1.
Il senso della realtà
Gwendoline Jarczyk Lei è teologo, pensatore, profondo conoscitore delle discipline intellettuali e spirituali d’Oriente e d’Occidente. Che vuol dire per lei, data questa pluralità di approcci, mettere sul tappeto la questione della realtà religiosa?
Raimon Panikkar Esattamente la stessa cosa che se lei eliminasse dalla sua domanda il predicato, l’aggettivo. Per me, infatti, si tratta semplicemente della realtà tout court. Se la religione, il religioso, non costituisce la dimensione più intima della realtà stessa, allora non è che una sovrastruttura aggiunta a ciò che è – ossia niente più, tutto sommato, che un’istituzione messa lì per aiutarti nel caso migliore, per inquietarti o annoiarti nel caso peggiore.
Da sempre, diciamo fin dalla mia prima giovinezza, mi sono interrogato su che cosa sia la realtà, la realtà tout court. Interrogato? Bisognerebbe abbandonare questa parola, in quanto, a rigore, non ci si interroga se non dal momento in cui si è persa l’innocenza. In effetti, esiste un altro modo di confrontarsi con la realtà senza cedere a quella dicotomia fra soggetto e oggetto, che è presupposta quando si parla di un soggetto che si interroga. Allora, infatti, bisogna domandare subito: interrogarsi, ma chi e su che cosa?
È vero che la cesura è forse necessaria. Prima o poi tutti perdiamo l’innocenza. Ma io cerco di risponderle portando la sua domanda a un livello fondamentale: sì, fin dall’inizio, ancora bambino, io ero quello che Mircea Eliade intendeva quando parlava dell’homo religiosus; espressione che non si riferisce, certo, soltanto a una persona che si domanda questo o quello... Ricordo una frase geniale, ma unilaterale, di Agostino: Quaestio mihi factus sum, «Sono diventato domanda a me stesso». Per quanto mi riguarda, penso di essere divenuto cosciente di me stesso, senza tuttavia «diventare domanda per me stesso». Ero già consapevole del fatto che se uno si interroga, c’è all’origine di questo atto un interrogante che è sempre, più o meno, al di fuori della domanda. Mentre la mia domanda ero io stesso...
Prendiamo l’affermazione di Heidegger: Das Fragen ist die Frömmigkeit des Denkens, «Il domandare è la pietà del pensare». Una proposizione del genere è anch’essa geniale, ma non riconosce essa pure che c’è sempre qualche cosa di interno – e più essenziale – al movimento dell’interrogare? Sono troppo buddhista per poter pensare altrimenti; e, decisamente, l’interrogare si situa per me su un piano diverso e impegna una problematica diversa.
Gw.J. In questo caso non saremmo forse ridotti al silenzio?
R.P. Sì e no. Perché la parola rimane. Ma quando la parola cessa di essere l’estasi del silenzio, essa diviene inautentica. Allorché separo la parola dal silenzio, non ho più altro che quella che si chiama chiacchiera, le parole di cui Matteo dice che dovremo rendere conto (Matteo 12,36). L’uomo dovrà rispondere di ogni parola che non sia un sacramento, che non sia una incarnazione del silenzio, poiché tali parole non hanno alcun valore.
Direi anche che tutto il linguaggio è più che un suono, perché dice qualche «cosa» che è al di là del dicibile. Il linguaggio è comunicazione perché ciò che esso trasmette supera il linguaggio. Il linguaggio è in effetti l’arte di esprimere l’ineffabile. Questo ineffabile è il senso del linguaggio nel linguaggio stesso.
Gw.J. Per arrivarvi, per scoprire una simile densità della parola, non è forse necessario accettare di compiere un enorme percorso? A volte non basta una vita...
