Il sacco del pianeta
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Il sacco del pianeta

  1. 304 pagine
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Il sacco del pianeta

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Gli ambientalisti hanno ragione quando sostengono che le responsabilità di ogni generazione nei confronti dei beni naturali sono diverse da quelle che riguardano altri beni. Ma gli economisti non hanno torto se dicono che la natura è un bene e, come tale, va utilizzato a vantaggio dell'umanità. «Il sacco del pianeta si rivolge a chiunque non sia animato da un sacro disprezzo per la modernità, senza per questo essere insensibile ai temi etici: a chi, magari, è stufo di sentirsi ripetere le solite prediche sull'obbligo di garantire la sostenibilità, ma ammette che comportarsi con leggerezza nei riguardi della natura equivarrebbe a cullarsi nell'illusione che tutto possa continuare come prima.
La natura è importante e noi la stiamo maltrattando. Questo vale soprattutto per gli abitanti dei paesi più poveri del mondo. Per loro, la situazione attuale costituisce al contempo un'opportunità e una minaccia di proporzioni gigantesche. L'argomento del mio libro non è come proteggere l'ambiente naturale per se stesso, ma come sfruttarlo per trasformare i paesi poveri senza infliggere sacrifici eccessivi al resto del mondo. A guidarmi nel decidere che cosa è giusto pretendere basta quella miscela di compassione e interesse personale che, credo, regola la vita della maggior parte della gente».

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115190
Argomento
Economia

IX. Passività naturali

Le fabbriche producono i beni che vogliamo. Sputano anche fumo. Il pennacchio di fumo che esce dalle ciminiere di una fabbrica è, di fatto, l’immagine classica utilizzata dagli economisti per spiegare il concetto di esternalità. La fabbrica vende i beni ma non deve pagare per il fumo. Oggi sappiamo che quel fumo è più dannoso di quanto si pensasse in passato. Non c’è niente di più naturale dell’anidride carbonica; è uno degli ingredienti di base della vita. Eppure, il carbonio è diventato un problema. Si accumula nell’atmosfera e cattura il calore. Naturalmente, il carbonio diventa un ostacolo naturale soltanto quando il suo quantitativo supera una certa soglia, oltre la quale diventa eccessivo. Abbiamo superato quella soglia.
A mano a mano che il carbonio cattura calore, il mondo si surriscalda e, a mano a mano che il mondo si surriscalda, il clima diventa più variabile. Le conseguenze sono molteplici ma sarà l’Africa a subire le conseguenze peggiori. L’Africa è immensa e i cambiamenti climatici non la colpiranno in maniera uniforme; è però probabile che le zone più aride si inaridiscano ulteriormente, impedendo la produzione di alimenti di base. Una forte variazione climatica significa siccità, inondazioni e ondate di intenso calore, che possono arrecare danni disastrosi alle colture tradizionali. L’agricoltura, che è attualmente la principale attività economica africana, diventerà meno produttiva. La popolazione, in rapido aumento, sarà costretta a penare per sopravvivere in un ambiente naturale sempre meno benevolo.
Il carbonio riassume in sé i principali temi di questo libro. Benché sia un prodotto naturale, è diventato una passività; non c’è niente di intrinsecamente benevolo nella natura. Il carbonio non è solo il prodotto dei processi industriali ma anche di una quantità di processi naturali. Ad esempio, l’attività economica umana più naturale di tutte è probabilmente l’allevamento di bestiame. Pastori e mandriani errano da millenni da un territorio all’altro. Sfortunatamente, rispetto al riscaldamento globale, essi rappresentano una minaccia peggiore delle centrali nucleari, che producono energia senza emettere carbonio. Le mucche, infatti, scoreggiano.
Essendo rinnovabile, il carbonio è economicamente molto simile ai pesci e agli alberi, tranne per il fatto che, invece di essere un bene naturale rinnovabile, è una passività naturale rinnovabile. I danni che provoca non dipendono dal quantitativo emesso attualmente ma da quello che è stato emesso in totale negli ultimi decenni. Accumulandosi nell’atmosfera, dobbiamo considerarlo al contempo una riserva e un flusso. Il carbonio è in realtà l’equivalente naturale di un debito. Il carbonio in eccesso si accumula nell’atmosfera, così come i debiti si accumulano in banca. Un debito è semplicemente un bene negativo, quindi tutto quello che abbiamo detto sull’esaurimento dei beni si applica allo stesso modo all’accumulo dei debiti. Si tratta di passività naturali con cui dovranno fare i conti le future generazioni: per questo abbiamo il dovere di tenerne conto prima di decidere se accumularle o meno.
Le passività naturali presentano, inoltre, una caratteristica tipica dei beni naturali: non hanno proprietari. Non esiste un metodo chiaro per assegnarli a specifici debitori. La differenza fondamentale sta nel fatto che, in assenza di proprietari naturali, la gente è quanto mai ansiosa di rivendicare i propri diritti sui beni naturali, mentre le passività naturali sono gli orfani della natura. Gli Inuit non si affannano certo a rivendicare la proprietà del carbonio che sta sopra le loro teste, a differenza di quanto fanno a proposito del petrolio che sta sotto i loro piedi.
Nel caso dei beni naturali, l’assenza di proprietari naturali sfocia nel saccheggio. Nel caso delle passività naturali, il saccheggio è di tipo diverso: i privati sono disposti a correre rischi fintanto che c’è qualche guadagno in vista. Non c’è motivo di pensare che i profitti privati saranno superiori alle perdite sociali.
I beni naturali richiedono di per sé una maggiore cooperazione sociale, che i mercati non possono garantire fintanto che la proprietà non è stata assegnata. Il governo è di gran lunga il principale meccanismo di cooperazione sociale non commerciale, dato che esercita il controllo sui beni naturali per nostro conto. Ma il problema sollevato dal carbonio assume un rilievo particolare, in quanto è globale e non nazionale. È completamente inutile che un singolo paese si faccia carico dei danni provocati dalle emissioni di carbonio avvenute nel proprio territorio, se gli altri paesi non fanno altrettanto. Quel che serve è la cooperazione mondiale.

