza umana, e se pure ci offrissero una buona spiegazione delle sue cause, i modelli sociobiologici non ci restituirebbero mai il senso di un’azione, di un gesto, di una scelta, né tanto meno quello del dolore provato da chi la violenza l’ha subita: è a questo livello che si pongono le più lancinanti domande su che cosa sia l’umano e su quali siano le ragioni della sofferenza3. Gli argomenti della sociobiologia non soddisfano perché là dove essi rischiarano i corpi anonimi della specie, i meccanismi oggettivi delle pulsioni, le leggi universali dell’istinto di sopravvivenza, rendono al tempo stesso invisibili la Storia, le vicende individuali e i corpi reali (Dei 2005; Héritier 2005).
Inoltre, nonostante le loro ragioni, tanto la spiegazione naturalistica della violenza quanto quella psicologica del trauma non spengono i fuochi della memoria: il dolore è uno strano antidoto contro l’amnesia. Chi soffre delle conseguenze di esperienze traumatiche, dell’assedio di immagini atroci, sembra talvolta, quasi paradossalmente, voler spalancare ancora di più gli occhi: come se non intendesse rassegnarsi alla notte. Nessun modello generale può essere fatto valere a questo riguardo, e alla seduzione di un oblio ‘terapeutico’, ben riassunto dalla domanda che una donna di Kinshasa mi rivolgeva alla fine di ogni incontro («Dottore, può aiutarmi a dimenticare?»), si oppongono quanti non intendono abdicare al dovere di memoria di fronte alle violenze e ai drammi della storia. È su questo crepaccio, fra questi opposti movimenti, che prende origine la lotta fra il desiderio di dimenticare e la resistenza di un passato che, nell’ostinazione dei ricordi e del dolore, riafferma il feroce principio dell’irrevocabilità.
2. L’abuso del concetto di trauma presenta un altro rischio: questo termine diventa infatti insignificante proprio quando prova a dire l’esperienza di chi ha conosciuto il terrore e l’umiliazione, di chi vi è rimasto sommerso. La dimensione morale di queste vicende, quale si può cogliere nelle reticenze dei protagonisti, nei loro silenzi (che non sono tuttavia mai la promessa di un oblio), ha finito col farmi apparire questa nozione sempre più inadeguata. Ciò anche quando il suo uso è reso necessario da una logica strumentale, tattica, a cui è impossibile sottrarsi allorquando si opera nel campo della cura: come capita, ad esempio, nella stesura di un certificato medico per un richiedente asilo, dove il ricorso a questa o simili nozioni accresce il grado di credibilità del suo racconto e le possibilità di vedere riconosciuto lo status di rifugiato.
La ragione per la quale la nozione di trauma è usata spesso in modo indiscriminato deve essere interrogata anche quando ad offrircela su un palmo di mano sono gli stessi protagonisti delle vicende evocate: pazienti, vittime di violenze, immigrati. È importante riflettere sugli effetti di questa ‘traduzione’ della sofferenza in un lessico specifico, di volta in volta medico, psicologico, giuridico: traduzione inevitabile, certo, i cui effetti di metamorfosi, di testualizzazione del dolore e dell’esperienza non possiamo però non indagare, interrogandoci in particolare su ciò che in essi si perde. Esito d’altronde a parlare di ‘esperienza traumatica’, sebbene non posso fare a meno di ricorrere a questa formula, per ragioni in parte simili a quelle evocate da Cathy Caruth quando parla dell’‘ignoranza’ generata dal trauma: ciò perché del trauma, propriamente parlando, non si fa esperienza, spesso lo si subisce e basta, senza riuscire a comprenderlo mai del tutto. Il termine ‘esperienza’ rischia perciò di diventare, in questi territori di sopruso e di morte, un eufemismo, e la misura di quanto le parole siano a questo proposito insufficienti. Quest’impossibilità cognitiva ha anche a che vedere con alcune delle caratteristiche di eventi traumatici estremi come la tortura, dove l’incertezza e lo stupore dei sopravvissuti non sono mai riconducibili ad una semplice amnesia:
L’incertezza del sopravvissuto non è una semplice amnesia, dal momento che l’evento ritorna [...] insistentemente e contro la sua volontà. Non è questione di avere solo un accesso indiretto all’evento, perché le allucinazioni sono generalmente relative ad eventi tutti accessibili nella loro orribile verità. Ciò che, in questo caso, mette in discussione la sua verità, non è il fatto di poter avere solo un accesso parziale, o indiretto, all’evento ma, abbastanza paradossalmente, la sua opprimente immediatezza. L’esperienza del trauma e la questione della latenza sembrerebbero così consistere non nel fatto che si dimentichi qualcosa di cui, d’altronde, non si può avere mai piena conoscenza, ma nella latenza insita nell’esperienza stessa. Il potere storico del trauma non è tanto in rapporto con il fatto che l’esperienza si ripeta dopo essere stata dimenticata, quanto piuttosto con il fatto che solo all’interno – e a causa – di quest’oblio che lo caratterizza esso può essere percepito. È questa latenza connessa all’evento traumatico che spiega, paradossalmente, la sua peculiare struttura temporale, ossia il ritardo dell’esperienza storica, dal momento che l’evento traumatico non è stato compreso quando si è prodotto ma, in modo evidente, solo in relazione ad un altro luogo e un altro tempo (Caruth 1995: 6-9; corsivo mio; l’autrice fa riferimento qui alla teoria freudiana della latenza).