R.P. Sicuramente. Così, per fermarci alla tradizione cristiana, essa non dice che la Parola è il principio, ma che essa è «nel principio» – non è il punto d’inizio, come farebbe pensare, falsando un po’ il significato, la traduzione consueta. «In principio era la Parola». In realtà il principio è il silenzio. È dal silenzio – il Padre, o anche il Niente in certe tradizioni spirituali – che nasce la Parola. E dunque, quando si rompe il legame fra silenzio e parola – mentre la parola è l’incarnazione, la rivelazione del silenzio –, questa parola non è più portatrice di alcunché, è vuota o mentitrice.
Sì, è vero, una vita, o piuttosto la vita ci è data per provare questo fatto. La vita, la mia vita, che non posso misurare in termini di tempo d’orologio o di tempo solare. L’ossessione dei giorni nostri, per la quale è importante aumentare la longevità umana, ci fa dimenticare di considerare la vita nei termini della sua densità. Pico della Mirandola che morì a trentuno anni, o il grande mistico Jnanadeva (Jnaneshvar) che morì probabilmente ancora più giovane, o Mozart che non visse che pochi anni di più, non avrebbero dunque vissuto veramente? Quando sento dire che la medicina è riuscita a raddoppiare e anche a triplicare la durata della vita dell’uomo, mi piace contrapporre quest’altro dato: gli animali in cattività vivono il doppio rispetto a un animale che vive in libertà. Ma che cosa è preferibile davvero, la cattività di uno zoo o la libertà – anche accettando il rischio di vivere secondo un ritmo che non dipende dal tempo dell’orologio o dal tempo solare? Se dunque serve tutta una vita, se serve la vita intera per arrivare a questa parola piena, si tratta comunque della vita misurata sul metro della sua profondità e della sua pienezza, e non in base a un tempo quantitativo e lineare.
Gw.J. Silenzio e parola. Lei ha scritto molto sul silenzio, in particolare un testo sul silenzio del Buddha. Le piace legare il silenzio e la parola. Di quale parola si tratta? Il silenzio di cui lei parla, è un’assenza di parola? O non è piuttosto l’altra faccia della parola?
R.P. Il silenzio autentico, certamente, non è assenza di parola. Ma a quale tipo di parola si trova legato? A quella che le tradizioni giudaica, hindu e greco-cristiana chiamano rispettivamente dabar, vac, logos – ossia, in tutti i casi, la parola primordiale.
«In principio era la parola», troviamo scritto in India sette o otto secoli prima di san Giovanni. Non è dunque qualcosa di nuovo... Nel Talmud, più o meno all’epoca di Giovanni, questa parola si chiama memra, la parola autentica, la più lontana da qualsiasi chiacchiericcio. Orbene, la parola è autentica quando procede dal silenzio. C’è un’affermazione straordinaria di sant’Ireneo (II secolo dell’era cristiana): «Dal silenzio del Padre nasce la Parola del Figlio». La parola nasce dal silenzio. La parola e il silenzio sono le due facce del mistero trinitario. Un adagio arabo dice: «Se le tue parole non valgono più del tuo silenzio, taci». Silenzio e parola sono strettamente legati fra loro. L’estasi del silenzio è la parola.
I testi dell’Aitareya Brahmana e di san Giovanni, e altri ancora, come ho appena ricordato, dicono appunto: «In principio era la parola»; ma la Parola non era il principio. Il principio – l’arché – è il silenzio. E dal silenzio nasce, appare, si rivela la parola. Il Padre è il silenzio, il Figlio è la Parola, il Logos. E ogni parola che non sia gravida di silenzio non è una parola. Ho già citato quel testo così forte del vangelo secondo cui ci verrà chiesto conto di ogni parola oziosa, inutile (Matteo 12,36)... L’aggettivo impiegato è aergón, ossia «che non ha energia», che non è sacramentale, che non è causa di quello che dice. Ma di questo noi abbiamo perso il senso. Ogni parola dev’essere sacramento, deve causare ciò che esprime, altrimenti è priva di forza, è senza efficacia.