Il salario del peccato e l’opportunismo morale

Il dibattito che ruota intorno all’anidride carbonica è dominato dall’idea di un accordo globale sul cap and trade (il sistema di limitazione e scambio delle quote di emissioni). In base a tale meccanismo, i diritti di emissione di carbonio, entro una soglia di sicurezza fissata a livello mondiale, sarebbero assegnati ai paesi, alle imprese e agli individui, e poi eventualmente scambiati. Chi desiderasse aumentare le proprie emissioni superando la propria «quota» potrebbe acquistare i diritti dagli altri.
Questo dibattito è infarcito di moralismo e opportunismo, ed entrambi gli aspetti si sono visti in azione a Copenaghen. Il moralismo è un curioso retaggio della teologia cristiana medievale, che suddivide i peccati tra quelli di omissione e quelli di azione. San Paolo ci dice solennemente che «il salario del peccato è la morte». La chiesa medievale prese alla lettera questa espressione, al punto da assegnare un prezzo a ogni peccato e vendendo poi il perdono, transazioni note con il nome di «indulgenze». I papi usarono le indulgenze come principale mezzo di finanziamento della costruzione della basilica di San Pietro a Roma. La moderna variante ambientalistica di questa cornice morale è il peccato di emissione. Il salario del peccato è diventato il riscaldamento globale. Invece di friggere all’inferno, friggeremo sulla terra. E la moderna variante di un’indulgenza è il diritto di scambiare quote di carbonio. I ricchi potranno continuare a commettere peccati di emissione fintanto che saranno in grado di comprare quote di carbonio equivalenti. I governi potrebbero essere attratti dallo scambio di quote di carbonio per gli stessi motivi che attirarono i papi medievali: sono a corto di soldi e la vendita dei diritti di scambio rimpolperebbe sostanziosamente le loro casse. Così come i papi del Medioevo riuscirono a finanziare San Pietro, il presidente Obama potrebbe finanziare il deficit di bilancio.
L’opportunismo è il prodotto delle pressioni esercitate per accaparrarsi questi diritti. In realtà, la teoria economica della ricerca di rendite svela un risvolto inquietante: le risorse impiegate a tale scopo potrebbero aumentare in proporzione al valore dei diritti acquistabili. Il valore dei diritti di scambio delle quote di emissione è potenzialmente molto alto. Si stima che il valore medio di una tonnellata di carbonio si aggiri intorno ai 40 dollari e che il tetto fissato per le emissioni sia di circa 18 miliardi di tonnellate. Di conseguenza, lo straordinario valore potenziale dei diritti di scambio delle quote di carbonio è di 720 miliardi di dollari l’anno – l’equivalente di un Toxic Assets Recovery Program, il programma di recupero dei titoli tossici varato dal presidente Bush nel 2008 per fare fronte alla crisi dei subprime.
Dato che né i beni né le passività naturali hanno un proprietario naturale, chiunque può partecipare alla corsa per la conquista dei diritti di emissione, adducendo una qualsiasi motivazione che abbia una parvenza di ragionevolezza. Ad esempio, un paese potrebbe sostenere di avere diritto a emettere la stessa quantità di anidride carbonica che emetteva al momento dell’imposizione del tetto. Oppure di avere il diritto di emettere la stessa quantità emessa da un altro paese. Oppure di averne diritto perché è povero. Oppure perché non ha emesso il carbonio che ha causato il problema.
La ricerca di rendite generate dai diritti di emissione può avvenire su scala nazionale o internazionale. A livello nazionale, è già in atto in seno al Congresso americano. Potenzialmente, in confronto alla gara per la conquista dei diritti di emissione, quell’enorme macchina per la ricerca di rendite rappresentata dalla lobby degli agricoltori americani diventa una barzelletta. A livello internazionale, il margine di manovra potrebbe addirittura essere più ampio. Un’impresa che desideri continuare a emettere carbonio dovrà semplicemente acquistare un pezzo di carta che certifichi che altrove un’altra impresa sta emettendo meno carbonio di quanto ne avrebbe emesso altrimenti. L’impresa che emette non è interessata all’autenticità di questa dichiarazione. Quella che riduce le emissioni, in base all’attuale