Gli eventi ai quali si fa solitamente riferimento (la morte e il terrore nei campi di sterminio, le atrocità di massa, la tortura) sono d’altronde molto più che semplici ‘traumi’. Rivolta a scardinare i sensi e i corpi, a disarticolare membra ed emozioni, la violenza rimane per chi l’ha subita incomprensibile, e tale è anche l’assenza di un sentimento di colpa nei carnefici4. Prodotta all’interno di procedure dirette a smembrare il Soggetto dell’azione, della decisione e del pensiero, a spossessarlo di ogni residuo potere, la violenza dell’uomo sull’uomo annienta l’esperienza ordinaria del tempo e dello spazio.
Thérèse, un’anziana donna incontrata a Goma (Repubblica Democratica del Congo) nel 2004, violentata da quattro giovanissimi miliziani giunti nel suo villaggio mentre era intenta a cucinare, mi diceva con espressione indecisa: «Potevano essere i miei figli». Daniel, un richiedente asilo proveniente da Boma, sempre nella Repubblica Democratica del Congo, non riesce a fare a meno di esprimere un doloroso stupore, un’incertezza comunicata in modo quasi infantile ogni qualvolta mi parla di ciò che gli è accaduto: «È la prima volta che sono stato torturato». Solo questo è capace di dirmi quando le lacrime piegano la sua testa, quasi a giustificarsi del fatto che non riesce né a raccontare, né a dimenticare (non basta dire che era membro di un movimento religioso inviso al governo, non basta questo a ‘spiegare’ la tortura che ha subito). In questi racconti non è tanto in gioco la ‘latenza’ quanto piuttosto l’incomprensibilità, storica oltre che cognitiva, di una violenza inutile e perversa. Ciò a cui Daniel allude ha il sapore di un enigma, e la tortura qui si manifesta per intero come una mnemonica dello spossessamento. Le considerazioni di de Certeau sulla tortura dicono superbamente di questo stupore che spesso ritroviamo nel discorso delle vittime:
Il torturato è stupito di trovarsi davanti a una legge che non si aspettava. Perché, in definitiva, ciò che gli si chiede non è di dire che è vero ciò che crede falso. L’istituzione non si fonda sul riconoscimento della verità che esibisce al di fuori e in via teorica – dall’interno, chi potrebbe infatti pensarla come vera? –, bensì sul riconoscimento, da parte dei suoi seguaci, della propria indecenza. Così, il soggetto ghermito dalla tortura viene posto non dinanzi al valore o all’orrore di un sistema – terreno su cui risulterebbe forte –, bensì davanti a una carenza e a un’impurità intime – terreno dove invece è debole (2006: 201).
Le morti di Améry, di Bettelheim, di Levi e tanti altri, le domande di Thérèse o di Daniel, stanno a ricordare con perentorietà questo buco nero del senso, questa ‘indecenza’ fatta penetrare nei loro corpi. Se si pensa alle parole che Levi (2007: 109-110) scrive sul suicidio di Améry, al dialogo – quasi un estremo tentativo di esorcismo, si direbbe – che egli intrattenne con l’opera di quest’ultimo poco prima di suicidarsi egli stesso, si viene invasi da immensa tristezza. In tutte queste vicende la parola ‘esperienza’, nel senso etimologico del termine («provare, tentare, e attraverso tali atti ripetuti giungere a conoscere»), è bugiarda, prossima all’ossimoro: come quella di trauma, cela più di quanto non riveli.
C’è ancora una considerazione da fare a proposito di questo ‘stupore’. A differenza della «cognizione del dolore», dove la conoscenza di sé, delle proprie fibre più intime, nasce dall’infinito dilatarsi dell’esperienza del proprio corpo quale si produce in talune malattie croniche o in particolari condizioni di sofferenza, la tortura è oltraggio dei sensi, e non necessariamente accresce la consapevolezza (semmai, come abbiamo visto, ne dissolve la possibilità lasciando la vittima in una perenne condizione d’incertezza)5. La nozione di assoggettamento, centrale nell’analisi delle relazioni di potere, esige nei contesti di violenza estrema (tortura, atrocità) un uso critico: la produzione di soggettività, se tale espressione conserva qualche legittimità nei casi in cui dominano il terrore e il dolore, procede in questi casi con un passo macabro, rivelando come un progetto ‘autoptico’.
All’interno dei contesti segnati da quelle che Malkki (1995) ha definito «mappe necrografiche» dell’alterità, l’assoggettamento si traduce, infatti, in una pura strategia di annientamento e nella produzione di un generalizzato «stato mentale di guerra» (Shaw 2000). È dentro un tale stato mentale che si perpetuano ...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. Introduzione. Per un’antropologia del sottosuolo1
  3. 1. «La questione»
  4. 2. Scienze della memoria ed «esorcismi moderni»
  5. 3. Edipo non abita la Storia
  6. 4. Testimoni e vittime fra narrazione, retoriche umanitarie e ripetizione
  7. 5. Le vertebre spezzate del tempo
  8. 6. Memorie smembrate e Corpi Occupati
  9. 7. Un Dio che aiuti a dimenticare?
  10. 8. «Ma la guerra continua...». Archivi indocili per una memoria a venire
  11. Riferimenti bibliografici