Un aneddoto della vita di Gandhi illustra mirabilmente tutto questo. Dobbiamo inquadrarlo nel contesto dell’ashram dove allora viveva. Una delle donne dell’ashram chiede un giorno al Mahatma Gandhi nel corso di un sat-sang (una riunione): «Vorrei pregarla di far capire alla mia figlioletta che mangia troppi dolci; io continuo a dirle che così si rovinerà i denti, ma non mi sente; se glielo dice lei, forse le darà ascolto». Gandhi alza su di lei uno sguardo triste e non dice nulla. La donna si fa scrupolo di avere sbagliato, di aver detto qualcosa che non doveva dire. Alcune settimane dopo, incontra di nuovo Gandhi durante i servizi dell’ashram e avverte il bisogno di scusarsi con lui per averlo forse importunato. «Quando mi hai chiesto di parlare alla tua figlioletta – le risponde Gandhi – anch’io mangiavo molti dolci; ora sono guarito. Portamela, e le dirò che non bisogna mangiarne troppi».
Fino a quando chi parla non ha incarnato personalmente in se stesso quello che dice, le parole non hanno forza. Tutti i discorsi tipo «Siate buoni...», sono semplice bla bla. Prima, devo essere capace di dominare la mia personale golosità per i dolci; solo dopo potrò dire che non se ne deve abusare. «Portamela, le parlerò e lei mi obbedirà»... È questa la forza della parola che esce da un precedente silenzio, matrice di ogni parola. È per questo che la parola, quando è veramente parola, è rivelazione. Ed è per questo che, viceversa, la prostituzione della parola è uno dei più grandi peccati culturali dell’umanità.
Ho riflettuto sulla differenza fra la parola e il termine, il vocabolo1. Un termine è un segno scientifico destinato a localizzare un ente all’interno di una classificazione; mi aiuta a distinguere una cosa dall’altra. I termini sono semplici etichette che applico alle cose per poterle distinguere, per venderle o per farne una classificazione. Non sono simboli, i quali invece contengono la forza della parola. In ogni parola c’è una quaternità perfetta: ogni parola implica un parlante, un parlato, una cosa di cui si parla e una materia per mezzo della quale si parla – un suono, un fascio di nervi... Tutto questo appartiene alla parola che «era nel principio», perché era veramente nata dal silenzio.
È per questo che il silenzio non va confuso con il mutismo; non è semplice «assenza di parola», ma è il luogo della gestazione della parola. Una gestazione che si compie in virtù della forza stessa della natura, per così dire. Non posso farla nascere, starei per dire, prima dei nove mesi, cioè prima di averla meditata nel tempo normale della gestazione di quello che devo dire. Per questo la spontaneità che proviene dalle profondità, quella che si fa portare dall’entusiasmo, nel senso greco di trasporto divino, dipende da un silenzio interiore – allora sei tu che parli; mentre l’improvvisazione superficiale, che consiste nell’abbandonarsi alla piccola gioia della casualità, non conduce da nessuna parte. Oggi ci troviamo in una situazione di inflazione verbale in tutti i campi, che favorisce la superficialità di cui siamo vittime.
Gw.J. Torno alla sua espressione di «realtà tout court». È proprio qui, in mezzo a questa realtà, che lei ha fatto l’esperienza di una dimensione religiosa.
R.P. Sì. Ed è quasi una tautologia. Perché? La realtà, per dirla in forma molto semplificata, comporta per noi tre dimensioni. Possiamo esprimerci nel modo seguente: noi disponiamo di tre sensi che ci mettono in contatto con la realtà. Benché questa formulazione si sia imposta a me solo più tardi, di fatto sono sempre stato aperto alle tre dimensioni della realtà: la realtà sensibile, empirica, che rientra nell’area in cui si esercitano direttamente i sensi tradizionali della percezione; la realtà che mi viene rivelata dalla ragione che corregge i dati dei sensi; e una terza dimensione,...