Meccanismo di sviluppo pulito (Clean Development Mechanism o Cdm), non è tenuta a farlo realmente. È tenuta solo a ridurle rispetto al quantitativo che avrebbe potuto emettere. Deve semplicemente dimostrare in modo convincente che avrebbe potuto emettere un sacco di carbonio. Dato che il Cdm opera in modo frammentario, senza un quadro generale di riferimento, un paese potrebbe essere pagato più volte per evitare singole emissioni ma di fatto aumentare illimitatamente le emissioni totali. In realtà, la vendita di indulgenze attraverso il Cdm crea un incentivo non a ridurre le emissioni di carbonio ma a minacciare di incrementarle il più possibile.
Il Meccanismo di sviluppo pulito presenta in realtà lo stesso difetto dell’assegnazione gratuita dei preziosi diritti di pesca ai pescatori. Abbiamo visto che, fintanto che i pesci abbondano, i pescatori possono pescarne a volontà e il valore di un pesce riflette semplicemente il costo della pesca. Se si raggiunge il livello massimo sostenibile di pesca, il valore di un pesce aumenta; diventa un bene naturale pregiato, con una rendita di scarsità. Come abbiamo detto, i pescatori non dovrebbero avere automaticamente il diritto di beneficiare di quella rendita di scarsità su quello che è diventato un bene naturale. Possiamo applicare lo stesso ragionamento all’anidride carbonica emessa dalle centrali a carbone. Quando le emissioni mondiali di carbonio erano al di sotto della soglia di sicurezza, non esistevano rendite generate dal carbonio: chiunque era libero di gestire una centrale elettrica. Le rendite del carbonio nascono quando tutti vogliono gestire una centrale elettrica. Il diritto di beneficiare di queste rendite non deriva dall’attività svolta nel periodo in cui esse non esistevano. Una volta che il carbonio è diventato socialmente costoso, le centrali che in passato lo hanno emesso senza pagarne le conseguenze d’ora in poi dovranno fare fronte a quei costi. Allo stesso modo, le nuove centrali elettriche non possono rivendicare il diritto alle emissioni basandosi semplicemente sul fatto che quando il carbonio non costituiva un costo per la società altre centrali lo hanno emesso gratis. Se bastasse minacciare di cominciare a emettere carbonio per acquisire il diritto di essere indennizzati per la mancata emissione, la bolletta mondiale degli indennizzi potrebbe gonfiarsi a dismisura.
Moralismo e opportunismo hanno falsato il discorso sulle emissioni di carbonio, che altro non è se non un disperato tentativo di evitare di farsi carico dei danni e allo stesso tempo rivendicare il maggior numero possibile di diritti. Questo ha distolto l’attenzione dalla questione centrale, cioè la gestione di una passività naturale. Lasciamo stare chi ha fatto cosa a chi, o chi è responsabile dell’attuale quantità di carbonio, o chi dovrebbe risarcire chi. Dovremmo piuttosto concentrarci sul da farsi, ora che abbiamo scoperto che il carbonio è un problema.
In sostanza, dire che il carbonio è un problema equivale a dire che le attività che lo generano producono qualcosa di dannoso. Cionondimeno, producono anche qualcosa di utile e, di solito, quel qualcosa avrà molto più valore del danno causato dal carbonio. Di solito, ma non sempre. Prendiamo l’estrazione del carbone. Nella gerarchia dei combustibili, il carbone comporta costi di sfruttamento abbastanza elevati rispetto al suo valore come combustibile, che poi è il motivo per cui le miniere di carbone di molti paesi sviluppati sono in crisi. L’estrazione del carbone non è sufficientemente redditizia da consentire di pagare stipendi competitivi. Non solo il carbone non è di grande valore ma emette anidride carbonica. I quantitativi dipendono dal tipo di carbone; alcuni tipi sono migliori di altri. Finché non abbiamo scoperto il riscaldamento globale, i paesi a basso reddito ritenevano che l’estrazione del carbone fosse redditizia. Oggi bruciare carbone produce non solo calore ma anche anidride carbonica. Oggi sarebbe meglio lasciare quel carbone nel sottosuolo, invece di estrarlo; è diventato socialmente inutile. La situazione potrebbe cambiare se e quando si sviluppasse una nuova tecnologia per la cattura del carbonio ma probabilmente anche quella tecnologia sarebbe molto costosa.

Come sarebbe un mondo a basso contenuto di carbonio?

Il mondo deve funzionare in modo da emettere carbonio senza superare la soglia di sicurezza. Che aspetto avrebbe un mondo simile? L’economia ci fornisce qualche indizio utile, se non altro quando ci dice quali principi dovrebbero guidare un’economia mondiale efficiente. L’efficienza spesso si capisce meglio pensando al suo opposto – l’inefficienza. Si dovrebbe parlare di inefficienza, ad esempio, se un’attività autorizzata a emettere carbonio producesse un risultato di valore modesto, mentre un’altra, il cui prodotto fosse di alto valore, non fosse autorizzata a farlo. Un altro esempio di inefficienza sarebbe quello in cui un’attività – ad esempio una centrale chimica – si spostasse in un paese in cui il suo funzionamento sarebbe meno efficiente ma la normativa in materia di emissioni più permissiva. Esiste una ragione indiscutibile per cui dovremmo preoccuparci dell’efficienza: il riscaldamento globale è una brutta storia; affrontarlo sarà costoso e non affrontarlo lo sarà ancora di più. Dovremmo quindi farlo nel modo più efficiente possibile. Tutte le risposte inefficienti sono inutilmente più costose di quelle efficienti e possono facilmente diventare spropositatamente care.
L’idea centrale dell’economia è il prezzo. Il prezzo indica il valore. Per la maggior parte dei beni, il prezzo di mercato corrisponde di fatto al loro valore sociale: il prezzo si avvicina sia al costo di produzione del bene sia al valore che a esso annettono i consumatori. Gli economisti sono tanto entusiasti del mercato perché, nella maggior parte dei casi, esso rappresenta di gran lunga il migliore meccanismo per ottenere il maggior valore sociale possibile. Gli economisti però riconoscono anche che alcuni beni generano costi o benefici sociali il cui prezzo non è stabilito dal mercato. Oggi il carbonio è uno di quelli. Si può emettere carbonio gratis ma i costi saranno sostenuti da altri. Estendendo il concetto di prezzo, gli economisti hanno elaborato la teoria per cui, nel caso in cui il valore sociale si discosti dal prezzo di mercato, è possibile calcolare un prezzo virtuale o prezzo «ombra» che rifletta il costo effettivo. Sapendo che il carbonio è socialmente dannoso, il suo prezzo dovrebbe essere negativo. La gente dovrebbe pagare per produrlo.
E ora l’intuizione utile: il mondo affronterà il problema delle emissioni di carbonio in modo efficiente se, e solo se, il prezzo ombra del carbonio sarà lo stesso ovunque. È qui che entrano in gioco i 40 dollari di cui abbiamo parlato prima. Gli economisti calcolano che il prezzo ombra del carbonio, che consentirebbe di non superare la soglia di sicurezza delle emissioni, si aggira intorno ai 40 dollari a tonnellata. Questa stima presenta un ampio margine di errore potenziale. Non sappiamo né quanto carbonio si possa emettere in sicurezza, né come reagirebbero le persone se fossero chiamate a pagare un prezzo per le emissioni. Per il momento, però, atteniamoci a questa cifra.
Torniamo alla domanda iniziale: come sarebbe il mondo se tutti dovessero pagare un prezzo di 40 dollari a tonnellata? La maggior parte delle attività non ne risentirebbe, in quanto il carbonio emesso è molto poco rispetto al valore della produzione. Ad esempio, la maggior parte dei servizi, che costituiscono il fulcro delle economie moderne, sarebbe a malapena toccata. Lo stesso varrebbe per la maggior parte dell’industria leggera, che utilizza pochissima energia generata dal carbonio rispetto alla produzione finale.
L’industria pesante, l’agricoltura e i produttori di energia sono un’altra storia. Alcune industrie pesanti emettono enormi quantità di carbonio; se non modificassero le loro tecnologie, i loro costi aumenterebbero vertiginosamente. Se i loro costi aumentassero, i consumatori reagirebbero modificando i loro modelli di consumo e orientandosi verso altri prodotti. L’agricoltura sembra a prima vista «naturale», ma è un’attività a elevato contenuto di carbonio. Il problema non sono solo i peti delle mucche. Quando in un campo si bruciano le stoppie, si produce carbonio; anche durante l’aratura si produce carbonio. Invece di ridursi, l’agricoltura dovrà adattarsi.
Naturalmente, la produzione di energia è l’attività a più alta emissione di carbonio, ma il panorama è molto diversificato. Il peggiore di tutti è il carbone. Difatti, il prezzo ombra del carbone attualmente equivale al prezzo di mercato meno il costo del carbonio emesso. In molti casi il carbone non ha più nessun valore e le miniere sono costrette a chiudere. La lunga storia dell’estrazione del carbone è un esempio di saccheggio sociale analogo a quello perpetrato ai danni delle risorse naturali africane: profitto privato a spese altrui. La vita in miniera è molto dura. Il mio stesso cognome non è casuale, in quanto i miei antenati non erano Collier (dall’inglese medievale colier, minatore, N.d.T.) solo di nome ma anche di fatto. Coloro che hanno sfidato i pericoli del lavoro nelle miniere di carbone sono involontariamente diventati predatori sociali: è un’ironia della sorte ma questa è la realtà. Il mondo deve ridurre le emissioni di carbonio e l’attività di estrazione del carbone è fra tutte quella che produce il maggiore quantitativo di carbonio del pianeta.
All’estremo opposto del carbone c’è l’energia nucleare, che è totalmente priva di emissioni di carbonio e rappresenta un esempio perfetto del conflitto tra ambientalisti romantici e ambientalisti pragmatici. A volte i romantici sono perversamente soddisfatti del riscaldamento globale, perché significa che tutti i nodi dell’industria capitalistica stanno venendo al pettine. La notizia che la salvezza sta nell’energia nucleare suona tuttavia come un anatema alle loro orecchie, in quanto essa rappresenta tutto ciò che più odiano del capitalismo industriale. Dato l’elevato contenuto scientifico e le notevoli dimensioni delle centrali, l’energia nucleare è quanto di più lontano possa esistere dal concetto di «comunione con la natura». I romantici preferiscono l’energia eolica, solare o quella prodotta dalle maree, tutte facilmente comprensibili per la gente comune; l’energia nucleare sfrutta forze della natura che soltanto un ristretto gruppo di scienziati è in grado di capire. Purtroppo, tuttavia, l’energia prodotta dal vento, dalle onde e dal sole non può ancora essere misurata come si fa con quella nucleare. L’economia avanzata di gran lunga più efficiente di tutte è la Francia che, a seguito della crisi petrolifera del 1974, ha deciso di raggiungere la sicurezza energetica investendo nel nucleare. La Francia ha potuto farlo perché, mentre in tutti gli altri paesi la sinistra si opponeva al nucleare, la sinistra francese, nazionalista, ha appoggiato l’idea dell’indipendenza dalle importazioni di petrolio. Forse in futuro l’energia eolica, solare o delle maree potrà essere misurata (a condizione che si investa abbastanza nella ricerca), ma per il momento i pragmatici come Stuart Bland, uno dei pionieri del movimento ambientalista, hanno accettato l’idea che l’energia nucleare sia una componente essenziale della lotta per la riduzione del riscaldamento globale. Sono costoro a essere in sintonia con lo spirito di questo libro, vale a dire che le dec...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Parte prima. L’etica della natura
  3. I. Povertà e saccheggio
  4. II. La natura non ha prezzo?
  5. Parte seconda. La natura come bene
  6. III. Maledetti dalla natura? La politica dei beni naturali
  7. IV. Scoprire i beni naturali
  8. V. Appropriarsi dei beni naturali
  9. VI. Vendere i gioielli di famiglia
  10. VII. Investire negli investimenti
  11. Parte terza. La fabbrica della natura
  12. VIII. Un pesce è un bene naturale?
  13. IX. Passività naturali
  14. Parte quarta. La natura fraintesa
  15. X. Natura e fame
  16. Parte quinta. L’ordine naturale
  17. XI. Ripristinare l’ordine naturale
  18. Nota Bibliografica